IL CALDERONE #1 | Aristocrazia Webzine

IL CALDERONE #1

   
Introduzione: M1
Autore: Serpent Est
 
Membro di:

 

Per dare il via alla nuova rubrica de Il Calderone ho deciso di chiamare in causa un gruppo che sin dal principio della nostra avventura fu di casa su questi lidi. Sto parlando dei bresciani Kaiserreich, rappresentati dal cantante Serpent Est. La band black metal — che stimo per coerenza e capacità — è attiva da dieci anni, con una produzione composta dai due album "KRRH" ("estremamente derivativo, ma del quale non ci scuseremo", dice il mio interlocutore) e "Ravencrowned" ("una delle poche cose di cui sono realmente orgoglioso"), più uno split in compagnia dei Nocturnal Depression. Nell'attesa dell'imminente terzo disco intitolato "Cuore Nero" e del quarto già composto ("che accontenterà quanti lamentano l'eccessiva lunghezza delle nostre canzoni, trattandosi di un'unica traccia di circa trenta minuti"), Serpent Est ci ha donato una riflessione inerente l'importanza del "face-painting" nel black metal.


Salve a voi tutti,

questo spazio — nelle intenzioni della redazione — dovrebbe servire a condividere le esperienze dei musicisti con voi appassionati. E di cose da raccontare ce ne sarebbero in abbondanza: abbiamo incontrato l'organizzatore cocainomane che non smetteva di tirar su col naso o quello che ci ha condotto in un edificio fatiscente, mostrandoci poi una camera lurida e chiedendoci se fosse un problema, per noi, dormire con un barbone portoghese influenzato. Oppure c'era il compagno d'arte che si tagliuzzava prima del concerto, porgendoci poi la lametta (offerta gentilmente declinata) o il tale che, ubriaco, non smetteva di infastidire i presenti. Ah, no! Quello era uno di noi… E poi la groupie che chiedeva con cortesia please, fuck me (offerta stupidamente declinata), il check-in all'areoporto con i cinturoni di proiettili, la tizia su d'età che ballava il twist sotto il palco o la volta in cui il nostro intero pubblico era composto da tre singoli panzoni bontemponi, esaltati oltre ogni dire.

Ci sarebbero tante considerazioni su quello che succede dietro le quinte, considerazioni che spesso risulterebbero più interessanti di quello che i musicisti propongono una volta in scena. Ma quello di cui vorrei parlare è il tratto più caratteristico del black metal, almeno per chi resta legato a certi vecchi stilemi: il face-painting. Quella che per molti è sempre stata una pagliacciata o che per altri è invece un vezzo nostalgico, per il sottoscritto rappresenta un aspetto fondante di tutta l'esperienza musicale. Un aspetto senza il quale — non esito a dirlo — risulterebbe impensabile portare avanti la nostra proposta. Il face-painting offre una sorta di trasfigurazione attraverso la quale note, liriche e vibrazioni nefaste possono essere incanalate e dirette verso l'ascoltatore. Non che senza trucco non si possa suonare o cantare (succede ogni volta in cui facciamo le prove), ma ciò permette a quelle frasi e a quei riff di ammantarsi di un'aura primordiale e di incarnarli in qualcosa di feroce.

Il momento del trucco è un sublime atto introspettivo, un rito in cui ci si trova a fissare i propri occhi dentro lo specchio, alla ricerca di quanto di oscuro dimora in noi. Ogni tratto di nero è come una ferita inferta alla carne e all'anima, tetre invocazioni capaci di trascinare fuori dall'abisso quella parte di noi capace di credere fino in fondo a quelle note e a quelle parole. Quindi il Black Metal è un "trucco" a tutti gli effetti? Una patetica finzione? Sì e no. Come in molti altri aspetti della vita, di rado una persona è una singola entità immutabile. Il mutamento e la contraddizione sono parte di noi e all'interno del circo della musica, specie quella fortemente polarizzata come il metal, il contrasto stride ancor di più. E quindi sì, gran parte di quanto viene detto o suonato assume una sua verità solo all'interno della dimensione musicale, una dimensione che viene aperta a suon di distorsioni e urla laceranti.

Il palco diventa una finestra su questa realtà difforme e si richiude subito dopo la fine dell'esibizione, inghiottendo lo spettro che eravamo e permettendo al musicista di cessare la propria funzione di simulacro. Dopo il concerto, si levano i sipari e le luci si accendono, lo spettro svanisce e noi torniamo i cazzoni di sempre: quelli che imprecano fermi al semaforo, quelli che fanno la fila in posta o che vomitano blasfemie, questa volta credendoci eccome, quando andando in bagno di notte ci devastiamo un'unghia del piede contro lo stipite della porta. E d'altra parte, per una percentuale enorme delle liriche care al nostro genere, bisognerebbe essere meno che stupidi per avere l'ardire di pronunciarle. Ma è a questo che serve il face-painting: per evocare quella parte di noi che crede ciecamente in quello che facciamo senza che questo contamini la nostra vita, senza che questo ci trasformarmi in parodie di noi stessi o in poveri imbecilli afflitti da mille tristezze o — peggio ancora — in fantocci al servizio di qualche mitomane che ci desidera sanguinari e misantropi oltre ogni ragione.

Le linee nere sul nostro volto sono la firma del buio dentro di noi.
Le linee nere sul nostro volto sono l'eredità dell'ombra sopra di voi.
Le linee nere sul nostro volto sono il Black Metal.

Serpent Est
(Kaiserreich)