Trovare la pace nelle piccole cose: il ritorno di Mizmor
Uno dei tanti aspetti peculiari della musica del male — soprattutto per certi sottogeneri — è il suo effetto catartico, la capacità di trascinare l’ascoltatore e innescare un processo interiore. È possibile che, proprio per la natura estremamente soggettiva dell’esperienza di chi ascolta, rimanga un po’ in secondo piano quanto provato dall’artista stesso, che in certi casi sperimenta una vera e propria sofferenza fisica e mentale nell’elaborare traumi e visioni del mondo o anche per trovare una soluzione, un punto fermo a crisi personali.
Tra i casi più eclatanti degli ultimi tempi c’è quello di Mizmor, parola ebrea che significa salmo e dietro la quale si cela Liam Neighbors, alias A.L.N., polistrumentista dell’Oregon e mente di uno dei progetti più significativi del black-doom metal degli anni Dieci. Dopo aver iniziato il nuovo decennio con Wit’s End e Myopia, collaborazione con i Thou, è stato il momento di dare una sterzata concettuale con Prosaic: Liam ci ha spiegato un po’ di cose riguardo questo nuovo lavoro pubblicato, pochi giorni fa da Profound Lore.
Partiamo con il titolo. Il termine prosaic — anche in italiano — ha una connotazione piuttosto negativa: banale, noioso… L’album ovviamente non risulta noioso, quindi qual è il significato del titolo?
Il significato sta nel parlare della vita di tutti i giorni, più o meno. Questa routine quotidiana in cui ci ritroviamo, spesso costruita attorno al lavoro e a compiti da svolgere, che spesso danno molto significato alla vita ma che possono diventare monotoni e addirittura fastidiosi. Ho riflettuto sul fatto che per quanto la vita di una persona può sembrare eccitante in superficie, nel cuore della vita di ciascuno di noi c’è la stessa esperienza, la stessa coscienza, svegliarsi ogni mattina e decidere cosa fare di quel giorno, mettere i piedi per terra e via dicendo. Può sembrare una cosa negativa, c’è un senso di futilità e mancanza di significato che può insinuarsi quando si riflette su questa cosa, ma non deve essere necessariamente così. Potrebbe essere qualcosa di neutrale o addirittura positivo, e svolgere compiti e azioni può essere incredibilmente profondo e meditativo. Quindi direi che c’è quasi dell’ironia nel titolo Prosaic, ma credo che fosse adatto perché stavo cercando di realizzare un album meno epico e grandioso, che celebrasse più le piccole cose e la semplicità.
Anche la copertina riporta a uno stile di vita più semplice e legato al passato. Non direi autosufficiente, ma qualcosa del genere, più concentrato su se stessi piuttosto che su un obiettivo poco realistico. Non so se sia questo il caso, però ci vedo una sfumatura sociale, come l’insostenibilità del capitalismo e un’idea di lavoro sfiancante che non ci porta a un benessere diretto e personale. E usare il proprio tempo lavorando per qualcosa che ci renda più felici invece che per qualcosa che è molto distante dalla singola persona.
Sì, è una buona riflessione. Questo aspetto sociale non era tra le mie idee principali mentre scrivevo il disco, ma penso che nel proprio subconscio abbia un effetto su come ci sentiamo riguardo al nostro lavoro e alla nostra relazione con esso, e al significato che dà alla nostra vita. Mi trovo molto d’accordo con la seconda cosa che hai detto, la parte emotiva del lavoro, e credo che si ricolleghi al nostro atteggiamento e alla nostra attitudine che possiamo assumere nei confronti di qualsiasi cosa nella vita, delle esperienze soggettive e della coscienza in generale. Ci sono però delle cose che vale la pena considerare riguardo le esperienze in sé che credo, per me personalmente, vengano sottolineate dai compiti che svolgiamo, come per esempio distaccarsi un po’ e non identificarsi necessariamente con la sofferenza che può nascere da ciò che si fa nella vita. E in mezzo a quella sofferenza trovare un posto che sia più solido e tranquillo, neutro o positivo, nonostante intorno a noi accadano in continuazione cose che non sono proprio l’ideale e il meglio che possa esserci. Non c’è bisogno di essere così incazzati o soffrire per il solo fatto che viviamo nella sofferenza. Si può essere meno severi e reattivi riguardo tutto ciò, si può vivere il momento per com’è e può andar bene così.
Con Prosaic hai sentito il bisogno di fermarti un attimo e alleviare la pressione? I primi dischi erano molto personali, Wit’s End non lo era così tanto ma era comunque molto pesante, con le sue riflessioni riguardo dogmatismo e tendenze anti-scientifiche durante la pandemia. Mi sembra sia una cosa tipo: fermiamoci un attimo e concentriamoci su cose più semplici.
Assolutamente. Non è stata una cosa intenzionale, nel senso che è stato un processo naturale e il punto in cui sono arrivato con i miei pensieri e i miei sentimenti, ma ho speso talmente tanto tempo negli ultimi dieci o undici anni a pensare a concetti come la fede, la perdita di fede, Dio e la cristianità… Ci è voluto un bel po’ per processare tutto ciò, ma è stato rigenerante, quel capitolo della mia vita è chiuso e l’ho accettato. Non ho molto altro da dire a riguardo, per adesso. Quel viaggio ha avuto una sua conclusione, ora ho altre cose per la testa e voglio condividerle. In un certo senso mi sento liberato dal bisogno di doverne parlare.
Hai ragione riguardo Wit’s End: ho deciso di parlare dell’umanità invece che di me stesso, ma parlavo comunque di un sacco di gente guidata da cattive idee, delle quali la religione era una, quindi sentivo di essere comunque legato al percorso tracciato dal resto della mia discografia. Con Prosaic penso invece che sia tutto nuovo e fresco: posso parlare di qualunque cosa, come se avessi trasceso questa parte della mia identità. Occhio, non verrà mai esclusa dalla persona che sono diventato, con tutto quello che ho passato, e sono tuttora molto interessato alla religione e alle storie delle persone che sono riuscite a superare l’indottrinamento, i dogmi e quant’altro. Sarà sempre così, ma non c’è altro da analizzare per me, quindi è come se fossi tornato all’inizio. Cosa succede adesso? Cosa c’è dopo il credere in qualcosa? Beh, sono qui, esisto in questa realtà assurda, mi sa che parlerò di questo.
Quindi continuerai a essere Mizmor, dato che è un’entità strettamente collegata a te come persona, anche se quel percorso è arrivato a un punto tendenzialmente tranquillo e pacifico.
Sì, mizmor in ebraico significa salmo e ho scelto questo nome perché all’inizio scrivevo letteralmente preghiere in musica rivolte a Dio. Con il passare del tempo le canzoni sono diventate sempre meno rivolte a Dio, essendo diventato agnostico e poi ateo. Il processo riguarda sempre me che elaboro pensieri e sentimenti, medito, rumino in maniera catartica e terapeutica anche se adesso è un discorso completamente laico. È come se fossero ancora salmi in un certo senso, ma è diverso: tutto ciò è diventato una grande parte della mia identità e non vedo il motivo di cambiare nome, dato che il meccanismo è sempre lo stesso.
Non ho avuto ancora modo di leggere i testi, ma c’è un arco narrativo o qualcosa di simile? Puoi dirci qualcosa, oltre a quanto già detto sulle tematiche?
Certo, Prosaic è appositamente meno concettuale dei miei altri lavori. All’inizio volevo quasi fare un anti-concept album, perché avevo la sensazione di essermi incartato con quei dischi molto concettuali. Al momento, con la mia arte, sono a un punto in cui mi sembra una cosa quasi viziosa e ho voluto fare qualcosa di più umano, crudo e diretto, quasi irriverente al confronto con i miei precedenti dischi. Dire qualcosa di semplice e sincero, senza pianificarlo nei minimi dettagli né perderci il sonno, può avere molto valore, essere importante e profondo. Ciascuna canzone su Prosaic — anche se a posteriori posso tracciare una linea che ne identifichi il senso generale — parla di quattro cose diverse.
La prima canzone, “Only An Expanse”, riguarda il tempo: il passaggio del tempo, l’illusione di esso come un costrutto lineare, con il passato dietro e il futuro davanti, due cose a cui pensiamo costantemente. Rimorsi e preoccupazioni, paure e ansie, nostalgia, e non è che il passato non abbia importanza, ma credo che sia un bene rompere questo schema, tornare al presente e rendersi conto che c’è solo una grandissima distesa di coscienza ed esperienze. Non serve identificare ogni singolo pensiero nel momento in cui ti spunta in testa, ogni singola preoccupazione per il passato o il futuro che può mandarti in tilt e farti dubitare della tua identità, o di chi vuoi o vorresti essere, facendoti perdere il momento e le nude sensazioni: il tatto, gli odori, la pressione, il caldo, un formicolio e via dicendo.
La seconda canzone, “No Place To Arrive”, parla della consapevolezza, del vivere il momento, di distrazioni e di concentrazione. Spesso mi trovo a pensare cose tipo se solo potessi A, B e C, allora mi sentirei più X, Y, Z, contento, felice o che altro. Se solo potessi fare questo, allora questo, come se ci fosse un’utopia o un posto che prima o poi raggiungerò dove non esistono i problemi. Nella realtà, le cose da fare non finiscono mai. I problemi continuano a esserci, ne spuntano di nuovi non appena se ne risolvono altri e non c’è un posto in cui questa cosa si ferma e nel quale potresti immaginarti in una condizione di felicità perfetta. Non puoi essere più vicino a quella condizione di quanto tu non lo sia adesso, in questo momento, quindi apprezza il fatto che sei qui, adesso, e cerca di trovare un po’ di felicità ora invece di far finta che la raggiungerai in futuro, quando ti daranno un aumento o una cosa del genere. Ovviamente non dico che non dovresti provare a migliorare te e ciò che ti sta intorno: credo che dalle circostanze esterne dipenda una buona parte di felicità e se puoi cambiarle dovresti provarci, ma alla fine c’è anche una parte interiore indipendente dall’esterno, ed è ciò di cui parla la canzone.
“Anything But” è una canzone riguardo il fuggire il momento attuale: quando vogliamo distrarci e anestetizzarci, soltanto sederci in silenzio ed esistere, perché l’esistenza è talmente dolorosa e a volte impegnativa che desideriamo soltanto qualcosa che ci intrattenga e non ci faccia pensare. Molte volte, però, c’è un’altra illusione da distruggere: l’esistenza non deve per forza essere dolorosa, bisogna provare a non essere così critici e reattivi e permettere a noi stessi di essere in pace con il disagio della vita.
L’ultima canzone, “Acceptance”, riguarda la depressione, quel ciclo di depressione che provo io, e cercare di scendere a patti con essa. Penso di aver sofferto di depressione per tutta la mia vita. Riesco a gestirla e tenerla a bada, ma non se ne andrà mai del tutto. Ho notato che più cerco di risolvere un problema, più ci faccio caso e ne soffro. Mi ha fatto molto bene cercare di farci amicizia o semplicemente di accettarla, così che quando si ripresenterà — fra un mese, due mesi o chissà quando — e avrò un altro brutto episodio, non sarà così pesante averci a che fare di nuovo. Potrò pensare ok, so cosa succederà, non durerà in eterno, va tutto bene e fa comunque schifo, ma almeno non sono depresso perché sono depresso. È una cosa che dà un po’ di aiuto.
Hai anche detto che questo è stato il disco più divertente che tu abbia mai fatto. Considerando la musica di Mizmor, è divertente sentirlo dire: io lo trovo più tangibile come stile, rispetto per esempio al pezzo ambient-drone da quattordici minuti su Wit’s End che penso sia stato difficile da affrontare per l’ascoltatore poco interessato. Prosaic suona può diretto e sembra avere più una forma-canzone, anche se le canzoni sono decisamente lunghe anche qui. Come mai è stato divertente
È stato divertente per via della premessa. Il motivo per cui ho fatto questo disco è perché volevo condividere qualcosa: pensieri e sentimenti che mi ronzavano in testa che volevo far uscire, ma quando ho pensato di volerci fare un disco e a cosa significa per me di solito, non lo volevo più fare. Quando faccio un album dedico un sacco di tempo a tutti i minimi dettagli, inizio a essere ossessionato, non è per niente divertente. È come se ti imbarcassi in un viaggio nelle profondità di un burrone e dovessi cercare un diamante da riportare in superficie. È davvero estenuante e stancante, quindi ho semplicemente provato a fare un disco il cui processo di realizzazione non fosse così difficile da affrontare, volevo vedere se sarei arrivato alla fine e se mi avrebbe reso comunque fiero di averlo fatto, ma senza restarne ossessionato fino a perdere la bussola e iniziare a soffrire. È una sorta di esperimento, perché quando hai abbastanza dischi alle spalle inizi a essere curioso di farne alcuni in maniera diversa. Voglio mantenermi interessato e coinvolto nel lavoro che faccio, non voglio fare la stessa cosa a ripetizione solo perché il pubblico se lo aspetta. So che riesco a fare un buon disco se sto male nel farlo, ma posso farne uno buono mantenendo un processo fresco, interessante, efficiente e divertente per me stesso? Come suonerebbe? Mi piacerebbe? Piacerebbe agli altri? Suonerebbe come Mizmor?
Quindi questo è l’approccio che ho avuto con questo disco, e nella pratica si è tradotto così: nei momenti in cui ero tentato di incaponirmi su qualcosa, ho pensato beh, non è il momento di bloccarsi, va bene così, vai avanti. Mi sono sforzato di fare le cose in questa maniera, anche se mi mette molto a disagio, visto che voglio porre l’attenzione su tutti i dettagli, ma ho imparato già all’inizio che esiste un punto ben preciso nelle mie performance e nelle prove che faccio. Le prime due prove sono di riscaldamento, dalla terza alla sesta prova è il meglio che riesco a tirare fuori, da lì alla nona sono come un cane che si insegue la coda e non mi viene più bene. È diventata un’abitudine: provo ancora molto le varie parti, otto o nove volte in certi casi, e penso aaah, non riesco a capire se va abbastanza bene. E lì mi sono detto ok, adesso hai un muro davanti, ascoltati la quarta, la quinta e la sesta prova, una di quelle è la migliore, la scegli e vai avanti, non fermarti. Quindi per pura curiosità mi sono sforzato di fare le cose così, ed è stato divertente! Non mi sono bloccato, non ho passato giornate intere a cercare di risolvere un problema che non esiste, solo perché ho un OCD. Sono lieto di dire che l’esperimento ha funzionato, amo questo disco e mi sono divertito a farlo. Mi dà un senso di liberazione ed è un grande incoraggiamento per i prossimi lavori: ovviamente Prosaic è comunque intenso, pieno di sofferenza, parla di depressione, ansia, disagio esistenziale e altro, ma queste cose adesso mi sembrano meno negative. Ho accettato questa esperienza e creare arte per buttare tutto fuori aiuta molto, ma semplicemente non soffro come una volta riguardo questi aspetti della vita un po’ più pesanti. Me li faccio andar bene e voglio fare musica per incazzarmi a riguardo, ma allo stesso tempo li accetto.
La tua discografia è piena di collaborazioni. Con alcuni di questi artisti mi pare tu condivida una forte amicizia, come Emma Ruth Rundle e i Thou. Qual è il motivo principale che ti spinge a ricercare le collaborazioni, considerando che Mizmor è un progetto solista?
Per me, le collaborazioni sono venute fuori da amicizie personali. Il rispetto per l’arte di ciascuno di noi, l’arrivare a un punto in cui ti senti semplicemente curioso riguardo al fare qualcosa insieme. Non mi sono considerato collaborativo per molto tempo con questo progetto, perché è un progetto solista, e in quel senso ragionavo a compartimenti stagni: le band sono collaborative, i progetti solisti non lo sono. Questo per dire che non sono collaborativo. Poi però mi è venuto in mente che posso collaborare a qualcosa in quanto Mizmor e mischiarlo con lo stile di qualcun altro, senza perdere la mia identità, e potrebbe venirne fuori qualcosa di interessante. Ho collaborato una volta con Andrew Black, un’altra con i Thou, ho lavorato con Emma su un paio di cose nonostante non abbiamo mai fatto un album insieme. Però sì, credo venga fuori dall’amicizia e dal rispetto, e anche dalla curiosità. Poco alla volta mi sono reso conto che mescolare Mizmor con altre cose era divertente: da un lato è una cosa che tende a stressarmi, perché Mizmor è una cosa mia, in cui faccio tutto a modo mio, ma quando collabori con un altro artista ti impegni in una relazione e fai compromessi, c’è un dare e un ricevere in modo che entrambe le identità vengano fuori, un senso di libertà. Posso lasciarmi andare un po’, perché non tutte le decisioni sono decisioni che vorrei prendere. Il succo del discorso è quello, certe decisioni che non vorresti prendere e che spettano all’altro. Questo è il motivo per cui lo facciamo. Quando collaboro con qualcuno sono sempre tentato di dire no, io non lo farei e poi ricordo a me stesso, beh chiaro, è questo il motivo per cui lo stai facendo, per fare cose che altrimenti non faresti! Ho dovuto far nascere una curiosità per tutto ciò, prima di decidere di farlo. Ma è molto divertente e mi piace.
Ultima domanda, abbastanza cliché e spero che non te l’abbiano fatta in troppi: dimmi tre dischi che porteresti su un’isola deserta, o in un rifugio post-apocalittico, per qualsiasi ragione. Dischi a cui sei affezionato, che sono stati importanti per lo sviluppo di Mizmor o altro.
Direi Amarantine di Enya, poi credo che porterei Rift.Canyon.Dreams dei Burning Witch e probabilmente anche il White Album dei Beatles.