Øystein G. Brun si racconta

Ho avuto il piacere di incrociare Øystein Garnes Brun in un paio di occasioni, recentemente: un’email ha portato a una conversazione, una conversazione ha portato a un’altra conversazione, e alla fine ci siamo ritrovati faccia a faccia su Skype, durante una delle ormai rarissime nevicate del nord Italia, a parlare della sua carriera trentennale. L’idea originale era di seguire un format sulla falsariga dei Rank Your Records, interviste in cui un artista mette in ordine di preferenza i propri album sulla base del proprio vissuto, ma la chiacchierata ha presto preso una piega totalmente diversa e decisamente più personale.
«Ho avuto l’idea di fondare i Borknagar nel ‘94, ma in realtà ero attivo come musicista già da qualche anno grazie ai Molested e, sai, in realtà sono ancora un grande fan del death metal, anche se più di quello classico che non della roba nuova. Le cose più recenti mi sembrano troppo generiche, ma i vecchi classici sono tra i miei album preferiti ancora oggi». E proprio da qui vale la pena di partire, dal death metal. I Molested, la prima band di Øystein G. Brun furono un quartetto formatosi nel 1991 a Bergen, autore di un unico album, Blod-Draum, uscito nel 1995. Nei suoi sei anni di attività il gruppo non modificò mai la propria formazione, che oltre a Brun a voce e chitarra vedeva Erlend Erichsen alla batteria (che con il nomignolo di Sergente avrebbe poi registrato Incipit Satan e Twilight Of The Idols con i Gorgoroth), Kenneth Lian al basso (una fugace apparizione con gli Ancient a inizio anni ‘90 per lui) e Trond Turnes all’altra chitarra. Interrompo Øystein per dirgli che Blod-Draum è ancora oggi uno dei miei album death metal preferiti, con i suoi tempi imprevedibili e quell’urgenza che solo un disco registrato a vent’anni può avere. «Oh, oh, oh, davvero? Mi diverte molto questa cosa, all’epoca, quando facemmo quel disco, eravamo piuttosto ottimisti, per certi versi. Non è che sapessimo davvero come si suonassero una chitarra o una batteria, ma volevamo davvero fare musica, e volevamo fare la cosa più brutale e violenta possibile. Insomma, c’era un sacco di gioventù lì in mezzo, e anche un sacco di testosterone, e l’unico nostro obiettivo era superare qualsiasi limite, senza pensarci due volte. In quel periodo, diciamo tra il ‘92 e il ‘94, tutto si stava spostando dal death metal al black metal, e sapevamo che quello che stavamo facendo rischiava di essere un po’ in ritardo, che avrebbe potuto non essere perfettamente in linea con quello che stava succedendo nel mondo del metal estremo. Ma ce ne fregammo e andammo avanti lo stesso». La breve durata del progetto non fu quindi dovuta a una sopravvenuta mancanza di interesse per la musica, «solo che a un certo punto smettemmo di essere ragazzini e arrivammo a un’età in cui iniziarono gli impegni: chi con il servizio militare, chi per qualche ragione si spostò da Bergen, un normale percorso di crescita. Dal canto mio, invece, iniziavo a non voler essere più violento e incazzato tutto il giorno [letteralmente: brutal all the time]».
Le influenze musicali di Øystein hanno infatti radici nel rock sessantiano e settantiano, grazie a papà Brun: «Mio padre era un vecchio hippy, e io sono venuto su con tutto quello che ascoltava lui, dallo psych rock ai Black Sabbath. Aveva una collezione impressionante, all’epoca, e io ho ancora una parte di quella collezione nel mio studio, l’ho portata qui quando è mancato, qualche anno fa. Tutto questo per dire che la mia formazione musicale è stata piuttosto ampia, ero abituato ad ascoltare di tutto in casa, ma fino ai diciassette o diciotto anni il death metal è stato il mio genere di riferimento, era quello che facevo». E arriviamo a Blod-Draum. «L’etichetta che ci propose un contratto era piccola e piuttosto noiosa, stampò un migliaio di copie del CD e niente più, e ne vendemmo in totale qualche centinaio». L’etichetta in questione è la norvegese Effigy Records, attività da tempo defunta ed effettivamente non proprio indimenticabile, gestita da tale John-Erik Aslaksen, che nei suoi pochi anni di vita e tra le sue pochissime pubblicazioni riuscì però a incastrare non si sa come un paio di album diventati poi di culto nei decenni successivi. Uno è ovviamente quello dei Molested, l’altro è il debutto degli Obtained Enslavement, Centuries Of Sorrow, ma questa è un’altra storia. Quella dei Molested, invece, continua così: «Tempo dopo ricevetti una telefonata dallo stampatore di quel lotto di CD, anche lui norvegese, che mi disse: ‘Ehi, abbiamo una vagonata dei vostri CD ancora qui fermi in magazzino, la vostra etichetta non li ha mai voluti pagare, se li volete ve li vendiamo a un prezzo stracciato, altrimenti li dobbiamo smaltire’. All’epoca non avevo uno straccio di soldi, e fui costretto a rispondere che non avevo i soldi né lo spazio per portarmi in casa uno stock di CD, e quindi che li avrebbero purtroppo dovuti distruggere. Avanti veloce fino a qualche anno fa, ero in tour con i Borknagar quando scoprii che Decibel, la rivista americana, fece una classifica dei migliori album death metal norvegesi di sempre e piazzarono i Molested al secondo posto, dietro Soulside Journey dei Darkthrone [in realtà il posto è il terzo, al secondo ci hanno messo i Cadaver di ‘Hallucinating Anxiety’, ma poco cambia]». E tu non te lo aspettavi. «No che non me lo aspettavo! In tutta franchezza, ci fu un periodo in cui smisi proprio di nominare e pensare ai Molested, anche nelle interviste, perché pensavo che quell’esperienza fosse ormai non solo conclusa, ma anche dimenticata da tutti. Ricordo di aver rilasciato delle interviste qui in Norvegia in cui mi chiesero se avessi avuto delle esperienze precedenti ai Borknagar e di aver risposto di no. Poi qualcosa negli anni è cambiato, addirittura sono arrivate delle etichette a propormi delle piccole ristampe, trecento copie di qua, cinquecento copie di là, e io ho sempre accettato, senza pensarci troppo, ‘sì sì certo fate pure, magari mandatemene qualche copia’. Poi la scorsa primavera, mentre eravamo in tour negli States con i Rotting Christ dopo gli anni di fermo causa pandemia, un sacco di gente veniva da me a farmi i complimenti per i Molested e a dirmi quanto gli piacessero. Addirittura ho ricevuto dei CD di band che hanno registrato delle cover, dei Molested. E io lì, a chiedermi macheccazz?» [ride]. Una ruota che ha ricominciato a girare di sua spontanea volontà: «Già, pensa che sto parlando con un’etichetta in questo momento per fare una prima vera e propria ristampa del materiale dei Molested. Non è una grossa etichetta, ma c’è questa idea in cantiere e potrebbe venirne fuori una bella cosa, magari nel corso del 2023. Però sì, è abbastanza pazzesco, ho parlato con Erland, il batterista, che mi ha detto che anche lui riceve un sacco di messaggi legati alla band».

«La cosa che però preferisco di tutta questa storia è che sono passati quasi trent’anni e sono ancora orgoglioso di quella musica. Era un modo di scrivere e di suonare decisamente non ortodosso, eravamo perennemente fuori tempo, la batteria era fuori di testa, Erland ha questo stile stranissimo… Eppure ancora oggi quella band sembra perseguitarci. In senso positivo, ovviamente, ma è sempre lì, non sparisce mai del tutto. Ed è un po’ la conferma della mia filosofia legata alla musica, del modo in cui la affronto: la musica dura per sempre, e questa è una delle poche cose che mi danno speranza nel mondo. Sapere che la mia musica, che si tratti dei Molested o dei Borknagar, mi sopravviverà, e potrebbe sopravvivere anche ai miei figli e ai loro figli, è una sensazione molto particolare».
«Vediamo un sacco di roba strana nel mondo, un sacco di cose brutte, e per me la possibilità di andare in giro per il mondo, incontrare i fan, essere attivo in questo settore, è fantastico. È un sistema che per sua stessa natura è contrario alla guerra e al conflitto: sono stato in tour con persone provenienti dai quattro angoli del globo, dall’Iran al Sud America, con un passato e una cultura profondamente diverse, e ho imparato che siamo tutti uguali, che siamo tutti persone, camminiamo tutti sulla stessa terra. E in questo mondo folle, far parte di tutto questo, è un privilegio enorme». Øystein non può saperlo, ma con me sfonda un hangar aperto, visto che è qualche anno che mi esprimo in diverse sedi e in modo piuttosto chiaro sul rapporto tra metal estremo ed estrema destra, e su quanto gli elitisti del black metal abbiano sostanzialmente rotto i coglioni. Sono quasi vent’anni che porto avanti il mio interesse per questo genere musicale e tutto ciò che vi ruota attorno, ho conosciuto e stretto rapporti con persone provenienti da tutto il mondo, e mai una volta ho pensato che qualcuno fosse inferiore o superiore a qualcun altro.
«Sono norvegese, sempre stato in gruppi norvegesi o scandinavi che facevano musica legata alla nostra terra e alla nostra cultura, ma non per questo mi sono mai sentito superiore in alcun modo. Ho sempre disprezzato quel modo di pensare. Qui in Norvegia si sente spesso parlare di discriminazione su base religiosa, o per via del colore della pelle, e per me è una delle cose più stupide che possano esistere. Siamo tutti uguali, e non c’è ragione per mancare di rispetto a qualcuno, o di essere elitari in alcun modo. Sono sempre stato molto esplicito su questi argomenti, per quanto non abbia alcun interesse a rendere la mia musica o le mie band politiche in senso stretto. Non mi interessa professare un determinato credo o una certa visione del mondo, tantomeno farlo attraverso la mia musica, ma ci sono delle idee, dei princìpi, alla base di quello che faccio. E non ho alcuna simpatia per certe cose, rifiuto un certo tipo di estremismo, di fascismo o comunque lo si voglia chiamare. Quel genere di ideologia è completamente agli antipodi di ciò che la musica, tanto più il metal, significa per me. Lo stesso vale per esempio per la mitologia nordica. La strumentalizzazione che è stata fatta a scopi politici del retaggio e della cultura scandinava è disgustosa. Sapere che la mitologia norrena viene usata come riferimento estetico o addirittura come giustificazione per promuovere certe idee è qualcosa che mi causa un’enorme frustrazione, perché molto spesso questa strumentalizzazione è data da un’enorme ignoranza. Pensa che una delle colpe più gravi di cui poteva macchiarsi un norvegese nel Medioevo era di non essere ospitale. C’era una vera e propria legge che prevedeva che in caso di arrivo di un forestiero o di un viandante una persona si adoperasse per aiutarlo, offrendo acqua e assicurandosi che l’ospite fosse trattato con tutti i riguardi fino a che non fosse ripartito per la sua strada». Manco a farlo apposta, quella dell’ospitalità era una delle più antiche tradizioni presenti anche nel mondo latino, e greco prima ancora. Un elemento che, per rafforzare ancora di più la tesi di Øystein, non fa che avvicinare due culture antiche che stavano letteralmente agli antipodi del mondo allora conosciuto. «Assolutamente, e tutte quelle storie sulla violenza e sulla purezza vichinghe, semplicemente non sono vere, sono assolutamente infondate. Certo, c’erano i raid, c’erano le battaglie, ma quella era soltanto una parte della società vichinga. Per la maggior parte, i vichinghi non erano altro che contadini, persone che lavoravano la terra e vivevano in pace. E che per legge dovevano occuparsi degli stranieri e trattarli come loro ospiti. Purtroppo è una cosa che si vede di frequente, questo cherry picking qua e là con la storia, persone che prendono in considerazione soltanto gli elementi utili a dimostrare la loro tesi, e non tutti quelli che invece la confutano. Ma se ti capita di confrontarti con persone che sanno di cosa parlano, studiosi, storici, antropologi, tutti ti confermeranno che, almeno sulla base di ciò che sappiamo oggi, i vichinghi erano persone di mentalità estremamente aperta. E sapere che qualche estremista piega e distorce a sua discrezione questa cultura mi dà molto fastidio».
In effetti, per tornare al percorso artistico di Brun, la musica dei Borknagar è sempre stata informata di concetti ben poco elitari, in cui potenzialmente chiunque si può riconoscere. Non a caso gli album hanno titoli come Quintessence, Universal o Empiricism, idee note a tutti, a prescindere dalla provenienza o razza di ciascuno. Penso alle interviste legate proprio al più recente album della band, True North, descritto come un concetto — appunto — universale, costante, cui i marinai di ogni epoca e origine si sono sempre appoggiati. È una coincidenza oppure una scelta consapevole e voluta? «Sì, hai ragione. Ci tengo a ripeterlo, non è mai stata mia intenzione essere politico in ciò che faccio artisticamente, se volessi fare il politico farei quello, mica il musicista. Però se c’è una cosa di cui sono assolutamente convinto è che la musica debba essere onesta: non credo che si possa scrivere musica in modo forzato, non funzionerebbe, è una cosa di cui ci si accorge quando si ascolta. Questo preambolo per dire che cerco di scrivere e suonare musica onesta, vera, ed è inevitabile quindi che il tipo di persona che sono si rifletta in questa. Per certi versi mi verrebbe quasi da dire che scrivo musica intima, perché tutto quello che ascolti e che trovi lì dentro è chi e ciò che sono come persona. Allo stesso modo, tutto ciò si riflette anche nell’immagine della band: negli anni, a seconda di cosa funzionasse di più o di meno a livello discografico in un determinato periodo, etichette o addetti ai lavori mi hanno consigliato di usare un immaginario estetico più black metal, di salire sul palco col corpsepaint, di usare un nome d’arte o cose del genere, ma mi sono sempre rifiutato. Semplicemente quel genere di cose non mi rappresenta, così come userò sempre il mio nome perché per me è un modo di rendere conto di ciò che faccio, oggi come venti o trent’anni fa».

Sorge spontanea una domanda, quindi: in trent’anni di attività, c’è qualcosa che non è andato per il verso giusto? Qualche rimpianto, o dispiacere, in una carriera così lunga? «No. Assolutamente no. Per me il rimpianto è un concetto molto cristiano, e io non lo capisco. Ciò che è stato è stato. È andato. Non c’è motivo di dannarsi per qualcosa che oggi non può essere cambiato. Migliorarsi, al contrario, imparare dai propri errori, quella è tutta un’altra faccenda. Commercialmente parlando, per esempio, è normale che guardando indietro ci siano delle cose che avrei potuto fare diversamente: per esempio a fine anni ‘90 ci venne offerto un tour davvero molto grosso, con alcuni gruppi di primissimo piano, ma dissi no. Mia moglie all’epoca era incinta del nostro primo figlio, non c’era alcuna sicurezza di riuscire a rientrare dei costi, e non mi potevo permettere di stare lontano da casa per sei settimane. Col senno di poi, probabilmente è stata un’occasione persa, ma non è una scelta che rimpiango, all’epoca presi la decisione che ritenevo giusta in quel momento, tutto qua. D’altronde è la vita, è inevitabile fare qualche passo falso, l’importante è che da questi impari qualcosa».
Nonostante il rifiuto di quel tour così tanti anni fa, immagino però che le cose non siano andate così male, nonostante i recenti anni di pandemia, e che Øystein sia in grado di vivere dei frutti della sua musica. «Non esattamente. Potrei, se fossi da solo riuscirei tranquillamente a vivere con la musica, tra la band e lo studio, ma avendo dei figli, una famiglia, e vivendo in Norvegia, che è uno dei Paesi più costosi al mondo, se mi basassi solo su quegli introiti farei fatica. In realtà due giorni la settimana lavoro per il sistema sanitario nazionale, con persone che hanno disabilità e disturbi psichiatrici. Ed è un lavoro che, oltre a darmi una sorta di sicurezza economica, mi piace molto». Immagino quindi che sia anche un modo per permetterti di mantenere quell’onestà di cui parlavamo prima, visto che, appunto, non hai bisogno che un album sia un successo commerciale, altrimenti non riesci a mettere il piatto sulla tavola per i tuoi figli. «Hai centrato il punto. Ci sono stati diversi momenti, negli anni, in cui avrei potuto puntare tutto sulla musica, abbandonare il resto e intraprendere una carriera da musicista professionista e niente altro. Certo non sarebbe stato facile, però avrei potuto prendere un rischio del genere, ma è un’idea che mi ha sempre spaventato. Una volta che la musica diventa il tuo lavoro, il tuo approccio deve per forza cambiare, perché se non raggiungi determinati risultati non paghi i conti a fine mese». E Øystein Garnes Brun non è il tipo di persona che accetterebbe mai di scendere a compromessi.