Il viaggio ultraventennale degli OvO, nelle parole di Stefania e Bruno
A ventidue anni dalla loro formazione, gli OvO continuano a esplorare varie sonorità e tematiche nei loro dischi, valicando i confini del noise iniziale, sperimentando e toccando diversi generi. Ignoto è il prossimo tassello della discografia dei ravennati, in uscita a brevissimo, e durante la prima giornata dell’eccellente Frantic Fest Stefania Pedretti e Bruno Dorella si sono prestati a una chiacchierata fiume in cui si è parlato di tutto, ma proprio di tutto.
Cominciamo con una domanda molto banale che vi avranno fatto qualche migliaio di volte: mi parlate della genesi del vostro nome e soprattutto di quel famoso tour con i Cock E.S.P. da cui poi è generato tutto?
Stefania: Innanzitutto ciao a tutte e tutti! Il nome è nato da un mio vezzo che avevo soprattutto agli inizi del periodo OvO e di altri gruppi precedenti, come anche con ?Alos, ovvero giocare con le parole, cosa che abbiamo ancora adesso ma non come ai tempi: spesso le troncavo, le giravo… OvO è nato proprio con i Cock E.S.P., che ci hanno chiesto di andare in tour con loro. Pensando a come chiamarci mi sono guardata intorno in casa, anche i titoli dei nostri brani sono nati da sguardi intorno a noi. Fa un po’ ridere, anche perché ci sono cose che oggi non si vedono più: ho guardato il telefono di casa, ancora con la cornetta, e c’era scritto nuovo, di nuova tipologia. Ho pensato: bello, nuovo… Ovo, bello come nome. L’ho troncato, è palindromo, lo puoi leggere al contrario, in verticale… Ci puoi fare delle grafiche in vari modi. Ovo adesso, con internet, può voler dire cento milioni di cose, in quei tempi non c’era ed era più facile. Se dovessi pensare adesso a un nome di tre lettere, sarebbe un incubo. Ecco, un consiglio per le band giovani: non scegliete un nome di sole tre lettere. Questa è la storia del nome, è nato in maniera un po’ giocosa.
Bruno: È stata anche la naturalezza in cui l’ha detto, non ha lasciato appello. Mi ha guardato e ha fatto: Nuovo? OvO! E allora ok, era evidente che il nome fosse quello. È vero comunque che all’epoca un nome da tre lettere era un vantaggio, oggi è una sfiga incredibile con internet. Siamo nati per andare in tour con i Cock E.S.P., un collettivo formato da una persona — Emil Hagstrom — che si circonda di tutti i casi umani che riesce a trovare e portarsi in giro. Fondamentalmente gestivamo un centro sociale a Vigevano dove passavano molti gruppi soprattutto punk, hardcore e Oi!, ma anche harsh noise, avanguardia, free jazz, roba che piace a noi. È passato questo gruppo harsh noise incredibile, appunto i Cock E.S.P.: il loro concept era mettersi addosso dei microfoni e menarsi sul serio, per quanto riuscivano, a volte due minuti, a volte cinque, sei o sette… Non credo abbiano mai superato i sette minuti di concerto. Io li ho trovati fantastici, ero anche giovane e ingenuo, e siamo diventati amici. Ci hanno chiesto di andare in tour con loro per un po’, così, in amicizia, visto che non avevamo un gruppo. Ci hanno detto: venite in tour con noi, e se volete, suonate. Quindi nel dicembre del 2000 io e Stefania avevamo un piccolo tour organizzato senza avere neanche un gruppo o della musica. Boh, facciamo improvvisazione totale, noise, ci siamo detti, e abbiamo suonato così.
S: Un aneddoto divertente è quello del concerto in un centro sociale autogestito di quelli svizzeri, molto bello. Suonavamo noi, gli Zu… proprio una super line-up. Noi abbiamo suonato nove minuti e ci hanno odiati per anni quelli di quel posto! Però in quei tempi eravamo così, facevamo quello che ci pareva. Quindi abbiamo fatto un concerto con i Cock E.S.P., che come diceva Bruno suonavano poco, e con due band saremo arrivati al massimo a venti minuti, probabilmente neanche quelli.
Visto che siamo in tema di aneddoti, volevo chiedere una cosa a Stefania: ho letto che qualche anno fa, nell’ambito di un progetto chiamato Azdora, praticamente hai insegnato a fare black metal ad alcune casalinghe romagnole. Puoi spiegarci un po’ meglio?
S: Non erano casalinghe, erano delle azdore, ovvero donne che sanno fare anche la pasta e tutta una serie di cose quotidiane. Quasi tutte erano pensionate, anche se pure ultimamente è venuta fuori una citazione di un giornalista: ho letto nella loro chat che erano arrabbiatissime perché le hanno chiamate anziane, mentre io le chiamo ragazze, ragazze un po’ grandi, tutte delle grandi cuoche. Questo artista svedese, Markus Öhrn, ha dedicato questo progetto alla sua nonna a cui lui era molto legato, che era lappone: visto che lei gli ha detto che non aveva mai potuto fare tutto ciò che gli uomini in famiglia facevano, ovvero sfogarsi, arrabbiarsi, spaccare cose, bere, litigare, lui le ha dedicato questo progetto in cui signore grandi, dell’età della sua nonna, potessero essere come delle teenager cattive. Lui svedese, con il fratello black metallaro eccetera, ha chiesto a me di curare tutta la parte sonora. Poi gli ho detto: però, sarebbe bello far fare loro sempre di più delle parti sonore, visto che all’inizio c’era solo la parte noise. Quindi ho proposto di far suonare loro pian piano la chitarra, insegnare loro il growl e lo scream a seconda delle attitudini, a ognuna di queste sedici donne. Si trattava di black metal o power noise, avevamo dei synth modulari molto belli, ma era proprio noise devastante, con la mia chitarra, ampli sempre giganti e urla black metal. Avevano anche il face painting ma con i loro vestiti normali, quindi vedevi questi abiti fiorellati, la ciabatta, però col face painting. Alla fine abbiamo anche registrato un disco da Lorenzo Stecconi.
Invece a Bruno volevo chiedere una cosa relativa al suo stile alla batteria con gli OvO, molto particolare e minimale. Ho letto che nasce da una tua esperienza precedente risalente a fine anni ‘90 con i Wolfango. Ci puoi riassumere come è nata questa cosa e perché?
B: Allora, io nasco chitarrista, nel ‘92-’93 avevo diciannove anni e a quell’età tutti i miei idoli avevano già fatto almeno un disco. Ho deciso quindi che ero troppo vecchio, che avrei mollato la musica e ho appeso la chitarra al chiodo. Mi hanno riacciuffato per il rotto della cuffia i Wolfango, che cercavano un batterista, e siccome ero un loro fan dicevo: non è che so proprio suonare veramente. E loro: «meglio, meglio ancora se non sai suonare veramente!». Ho iniziato così, suonando per caso con loro. Però con la batteria completa, quella tipica americana che tutti identificano come batteria, non ero un granché. Poi ho capito alcune cose: intanto non ne possedevo una, quindi mi mancava l’esercizio, e io sono mancino di piede e destro di mano. Questa cosa non aiutava. Un giorno, insieme al bassista dei Wolfango abbiamo fatto un trasloco. C’erano un sacco di dischi in questa casa e la signora ha detto: «io mi sono ricomprata tutto in CD, vi regalo i vinili». Tra questi vinili c’era No New York, la compilation sulla no wave newyorkese di fine anni ‘70. Su questa compilation c’erano i Teenage Jesus And The Jerks, il primo gruppo di Lydia Lunch, che suonavano con questa batteria super selvaggia, tribale, primitiva ma cattiva. Allora sono andato a guardare un attimo e questo suonava con un timpano e un rullante, fondamentalmente. Mi son detto: questa è roba mia. Perché togliendo la cassa, visto che sono mancino di piede e destro di mano e mi incasino, secondo me… Infatti bello, brutto, elegante o meno, quello che vuoi, però avevo trovato un mio stile unico che negli anni ho ovviamente sviluppato. Tutto nasce quindi per questi motivi, pratici e anche un po’ casuali. Insomma, ormai sono venticinque anni che suono questo set, un po’ me lo sono imparato.
Ora che abbiamo parlato un po’ di aneddoti e del passato, parliamo un po’ del presente: avete un disco in uscita il prossimo 23 settembre, peraltro sotto un’ottima etichetta, Artoffact Records, che si intitola Ignoto. Mi volete dire in cosa differisce dai dischi precedenti? So che è un disco molto particolare, con solo due tracce. Ditemi voi qualche dettaglio che anticipi questo album.
B: Parto io con la genesi e poi lascio dire altre cose a Stefania. Il punto è che noi volevamo fare un disco doom misto a elettronica, con due pezzi lunghi e dilatati. Non eravamo certi se sarebbe stato un LP o un EP. Avevamo iniziato a lavorare a questo disco con un pezzo sul lato A e uno sul lato B, questa era un po’ l’idea. Alla fine è venuto fuori più di un LP, abbiamo dovuto tagliare delle cose per stare in una durata sensata. Purtroppo per il digitale abbiamo tagliuzzato i pezzi per esigenze pratiche di upload, ma su CD e vinile Ignoto è composto da due soli pezzi: sul lato A “La Morte Muore”, sul lato B “Distillati Di Tenebre”. Tutto nasce dall’interesse per la letteratura proto-fantascientifica e proto-horror, quindi dai classici tipo Lovecraft, Bradbury, ma anche da importanti outsider prima e dopo, siamo un po’ affezionati al genere. Poi, come sempre succede ai nostri dischi, il concept prende il sopravvento: noi partiamo con un’idea ma poi è l’idea che si impone su di noi, così siamo andati ben oltre il concetto iniziale che volevamo esprimere, anche per via di vicende private delle nostre vite, di cui lascio parlare Stefania.
S: Uff, che patata bollente che mi hai passato. La cosa carina di questo disco è che tutto è partito di nuovo come succedeva in passato, un po’ da improvvisazioni. Negli ultimi dischi capitava meno, andavamo subito in studio, magari facevamo qualche prova ma le mie parti erano proprio create in studio. In questo caso siamo tornati all’origine, ovvero si va in sala prove e si prova. È successo durante il lockdown, non il primo, quando eravamo chiusi in casa, io e Bruno non viviamo insieme, ma quello della seconda fase dove non c’erano concerti. Ci siamo detti: perché non suoniamo un po’? Così stiamo anche un po’ insieme. È nato quindi anche dal risuonare insieme e penso che per questo sia tornato il desiderio di quel tipo di sonorità doom delle origini degli OvO, sia noise ma più cupe e altre, che è anche parte dei nostri ascolti. E quindi provando insieme abbiamo deciso di fare un disco doom: ci è capitato di fare dei pezzi, ma non un disco doom, che io e Bruno amiamo. Che poi la gente dirà: ma dov’è doom? Perché gli OvO sono sempre stati un cocktail, non abbiamo un genere musicale come non siamo un genere di tante altre cose, anche se vagamente potrebbe essere un doom elettronico. Un’altra cosa innovativa di questo disco: di solito i nostri titoli a volte sono in italiano e a volte in inglese, c’è un linguaggio, ma io uso sempre la mia metalingua di cui vado sempre più fiera, mentre all’inizio era vista come un difetto. Come ha detto Bruno per la batteria, i nostri difetti e diversità sono diventati delle skill nostre, io sono fiera della mia metalingua e di non avere un linguaggio consono. Già in Miasma avevo cominciato ad avere questo accenno di lingua italiana con il pezzo “Miasma”, o in inglese con “Queer Fight”, però con questo disco, vuoi per il fatto di aver più tempo per provare e per leggere chiusi in casa, ho rimesso in pratica ancora di più questo rielaborare i testi che stavo leggendo e fare un taglia e cuci — come ho fatto con Xabier per Emma Goldman — di frasi, testi, ispirazioni da libri che stavo leggendo. Ne sono usciti questi testi sempre più legati all’esoterismo, alla magia, all’andare in altre dimensioni, in viaggio. Involontariamente nell’ultimo anno ho fatto un salto nell’ignoto, quotidianamente. Forse con gli OvO sono proprio una strega, ma ci capita di vivere e creare delle cose prima, ma che poi succedono. Quest’ignoto poi ce lo siamo vissuto con Bruno e Francesca, la mia compagna, e altri amici, con gravi problemi fisici. Ora siamo qua con voi e siamo felicissimi. Ogni giorno è una sfida, l’ignoto è bello per questo, siamo sempre dei combattenti.
Mi ricollego a certe cose che hai detto sulla diversità e sul linguaggio: mi sembra che comunque la vostra musica abbia un’attitudine fortemente sociopolitica. Hai citato anche un pezzo molto esplicativo a riguardo, “Queer Fight”. Diciamo che sembrate una band fortemente pro-queer, pro-femminista. Mi spiegate un po’ meglio questo aspetto della musica degli OvO?
S: Beh, diciamo che questo è un aspetto a cui siamo tutti e due molto legati, perché siamo principalmente persone che arrivano dal mondo anarchico: arriviamo dai centri sociali, dagli squat, da una certa attitudine politica. Con OvO siamo sempre stati fusi con un’attitudine e presa di posizione. Poi negli ultimi anni ancora di più, magari è più un mio aspetto che Bruno abbraccia e fa parte anche di lui, perché non credo che certe cose siano abbracciate dalle persone solo perché le vivono sulle loro pelli. Anche un ragazzo può essere femminista anche se non è una donna eccetera, e Bruno è un ottimo esempio di questo modo di essere. Sono più io che spingo in questo senso, in quanto donna femminista e persona queer. Penso che anche Bruno sia queer in una certa maniera, ma è un termine bello proprio perché abbraccia tante diversità. Chiaro, viene indirizzato più verso l’omosessualità, la transessualità, che è un’altra cosa, però diciamo che è un bellissimo termine perché apre le porte: non è un cassettino di chiusura, ma una bella apertura su questa visione di queerness e inclusività. In inglese significa che una persona non va dritto per una strada, ma per una strada storta, e sia io che Bruno siamo parecchio storti nelle nostre vie. Uno può esserlo in un modo e altri in un altro. Questa è la mia visione di queerness, poi qualcuno potrebbe avere delle critiche su questo.
Tra l’altro scusa se ti interrompo, ma nel tuo altro progetto ?Alos mi pare che tu ti riferisca a esso come queer metal.
S: Sì, sì, ci sto provando anche con OvO in realtà! Visto che non esiste, anche se in passato esisteva del queer hardcore fatto da ragazzi, qui come tag metto sempre #queerwitch, perché no. Il bello è che adesso puoi creare termini, visto che alcuni non esistono. Adesso tramite internet uno magari lo ritagga, quindi poi uno può creare cose. In realtà in America ce ne sono già, e pian piano ce ne sono sempre di più: parlavamo oggi dei Body Void, i Vile Creature, i Liturgy sono un grande esempio, e tanti anni prima i Judas Priest prima di tutti, diciamo che l’elenco è enorme anche nella scena metal. È bello che anche in questa scena o in quella heavy delle persone inizino a esporsi anche di più, persone che prima lo tenevano un po’ nascosto. Io non ho paura a espormi, ma magari qualcuno prima aveva paura e ora lo fa più facilmente, per dire non sono sol*. Non bisogna avere paura perché non c’è nulla di male.
Come OvO avete più di vent’anni di carriera alle spalle, siete dei musicisti molto attivi fin dagli anni ‘90 e avete molti progetti, specie Bruno con i suoi sette o otto gruppi. Come è cambiato per voi, se è cambiato, il modo di approcciarvi alla musica in tutti questi anni?
B: Sì, è stracambiato. Abbiamo iniziato senza internet innanzitutto. Quando io suonavo nei Wolfango, nel ‘97, internet era più o meno un’ipotesi: sicuramente qualcuno lo usava già ma era una cosa assolutamente di nicchia. Io sono stato tra i primi in Italia a usare veramente la rete per organizzarmi i concerti, e ti parlo del ‘99. Tour europei organizzati via lettera, via telefonate, ci compravamo questa fanzine chiamata Profane Existence che aveva un supplemento, Book Your Own Fucking Life, con tutti gli indirizzi, le etichette, i locali, gli squat. Noi scrivevamo ognuno la nostra lettera. Si parla proprio di un modo di vivere la musica completamente diverso. A livello di musica, il primo disco degli OvO suona malissimo perché abbiamo fatto un mastering digitale, che era assolutamente un esperimento. Ci hanno detto: sapete che ora si può fare il mastering col computer? Ma nooo, veramente? Proviamo! Era una fase così antica. Sono ventidue anni, ma a livello di tecnologia e comunicazione è un’era geologica. Nel frattempo abbiamo cambiato spesso scena, perché siamo partiti dagli squat. Poi a un certo punto gli squat anarco-punk, quelli che interessavano a noi, non ci facevano suonare. Erano pochissimi gli squat anarco-punk aperti al noise e all’improvvisazione, quello che facevamo noi allora, e paradossalmente hanno iniziato a cercarci i locali perché magari avevamo belle recensioni sui giornali. Sta di fatto che a un certo punto gli squat non ci volevano e i locali sì, quindi abbiamo iniziato a suonare nei locali.
E oggi suonate al Frantic e all’Inferno Festival in Norvegia.
B: Oggi suoniamo nei grandi festival, ci capita molto volentieri di suonare ancora negli squat, ma sono cambiate veramente un sacco di cose. Nel frattempo, dall’essere un gruppo di improvvisazione totale e radicale, addirittura con una line-up aperta a chiunque volesse integrare i suoi talenti in una data serata, siamo diventati un duo. Ormai la nostra musica è al 100% composta, lo spazio per l’improvvisazione è molto ridotto. Siamo appesantiti in senso heavy, meno free, poi abbiamo aggiunto l’elettronica e chissà che altro succederà. Ventidue anni iniziano a essere veramente tanti, così come più di mille concerti e tre continenti. Insomma, comincia a essere storia.
S: C’è ancora tanto da scoprire, il bello di noi è che guardiamo sempre al futuro piuttosto che al passato. Amiamo andare oltre i nostri limiti, scoprire nuovi posti: l’Australia, il Sud America, dove non siamo mai stati. La musica è veramente cambiata tantissimo, io la vivo anche in maniera differente, da musicista anche un po’ più da performer. Negli anni ho collegato realtà come il teatro, l’arte, che con gli OvO incrociamo sempre più e con cui collaboriamo: compagnie di danza, sonorizzazioni, cose a cui in passato non pensavamo e che sono bellissime. A livello personale, questo approccio nuovo e rituale, non come OvO ma come persone, visto che Bruno ha detto tanto sulla nostra evoluzione negli anni come gruppo. Bruno ha iniziato sempre più a esplorare una parte di produzione: spesso per le parti elettroniche chiedevamo un supporto, uno scambio di suoni ad amici, adesso è Bruno che le produce. Da parte mia c’è tutta una ricerca più nell’uso del corpo e nell’andare verso questa spiritualità mistico-fricchettona, in senso esoterico, heavy, che in Ignoto e anche nelle mie cose soliste è sempre più la mia direzione. Per i concerti speriamo di suonare sempre più a questi festival: in realtà a noi piace l’idea di restare in questa realtà in cui suoniamo al Frantic, a Oslo all’Inferno Festival o altri eventi enormi in cui abbiamo suonato, ma rimaniamo vogliosi di suonare in spazi più piccoli come il Conchetta, il Dong a Milano, dove le persone si fanno un gran mazzo per continuare l’attività, in cui c’è uno scambio di lavoro ed energie. Quindi ringraziamo tanto quelli dei locali di cui nessuno parla mai, senza i quali non ci saremmo neanche noi.