Avodah Zarah, sacro e profano nel black metal degli Amalekim
Una delle cose migliori che ti possono capitare facendo ancora quella strana roba che i nostri bisnonni chiamavano andare ai concerti, in qualche occasione, è conoscere gente nuova. Una chiacchiera, una bevuta insieme e finisce che fai amicizia. È stata questa la circostanza che mi ha portato a scoprire dell’esistenza degli Amalekim, l’anno scorso, dopo aver conosciuto Michele Varini — una costante del Frantic Fest, da poco subentrato nella band come chitarrista. Così, dopo averne recuperato il debutto, HVHI (uscito in digitale nel 2021 per Vomit Arcanus Productions e poi stampato in CD da Sevan Mater l’anno successivo), alla notizia del loro arrivo su Avantgarde non ho potuto fare altro che fargli i miei complimenti. Finire così velocemente su un’etichetta simile per una band messa su nel 2020 appena è un traguardo importante e, dato un ascolto in anteprima ad Avodah Zarah, non ho dubbi sul fatto che non si sia trattato di una coincidenza. A ventiquattr’ore dalla premiere su Black Metal Promotion, abbiamo pensato di approfondire la nostra conoscenza della band parlandone con Michele.

Avodah Zarah, l’idolatria: come siete arrivati a questo nome e che significato ha per voi questa scelta?
Come siamo arrivati a questo nome? È stato tutto molto fluido e naturale, allora eravamo nel vecchio studio di Nicolò [Paracchini, bassista, in forze anche ai Locus Animæ, per dirne una, NdR], ultimo piano di un palazzo nei sobborghi di Novara. Tante ore, tante birre, tantissime. Non sapevamo bene verso cosa stessimo andando, c’era però un flusso di idee che in vita mia non ho mai sperimentato. Ogni volta che ci trovavamo si tornava a casa con nuovo materiale — e con una severa sbronza. Eravamo sul balcone a fumare (e bere), ricordo che stavo cercando una citazione biblica che volevo usare per un testo. Francesco, facendo lo stesso, ha pronunciato queste parole, ed è stato come se fossero sempre state lì: Avodah Zarah, idolatria, ma anche culto straniero, come siamo noi, stranieri in questo mondo che va a rovescio. Non è stato casuale, ma non è stato cercato, ecco, diciamo che tutto ha portato in quella direzione, ci è comparso come una sorta di rivelazione.
C’è qualche legame, testualmente parlando, con HVHI?
HVHI è, in gran parte, una creatura di Brunon [Stawecki, chitarrista, voce e fondatore del progetto: classe 2005, signore e signori, NdR]. Ai tempi nessuno, salvo lui, era parte del progetto. Personalmente ritengo che, a parte la sua energia e la sua creatività compositiva senza fondo, che continuano a essere una parte fondamentale del progetto, ci sia davvero poco in comune. Nuove idee, venute da una formazione con background molto più eterogeneo, e forse anche una chimica diversa, una maggiore intesa, un processo di creazione che è davvero sinergico, altra cosa che raramente mi è capitato di sperimentare se si parla di musica.
Quanto ai brani, perlopiù ci sono dei Salmi in scaletta, tranne l’ultima traccia, “The Disease”. Come mai questa differenza? L’ultimo brano è arrivato dopo gli altri o non è sempre legato a doppio filo con quello che sembra essere tema di questo concept album?
Il disco, come si evince dal titolo, intende ruotare attorno al concetto dell’inversione. Dalla copertina, in maniera autoevidente, fino ai testi, tutto vuole essere intorno a questo concetto. Va precisato che, nonostante l’immaginario debba molto alla tradizione veterotestamentaria, gli spunti e le citazioni sono molte e molto variegate. È sicuramente un disco che ha diversi livelli di lettura e di approfondimento, che non vogliamo rivelare in maniera troppo scoperta, proprio perché vuole essere una conquista per orecchie attente e sguardi non intorpiditi, come troppo spesso succede oggi.
“The Disease” ha una storia tutta sua: è il primo pezzo che abbiamo iniziato a suonare con la nuova formazione, quando ancora Nicolò non era entrato organicamente a far parte del progetto. Allora provavamo dopo il lavoro, uscivamo tutti di casa alle sei del mattino con gli strumenti, una quantità di problemi e inconvenienti logistici che vi lascio immaginare. “The Disease” è completamente frutto del lavoro di Brunon, ma era un pezzo nuovo, inedito, e l’energia che ci ha dato, dal primo momento, quando ancora era quasi una jam in sala prove, non è mai sparita. Il pezzo è nel disco perché è parte integrante del suo spirito, del nostro spirito, potremmo dire, fuori dal concept di Avodah Zarah, totalmente nell’attitudine che abbiamo avuto nel produrlo. Il pezzo vuole essere un tributo a tutti coloro che si rifiutano di arrendersi: così è nato, così morirà, è un omaggio a chi sceglie di combattere sempre, a dispetto degli esiti.
Com’è stato composto Avodah Zarah? E com’è andata la fase di registrazione?
Come anticipato, una volta arrivato in formazione Nicolò, le sue abilità e la possibilità di usare il suo studio hanno permesso un flusso di lavoro praticamente continuo, per più di un anno. Le idee ci sono sempre state, Brunon soprattutto ci ha riempito di riff e di suggestioni, a qualsiasi ora del giorno e della notte — non sto scherzando. Siamo stati tutti ossessionati da questo lavoro, è diventato quasi un processo fisiologico. Ci sono stati pezzi molto lavorati, su cui abbiamo speso moltissime ore per pensare arrangiamenti, riscrivere le linee vocali, insomma per lavorarli al meglio, altri invece sono arrivati in maniera del tutto inaspettata e ci hanno conquistato fin da subito.
Dal vostro debutto a oggi ci sono anche stati dei cambi di formazione. Com’è cambiato l’approccio degli Amalekim alla musica, in questi anni?
I ragazzi che suonavano con Brunon prima sono ottimi elementi. Claudio [Invidia, negli ultimi due anni entrato a far parte di Infernal Angels e Devoid Of Thought, NdR] in particolare, credo sia uno dei batteristi più promettenti, sia per età, sia per capacità, che abbiamo oggi in Italia. Non posso parlare per loro non essendoci stato, ma credo che la gioventù e alcune incompatibilità caratteriali non abbiano permesso al progetto di procedere in modo funzionale, senza attriti e divergenze troppo consistenti. Una differenza grossa attualmente è di sicuro la maggior eterogeneità dei componenti, a incominciare da gusti musicali e vedute più variegate e, forse, più stimolanti. Sicuramente l’ingresso nella band di membri un po’ più esperti e ”vissuti” ha permesso decisamente di evolvere il sound verso qualcosa di più elaborato e un po’ meno grezzo rispetto al primo album.
Che poi di anni, dalla vostra formazione a oggi, ne sono passati pochi. Com’è che è nato il progetto?
Il progetto è nato con lo sgretolarsi della precedente formazione. Avevo avuto modo di vedere la vecchia formazione dal vivo, e avevamo avuto modo di scambiare pareri positivi sul loro lavoro, anche grazie a Carlo [Meroni, NdR] di ADSR Studio, amico di lunga data con cui avevano collaborato per creare HVHI. Insomma, la storia è che la formazione stava iniziando a disgregarsi: c’era una data in programma, credo fosse Halloween, e a Brunon serviva un turnista, così ha pensato di contattare me. Inizialmente questo doveva essere, coprire una data come session dopo anni lontano dai palchi: affare fatto.
Con il passare delle settimane la situazione è cambiata, arrivando a dover rimpiazzare non solo un chitarrista, ma tutti i precedenti membri della band. Serviva un batterista, da subito ho pensato a Francesco [Mainini, NdR], altro amico di vecchia data, con cui avevo sporadicamente e discontinuamente suonato. Era un’occasione mai vista di unire una serie di cose nella stessa realtà. Le prime prove assieme hanno funzionato da subito, creando un feeling che non è mai cambiato. L’ultimo tassello era Nicolò, altro amico con cui avevo già avuto modo di suonare, con un’esperienza che parla da sola. Insomma, in maniera un po’ riduttiva questo è ciò che è successo, anche se in realtà è molto più rocambolesco di quanto si potrebbe rendere a parole.
In Avodah Zarah è palese il vostro legame con la Svezia e col black melodico di gente come i Dissection. Tra una cosa e l’altra però mi sono tornati in mente anche gli Shining, durante i vari ascolti, come anche i Cult Of Fire e, perché no, Gevurah e Akhlys. Quante sono mie fascinazioni e quanto di loro, invece, c’è nei vostri ascolti?
Sicuramente siamo tutti cresciuti con i Dissection, ma questo credo valga per la maggior parte delle persone che oggi ascolta questo genere. Credo che la loro influenza fosse molto più marcata in HVHI, ma non penso che ti sbagli, sinceramente sento la loro influenza in moltissime cose che ascolto, questo semplicemente perché sono stati una pietra miliare e hanno segnato un gradino nella storia di questa sottocultura. Per quanto riguarda Gevurah e Akhlys, sono un grandissimo fan, penso che i rispettivi ultimi lavori siano tra le uscite più interessanti degli ultimi anni, ma non saprei dire quanto abbiano influenzato nella composizione del nostro disco. Brunon è, anche per motivi biografici, molto legato alla scena polacca, inutile dire che band come Mgła e Odraza sono tra gli ascolti che prediligo anche io. Francesco da parte sua è molto legato a un black metal che potremmo definire più old school, mentre Nicolò ha dei gusti davvero poliedrici. Questo sicuramente ti posso dire riguardo Avodah Zarah: ci sono tante influenze classiche, ci sono tante influenze difficili da decifrare, anche per noi.
Restando invece in Italia, c’è qualche progetto in particolare a cui siete legati e con cui un giorno vi piacerebbe condividere un palco? Non so se mi spiego, *wink wink* proviamo a lanciare qualche frecciatina agli eventuali promoter che ci leggono *wink wink*.
Personalmente parlando, sono convinto che l’Italia abbia tantissimo da dare. Solo per citare uno tra i miei artisti preferiti, abbiamo un certo Gionata Potenti [Chaos Invocation, Darvaza, Frostmoon Eclipse, Liber Null, Nubivagant, ex Blut Aus Nord ed ex Handful Of Hate, giusto per fare un po’ di nomi, NdR], non credo serva aggiungere altro. Lo stesso Gabriele Gramaglia [Cosmic Putrefaction, Hadit, Summit, The Clearing Path, Turris Eburnea e Vertebra Atlantis, NdR], che ci ha aiutato tantissimo e ci ha supportato in tutti i modi immaginabili, credo sia una figura che ha bisogno di poche presentazioni. Devo citare sicuramente anche Andrea Collaro [Devoid Of Thought ed ex Fuoco Fatuo, NdR], che sta facendo un lavoro titanico, e tutti i ragazzi che con lui suonano o lavorano, un’isola felice in un mondo che, diciamolo, non sempre è rose e fiori. Altro nome difficile da non notare è Nicolò Brambilla [Aphotic, Blasphemer e Fuoco Fatuo, NdR], talento non solo sul palco, ma anche a livello di gusto e di coraggio nel portare qui in Italia tantissimi nomi che altrimenti non avremmo mai avuto occasione di sentire dal vivo. Ci sono così tante realtà virtuose che il rischio è di escludere qualcuno, ma da ultimo, sia per affezione personale sia per indiscutibile qualità, è il Frantic di Davide Straccione — che a sua volta non necessita di essere presentato — e di tutti i ragazzi che con lui collaborano, ultimo baluardo, in territorio nazionale, per quanto riguarda festival di questo tipo.
“Nuovo album, nuovo tour”, mi viene da pensare. Avete già qualche data pronta per i mesi a venire per promuovere Avodah Zarah?
Stiamo lavorando anche su questo, non tarderanno news a riguardo.
Siete contenti di com’è uscito il vostro nuovo album, complessivamente?
Non potremmo essere più contenti, anche perché abbiamo avuto la fortuna e il privilegio di lavorare con professionisti di abilità e professionalità rara. Carlo, che ci ha registrato le batterie, Nicolò, che oltre a suonare con noi ha erogato una quantità di ore infinite nella cura delle registrazioni, Gabriele, che con il suo lavoro ha dato un suono a questo disco che mai avremmo pensato possibile.
Ci fosse qualcosa che poteste cambiare, cosa cambiereste?
Sinceramente non mi sento di rimpiangere nulla, anche varie esperienze avute che non sono state nemmeno lontanamente brillanti ci hanno insegnato qualcosa, è un percorso di crescita che ci ha fatti arrivare al punto in cui siamo. Non siamo arrivati da nessuna parte, ma siamo migliorati, e credo che questo sia in parte lo scopo, non solo della musica, ma dell’esistenza.
In ultimo, ma solo perché tra una cosa e l’altra mi torna in mente adesso. HVHI è uscito come autoproduzione, Avodah Zarah ha attirato l’attenzione di Avantgarde Music. Com’è fare il passo in avanti e approdare su una delle etichette di maggior impatto sul genere di sempre?
Avantgarde è stata una delle migliori notizie di quest’anno, per tutti noi. Sicuramente dobbiamo moltissimo ad Andrea, che si è veramente speso per noi in tutti i modi, e che non potremo mai ringraziare abbastanza. È un onore essere in un roster simile e siamo consapevoli che questa sia una grandissima occasione di crescita. Non penso serva spendere più parole del dovuto per quanto riguarda il profondo cambio di paradigma. Abbiamo un team di professionisti che sono sempre pronti a darci una mano, a portarci la loro esperienza: insomma, lavorare con una realtà come Avantgarde non è minimamente paragonabile con quello che avremmo potuto fare da soli.