Tribalismi, umanità e il battito vitale dei tamburi: un’intervista con Lili Refrain
Un disco nuovo con annesso debutto al Roadburn, festival europei a iosa e un esclusivissimo tour con gli Heilung a fine anno: il 2022 di Lili Refrain è decisamente pieno di avvenimento e impegni. Le abbiamo fatto un po’ di domande su Mana ma non solo, conoscendo un po’ meglio l’artista e la persona, che in questo caso tendono a combaciare più che mai.
Ciao Lili, benvenuta su Aristocrazia, finalmente anche in sede di intervista oltre che di recensione! So che sei già immersa nelle tue date in giro per l’Europa, quindi ti chiedo subito: come sta andando il tour?
Ciao, grazie mille per l’accoglienza e per la vostra bellissima recensione! Il tour sta andando davvero alla grandissima! Già il solo fatto di essere tornata a viaggiare con la mia musica mi fa sentire in un vero e proprio stato di grazia e sono felice oltre misura! Ho incontrato persone straordinarie, viaggiato assieme a musicisti incredibili come The Devil’s Trade e Forndom con cui ho condiviso una buona parte del mese di aprile e macinato una grande quantità di chilometri in quasi tutta l’Europa, ho esplorato luoghi dove non ero mai stata prima come la Finlandia, l’Estonia e la Norvegia e ho ricevuto un’accoglienza e un calore al di sopra di qualsiasi aspettativa.
La cosa più vertiginosa in assoluto è successa in Danimarca quando dopo il concerto ho ricevuto dei feedback pazzeschi da queste creature splendide che ho poi scoperto essere gli Heilung… svenendo in terra dall’incredulità! Ho avuto l’onore di suonare in festival mitologici come il Roadburn e a breve sarò sul palco dell’Hellfest. Sono ancora in fase di tante elaborazioni e sinceramente ci sono volte in cui non mi sembra vero tutto quello che sta capitando.
Ecco, l’elefante nella stanza a questo proposito è ovviamente il Roadburn. Suonare lì proprio il giorno dell’uscita sembra il frutto di un allineamento astrale, ci racconti come si è arrivati a quest’esibizione e come ti sei sentita su un palco simile?
Il Roadburn è sempre stato uno dei festival più incredibili d’Europa e per me è stato un onore smisurato poter suonare su uno dei suoi palchi. Tutto è iniziato con l’uscita di ULU nel 2020, che è arrivato alle orecchie di Walter ed è stato inserito con mia grandissima sorpresa nella playlist del Roadburn come uno dei dischi capaci di alleviare il disagio pandemico. Sono stata invitata un anno dopo a presentare un live in streaming per il Roadburn Redux, che avrebbe sostituito il festival fisico con un’edizione online ma ho deciso di declinare perché avrei sicuramente snaturato qualcosa che per me nasce come profonda connessione fisica e assolutamente dal vivo, quindi sarei stata totalmente incapace di dare il meglio di me attraverso uno schermo e ho preferito attendere. Finché quest’anno si è concretizzata la possibilità di suonare dal vivo in quel di Tilburg e senza restrizione alcuna.
Stavo ancora registrando Mana quando ho ricevuto la notizia che la mia presenza al festival era stata di fatto confermata, e con Davide della Subsound Record abbiamo pensato che far coincidere l’uscita del disco con il live al Roadburn sarebbe stato un regalo enorme visti i tempi appena vissuti. Ed è stato straordinario! C’era un’atmosfera pazzesca e persone da ogni parte del globo, il live è stato accolto con un’energia enorme, e sebbene non potessi scendere dal palco, sono riuscita comunque ad avere molta interazione con il pubblico e credo sia stata molto apprezzata. È stato commovente su molti piani e mi sono sentita totalmente a casa grazie all’immenso calore ricevuto.
Alla sua uscita, hai definito ULU come una sorta di anticipazione di Mana. Quanto di questo nuovo disco esisteva già a marzo 2020?
ULU è stato un ponte per me. Assieme alle chitarre che sono state lo strumento con cui mi sono maggiormente espressa fino ad ora, ho iniziato ad introdurre molto gradualmente quella che adesso è la mia nuova strumentazione, aggiungendo un timpano da batteria e un piccolo synth, tutto sempre accompagnato da una massiccia presenza chitarristica. ULU è nato durante i miei live e questa sua natura è resa anche su disco, per la prima volta ho registrato un vero e proprio live in presa diretta al 16th Cellar Studio di Roma. Ma per Mana il lavoro è stato completamente diverso soprattutto dal punto di vista compositivo oltre che concettuale. Gli strumenti introdotti timidamente con ULU sono diventati i protagonisti in Mana, e non è stato affatto immediato per me, anzi. Scostarmi così tanto dalle mie chitarre è stato molto difficile e mi ha messo davanti a un lavoro molto lungo e complesso dove ho voluto mettermi totalmente in gioco. Nulla di quello che è accaduto esisteva prima. Anche e soprattutto il lavoro sui suoni è stato molto complesso e davvero tanto diverso da tutto ciò che avevo prodotto in passato: sarò eternamente grata a Stefano Morabito del 16th Cellar Studio per essere stato al mio fianco in questo durissimo lavoro, dimostrandosi non solo il fonico eccellente che è, ma anche una preziosissima guida dal punto di vista della produzione.
Questi due anni decisamente diversi dal solito come hanno influenzato lo sviluppo dell’idea originale? Ti sei scostata di molto oppure hai seguito in linea di massima quanto avevi già immaginato all’epoca?
Il percorso e tutta la ricerca attorno a ciò che oggi suona come Mana nasce da molto prima della pandemia in realtà. Determinante è stato sicuramente lo studio del Taiko che avevo iniziato già da qualche anno e che continuo a studiare nella scuola di Rita Superbi, donna straordinaria e maestra suprema di questa nobile percussione giapponese che unisce due delle mie passioni più grandi che sono la musica e le arti marziali; lei è l’unico ospite musicale di questo disco peraltro! Il tempo lento degli ultimi anni mi ha permesso di sviscerare e approfondire molto più intimamente la conoscenza dei nuovi strumenti usati e questo mi ha portata in lande davvero inaspettate di cui posso sinceramente dirti che nulla poteva essere immaginato all’epoca! Prima di questo disco ho scartato una grandissima quantità di brani, finché non ho deciso di fare tutto senza zone confortevoli e mettere totalmente da parte le chitarre con cui ho iniziato a sentire il limite di un discorso già fatto.
Gli ultimi due anni sono stati una totale catastrofe politica e sociale, ma insieme si sono rivelati anche molto costruttivi, illuminanti e per certi versi anche molto belli nelle loro difficoltà, o almeno ho cercato di vivermeli al meglio che ho potuto. In quel periodo ho iniziato a organizzare concerti pirata con il mio meraviglioso compagno di vita e avventure sotto il nome di Wet Mary Production & Figlio, il primo anno abbiamo fatto uscire anche una compilation con tutte le band che hanno deciso di accogliere il nostro invito e ho portato la mia musica a domicilio facendo piccoli live nelle case di chi ha voluto ospitarmi. Credo che questo stato di cose, molto più della pandemia in sé, abbia avuto una notevole influenza sul mio operato perché mi ha portata a vivere molto più da vicino quelli che sono i sempre più rari scambi del tutto incondizionati tra le persone e, in un momento in cui sembrava quasi proibito averne, hanno avuto tutto un altro impatto. Non è un caso che il disco si intitoli proprio Mana.
Già da un primissimo approfondimento del suo concept, mi verrebbe da dire che ci sia un interesse antropologico oltre che ovviamente l’enfatizzazione di una spiritualità universale. Da cosa nasce la tematica del disco e come si sono evoluti i singoli brani? Mi sembra che la tracklist segua un filo logico.
La mia musica non è separata dalla mia vita e dalle mie riflessioni, è il canale attraverso il quale cerco di sublimare alcune cose. In questo caso tutto è partito dalla riflessione sul tipo di società che ci siamo costruiti attorno, sulla sua totale disfunzionalità e su questo particolare momento storico in cui siamo in bilico su qualcosa che potrebbe trionfalmente crollare da un momento all’altro o prendere un ostile potere sempre più difficile da estirpare. Nel processo compositivo non è stato qualcosa di realmente cosciente, ma a un livello molto più interiore è stato naturale tirare fuori una sorta di risposta sonora a questi pensieri e sensazioni. E alla fine è uscito fuori qualcosa che si è spontaneamente collegato a ciò che per me è una buona via per imparare a far meglio, per potenziare la propria energia in favore di un accrescimento o miglioramento del sé e del proprio impatto sul mondo esterno e il Kung Fu, al quale questo disco è dedicato, è certamente una tra queste.
Questa disciplina mi ha spalancato un universo non solo insegnandomi ad usare la mia energia e la mia forza fisica ma anche ad avere una precisa attitudine proprio nella vita, con uno sguardo sempre rivolto a un attento ascolto interiore e una rilassata concentrazione a non perdere di vista il focus nella realtà circostante. Si parla di equilibrio e del duro allenamento per ricrearlo quando si perde. La musica in questo senso non è molto distante dal Kung Fu! Un’altra risposta è il viaggio come forma suprema di conoscenza e di superamento del sé. Poter esplorare e scambiare saperi con chi come noi è un momentaneo ospite di questo pianeta e poterlo fare in tutti gli spazi e in tutti i tempi, apprendendo nuove abilità e unendo le energie per lottare assieme nell’abbattimento di qualsiasi confine fisico, geografico e mentale che sempre più spesso ostacola questo scambio e questa enorme conoscenza, che in quanto figli del mondo ci meritiamo tutti e allo stesso modo.
Non avevo dubbi che quanto riversi in musica rifletta perfettamente anche la Lili persona. Qual è il tuo approccio alla sfera spirituale?
Sinceramente non saprei dire quale sia il mio approccio spirituale… Sono molto distante da qualsiasi tipo di religione, mi piace osservare la natura in tutte le sue molteplici connessioni, nei suoi furori, nella sua quiete, nella sua violenza e ciclica luminosità. Percepisco il potere che possiede ogni cosa che abita questo pianeta e, nel mio piccolo, cerco di imparare a trovare degli equilibri costruttivi e a mia volta poter restituire.
Cosa è cambiato a livello compositivo rispetto ai dischi precedenti? Questa volta l’equilibrio tra chitarra e sintetizzatori è decisamente spostato verso i secondi e mi ha colpito anche la varietà nelle tecniche vocali.
Dal punto di vista compositivo ho continuato a fare grande uso di loop in tempo reale che è un po’ ciò che contraddistingue il mio progetto fin dal 2007, ma avendo usato per tanti anni prevalentemente chitarre e voce ho sentito la necessità di uscire dalle frequenze medio-alte che contraddistinguono questi strumenti, esplorando più le basse. Ho inserito quindi percussioni e synth ma continuavo a sentire il vincolo delle sei corde quasi come un limite espressivo, poiché da sempre il mio strumento principale. E nulla, dopo aver scartato una discreta quantità di brani ho compreso che dovevo prendere una radicale distanza da tutto ciò che mi era più familiare e addentrarmi in tutt’altro con maggiore libertà. Questo mi ha permesso di lasciare molto più libera anche la voce ed esplorare tecniche che mi incuriosivano e che non avevo ancora mai usato.
Quando hai capito di voler mettere in piedi un progetto solista in tutto e per tutto? Chi o cosa ti ha spinto a intraprendere questa strada?
Uh, questa è una storia lunga… Ho suonato a lungo con altre band in passato, ma per un motivo o per un altro era davvero molto difficile portare avanti dei progetti a lungo termine. Non ho mai pensato di suonare da sola, sinceramente, ma fin dall’infanzia mi divertivo a sovrapporre le mie voci su cassetta usando uno stereo che avevamo in casa. Facevo la stessa cosa con le chitarre per esercitarmi a fare assoli su arpeggi che registravo sempre su cassetta, finché non mi sono procurata un Tascam a sei piste sempre a nastro sul quale ho iniziato a sovrapporre molte più tracce. Tutto è iniziato in quel momento in realtà, ma non lo sapevo ancora. Ero una studentessa in quel periodo, pur essendo a Roma vivevo fuori casa già da un po’ e per pagarmi gli studi e l’affitto lavoravo duro, soprattutto la sera in un ristorante. Stavo per finire gli studi quando è cambiato l’ordinamento universitario e il professore con cui avrei dovuto laurearmi venne sostituito con un altro col quale mi sono trovata malissimo. Abbiamo avuto degli screzi durante una lezione in cui sosteneva cose folli sulla musica contemporanea, denigrandola senza contestualizzarla storicamente, e quando mi sono trovata proprio lui come relatore e gli ho presentato la mia tesi su Ligeti, che all’epoca era ancora in vita e che probabilmente non sapeva neanche chi fosse, mi ha detto che era meglio orientarsi su qualcosa di più convenzionale e lasciar perdere tutto questo sperimentalismo.
Questa cosa di trovarmi alla fine di un percorso dopo aver fatto innumerevoli sacrifici e trovarmi davanti un idiota che mortificava ogni mia ricerca e tutto il percorso per arrivare fin lì mi ha portata verso una depressione infinita. Una delle prime persone con la quale mi confrontai sull’accaduto fu mio padre, che al posto di una scontata ramanzina sull’importanza di finire gli studi mi sorprese, chiedendomi quale fosse per me la cosa più importante, quella che mi faceva sentire viva nel mondo e, per quanto difficile, perseguire la strada che mi avrebbe condotta fin lì, che di vita ce n’è una sola e non valeva la pena sprecarla con dei rimpianti… Lili Refrain nacque in quel momento. Sono infinitamente grata anche e soprattutto a Francesco Viscuso, fotografo e artista visionario straordinario con cui stavo convivendo in quel periodo e con cui sono nate mille collaborazioni. Oltre a supportarci vicendevolmente in ogni cosa pazza che ci veniva in mente, mi ha dato la possibilità di concretizzare il mio progetto regalandomi quella che è stata la mia prima loop station e, dopo quindici anni, eccomi qui.
Con un modo di creare musica come il tuo, credo che avere un supporto fidato esterno sia fondamentale. Il sodalizio con Subsound Records va avanti da quasi dieci anni ormai: questa collaborazione si concretizza anche in altri modi oltre agli aspetti puramente legati alle pubblicazioni?
I miei primi due dischi sono stati autoprodotti e sebbene facessi già i miei primi live in giro ho avuto sempre una gran difficoltà a trovare delle etichette che credessero nel mio progetto. Per alcuni era troppo sperimentale, per altri troppo metal, per altri ancora troppo di nicchia, altri non pensavano che la resa live sarebbe stata interessante e altri ancora avevano troppi gruppi a cui produrre dischi, quindi ho proseguito il mio tragitto autoproducendomi e cercando di suonare il più possibile. Dopo sei anni di live tra Italia ed Europa è arrivato Kawax e con lui ho avuto l’attenzione di Davide, che si è da subito rivelata la persona perfetta, sia professionalmente che umanamente, e abbiamo spaccato tutto assieme! Per la prima volta ho avuto a che fare non solo con un’etichetta vera e super professionale ma anche con una persona che ha creduto visceralmente nel mio progetto e che non ha mai smesso di supportarmi in tutto e per tutto. Kawax è andato sold out per ben due volte e siamo alla terza ristampa attualmente, con ULU le sorti son state ben diverse a causa della pandemia e in quel momento è stata durissima soprattutto per lui che aveva appena sostenuto i costi di tutta la produzione del bellissimo (e costosissimo) picture disc che — con il blocco soprattutto dei concerti dal vivo ma anche con la chiusura dei negozi di dischi, i blocchi della distribuzione e tutta la complessità legata anche ai tempi immensi delle spedizioni — è stato davvero complicato far vivere così com’è stato per Kawax.
In quel momento, in cui eravamo tutti totalmente spiantati economicamente, Davide non si è mai tirato indietro né con la promozione del disco, né con il suo totale sostegno nei miei confronti e mi ha aiutata tantissimo anche in un momento di super difficoltà personale, e queste son cose che fanno gli amici, non le persone che ti vedono solo come un ritorno economico, come accade purtroppo in ben altri ambiti. Quindi quando stavo lavorando a Mana per me è stato del tutto ovvio e naturale continuare a collaborare con Davide e ne sono entusiasta perché il disco è venuto fuori un vero capolavoro!
Tra le date previste nell’ultimo periodo ce n’era una, purtroppo annullata, sul fiume Tagliamento. Considerata la tua natura e quella della tua arte, se potessi scegliere, faresti più concerti in contesti naturali e intimi piuttosto che in altri più tradizionali?
Non ho questa separazione, sai? Qualsiasi luogo è in potenza un luogo adatto a ospitare un concerto e l’intimità è data più che altro dalla sinergia che si crea attorno a esso più che dal contesto. Nella natura è tutto bellissimo ovviamente, ma personalmente non avendo un progetto acustico e dai volumi garbati, è senza dubbio più difficile, sia perché ho bisogno di molta elettricità e sia perché con i miei suoni spaventerei alcuni dei suoi abitanti animali. Capre e mucche ho sperimentato che ne sono invece molto attratte! Sul Tagliamento spero di riuscire a recuperare prima o poi, anche optando per un live creato ad hoc per il posto, mi preme più che altro sostenere tutta la lotta contro la costruzione dell’inutile autostrada che devasterebbe quel sublime paesaggio e le splendide persone che da anni si stanno battendo senza sosta per questa importantissima causa.
Foto di Tania Alineri.
Lili Refrain suonerà per cinque date in Italia a settembre, più una data a Milano, il 9 dicembre, con Heilung ed Eivør.