BRUTAL ASSAULT 2015
Evento: | Brutal Assault 2015 |
Data: | 05/08/2015 – 08/08/2015 |
Luogo: | Fortress Josefov, Jaromer, Repubblica Ceca |
Gruppi: | |
L’album fotografico del festival
È da qualche anno che Aristocrazia gira l’Europa alla ricerca di festival che abbiano qualcosa da dire, senza necessariamente affidarsi ai soliti grandi nomi che affollano gli eventi maggiori. Da un po’ di tempo a questa parte (eccezion fatta per l’Hellfest 2014 con la reunion degli Emperor), la risposta alla nostra missione è il Brutal Assault, in continua crescita e teatro di un processo di diversificazione che ha negli anni portato progetti molto lontani tra loro (o anche lontani dal metal) a esibirsi nella suggestiva location della fortezza Josefov di Jaroměř, in Repubblica Ceca.
Come da tradizione, il nutrito gruppo aristocratico (quest’anno orfano di Istrice, ma con i nuovi ingressi Dope Fiend e pierinz) effettua una fermata a metà strada — stavolta Augsburg in Baviera — e il giorno successivo raggiunge la sudata meta, letteralmente, in quanto il grande nemico della quattro giorni sarà l’improponibile caldo che si è abbattuto sulla zona (e un po’ in tutta Europa). Gettiamoci subito nella mischia, che al Brutal Assault 2015 c’è stata una enorme quantità di carne al fuoco.
Mercoledì – TRIPTYKON: Dope Fiend
Con il calare della sera sulla fortezza di Josefov, fanno il loro ingresso in scena i Triptykon, primi dei tanti pezzi da novanta che calcheranno i palchi di questa ventesima edizione del Brutal Assault. L’inossidabile Tom G. Warrior e soci si presentano subito con il botto, eseguendo una versione estremamente nera e monolitica del classicone dei Celtic Frost “Procreation (Of The Wicked)”; quest’ultimo non sarà l’unico pezzo ripescato dal vecchio repertorio di Warrior, in quanto troveranno spazio in scaletta anche “Circle Of The Tyrants” e l’ancor più datata “Messiah”, ovviamente suonate in maniera più conforme all’attuale impronta stilistica. In realtà è però quando i quattro decidono di dare giusto spazio alla produzione dei Triptykon che si sentono davvero tutta l’oppressione e la soffocante pesantezza che hanno caratterizzato gli ultimi lavori del buon Tom: da Eparistera Daimones vengono eseguite “Goetia” e “The Prolonging”, mentre “Altar Of Deceit” e “Tree Of Suffocating Souls” sono le canzoni estratte dall’ultimo Melana Chasmata. Colate di pece a non finire sono il regalo del quartetto svizzero: un regalo che fin da subito inizia a colmarci il cuore di quella disagiata sofferenza che andrà esponenzialmente crescendo per i tre giorni successivi.
KATATONIA: LordPist
Dopo l’intensa esibizione di Fischer e i suoi, è il turno di un altro grande nome. I Katatonia furono già ospiti al Brutal Assault 2014, ma ebbero grossi problemi tecnici e di ritardi, quindi l’organizzazione ha ben pensato di invitarli nuovamente per recuperare quest’anno. La band di Stoccolma parte con qualche fatica sui primi due pezzi, però recupera presto e coinvolge il pubblico con alcuni dei classici (“Ghost Of The Sun” e “July” tra gli altri), prediligendo la parte più pesante del suo repertorio contemporaneo (incluso anche “Forsaker”) vista la cornice. Renkse e Nystrom sono sempre una garanzia di impegno — come avevamo già avuto modo di vedere in altre occasioni — e li rivedremo anche il secondo giorno in una veste molto meno tranquilla.
SOULFLY: Bosj
È il momento dello zio Max Cavalera. Tanti oggi lo schifano, tanti l’hanno rinnegato ormai vent’anni fa, tanti preferiscono dedicarsi alla retrowave di Perturbator nel palco secondario di un festival estremo, pur di non trovarselo davanti, ma quando lo zio Massimiliano sale sul palco per tutti quelli che rimangono è sempre una festa. Non perché il concerto sia bello: da anni Max ha smesso anche solo di far finta di strimpellare la chitarra e si limita a cantare e a incitare la folla, battendo le mani come un panzuto santone, coi suoi trenta chili di troppo. Nemmeno per la curiosità di ascoltare qualcosa di nuovo: nella ruffianeria del ritorno al metallo, gli ultimi dischi dei Soulfly fanno a dir poco cacare. È qualcosa che ha a che fare con l’atteggiamento, l’attitude che Max predica da trent’anni e che lo ha sempre contraddistinto: l’atteggiamento di uno che, dopo aver sdoganato un genere in un continente, dopo averne inventato un altro, dopo aver venduto dischi in tutto il mondo, è ancora sul palco vestito come uno sfollato a incitare la sua tribù, i suoi sons, a cantare e saltare. E quanto si salta, con lo zio Max, anche se la chitarra non c’è; se spizzica brani un po’ a cazzo da qua e da là, un pezzo di Arise e uno di Prophecy, e anche se “Eye For An Eye” ormai grida vendetta tanto è menomata senza voce né ritmica; anche se sul palco ormai ci sono due ragazzini, i figli Zyon e Igor jr. rispettivamente alla batteria e al basso. Per non parlare della giustizia e della giustezza dell’accenno al riff di “Walk” dei Pantera tra un brano e l’altro, o dell’invito ad Ashmedi, frontman dei Melechesh nonché israeliano fuggito dal proprio Paese, a raggiungerlo sul palco per cantare “Territory”. I Soulfly non mostrano niente di nuovo sotto il sole, ma riportano tutti alle proprie radici, sempre e comunque. Come nota personale, in ogni modo, mi è spiaciuto molto non vedere Perturbator, ma purtroppo la tribù viene prima.
MAYHEM: Dope Fiend
La curiosità di vedere dal vivo i Mayhem a un festival nel 2015 deve necessariamente andare di pari passo con la consapevolezza che essi sono ormai una band che — sia stilisticamente che concettualmente — ha poco o nulla a che fare con ciò che era oltre venti anni fa: è infatti evidente che, anche durante l’esecuzione di classici come “Deathcrush”, “Frezing Moon” e “Carnage”, il gruppo norvegese sia decisamente più a proprio agio con la produzione meno datata. I chitarroni grossi e impastati che hanno riempito l’ultima fatica Esoteric Warfare sono lì a testimoniare che i riff glaciali e zanzarosi non sono più motivo di interesse per i Mayhem, i quali sono legittimamente ormai molto più coinvolti dal repertorio più recente; esibizione comunque interessante, sebbene ovviamente deludente per qualcuno che si aspetti eventualmente atmosfere à la Live In Leipzig. E dopo aver preso congedo da Attila e combriccola è il momento di ritirarci per tentare di riprendere le forze in vista dei faticosissimi giorni che ci attenderanno.
Giovedì – POMERIGGIO: LordPist
L’incredibile caldo costringe da subito i Nostri a piegarsi a orari orribili, vista l’impossibilità di restare in zona campeggio dopo le nove senza sciogliersi del tutto. Cogliendo la palla al balzo, abbiamo potuto osservare alcune delle band impegnate nel primo pomeriggio. Visti gli australiani Be’lakor, quest’anno forse più fiacchi e meno coinvolgenti rispetto alla loro presenza del 2012, purtroppo per loro anche impegnati a suonare nello slot più bollente a cavallo del pranzo; da segnalare l’esecuzione di qualcosa di nuovo che probabilmente ascolteremo nella loro prossima uscita. Discorso diverso per i locali The Tower, che si sono esibiti sul palco al coperto e hanno regalato al pubblico una mezz’ora di doom classico piuttosto solido, seppur ancora poco personale.
ARCTURUS: LordPist
Nel pomeriggio si inizia a fare sul serio, mentre gli Arcturus salgono sul palco con i soliti accessori da astronauti steampunk. Vortex si conferma un solido intrattenitore e la band macina pezzi sia dai dischi classici come “Nightmare Heaven” che dall’ultimo lavoro. Dall’equipaggio arrivano anche parole di supporto per i connazionali Enslaved, che suoneranno poco più tardi.
ASPHYX: Bosj
Il caldo folle di quest’estate comincia a dare un po’ di tregua quando l’armata capitanata dall’inossidabile Martin Van Drunen sale sul palco col suo carico di genuina belligeranza. Se esiste una categoria di gruppi che può dare garanzie su di un palco, gli Asphyx ne fanno parte dal primo giorno, come abbiamo avuto modo di vedere anche in altre occasioni. Jeans e maglietta, cinquant’anni e non sentirli, il buon Martino condisce una manciata di pezzi provenienti dai dischi cui hai prestato l’ugola (e in un passato lontano anche il basso) e li martella sul muso dei metallari giubilanti. Più o meno tutte le titletrack dei suoi lavori più l’immancabile “Vermin” vengono pressate in una cinquantina di minuti dal peso specifico di un rullo compressore, con la chiusura lasciata manco a dirlo a “Last One On Earth”. E un giorno, quando saremo tutti polvere nel disastro post-atomico, gli Asphyx sghignazzeranno, perché loro «ce l’avevano detto».
ENSLAVED: LordPist
Sono sempre più lontani i tempi in cui gli Enslaved erano un giovane gruppo che aveva iniziato ad avventurarsi in territori sperimentali, fino a diventare ormai uno dei nomi di punta del metal grazie a dischi come Vertebrae e Axioma Ethica Odini (li abbiamo anche già trattati in passato con l’uscita di RIITIIR). L’ormai inconfondibile alternanza nel cantato tra Kjellson e Larsen ci accompagna in questo viaggio attraverso la loro sconfinata discografia, per concludere con una devastazione black-viking proveniente dai primi anni ’90.
BLOODBATH: Bosj
I Bloodbath sono un bel guazzabuglio: non sono più ciò che erano nati per essere, ossia un super-gruppo svedese composto da gente che faceva altro, ma che provava grande nostalgia per il metallo della morte di un decennio prima; eppure sono ancora un gruppo più che interessante, capace di comporre e suonare brani d’impatto e atmosfera, anche se forse un po’ meno scanzonati e brillanti che in passato. Live, tuttavia, sono mazzate: Renkse e Nyström ritrovano qui la voglia di uccidere e di cospargersi di sangue, accanto a Sodo Eriksson (altro ex Katatonia), Axenrot e il nuovo acquisto Nick Holmes, primo straniero nella storia del gruppo. Per quanto funestati da problemi tecnici, con prima un pedale distrutto, poi qualcosa che non va alla batteria e infine il microfono che perde il segnale e gracchia (il tutto con un crescente fastidio di Holmes, che ci si aspetta azzanni alla giugulare qualche tecnico del suono da un momento all’altro), i cinque alfieri della vecchia scuola le suonano con dovizia a tutti quanti. La scaletta non risparmia nulla, ripescando da Breeding Death così come dal recente Grand Morbid Funeral, senza dimenticare le hit imperiture di Nightmares Made Flesh, sicuramente il lavoro più truzzo e fuori di testa a nome Bloodbath. Anche in questo caso, il Brutal Assault regala momenti meravigliosi, lasciando che il quintetto si congedi dal popolo del metallo sulle note dell’inossidabile “Eaten”, ennesima testimonianza della classe compositiva di Dan Swanö.
AMENRA: Dope Fiend
Ci avviamo dunque verso il Metalgate Stage per assistere all’attesa esibizione degli Amenra. Nessuno di noi è però minimamente preparato a ciò che sta per investirci: una violenza psicologica che non può essere descritta a parole, riff enormi come pianeti che si abbattono su di noi piegandoci, stuprandoci, devastando completamente i nostri sistemi cognitivi, rendendoci partecipanti attivi alla messa celebrata dai cinque belgi. Legnate, legnate, legnate e ancora legnate in un magistrale susseguirsi di pezzi apocalittici che non ci lascia scampo e la cui violenza ci commuove, rendendoci tutti quanti concordi sul fatto che questa è forse l’esibizione più enorme a cui abbiamo mai assistito. Difficile pensare che i buchi neri aperti nelle nostre menti dagli Amenra potranno mai davvero richiudersi del tutto.
AGALLOCH: LordPist
Non è facile suonare sul Metalgate Stage dopo la devastante prestazione degli Amenra e gli Agalloch sanno che ci sarà bisogno di un’esibizione maiuscola. Dopo essermelo perso alla spettacolare data italiana del 2013, ero molto contento di reincontrare il quartetto originario di Portland, pur non avendo amato particolarmente il loro ultimo album. La scaletta pesca esclusivamente dal 2006 in poi, cinque pezzi in totale tra cui “Limbs” e “The Astral Dialogue”. La conclusiva “Into The Painted Grey” viene eseguita con una cattiveria che avevo visto raramente nella band americana, a suggellare un concerto molto intenso e brutale. Sempre un piacere vederla dal vivo.
KREATOR: Dope Fiend
Pur consapevoli dell’handicap psicologico lasciatoci in eredità dagli Amenra, in contemporanea con l’esibizione degli Agalloch, alcuni di noi si avventurano comunque a vedere i Kreator, forse con la segreta speranza che possa essere un buon modo per riprendersi dalla distruzione mentale appena subita. Il concerto dei Tedeschi si rivela infatti essere ciò che immaginavamo: una piacevole sequenza di cavalli di battaglia (da “Violent Revolution” a “Enemy Of God”, da “Hordes Of Chaos” a “Pleasure To Kill”, da “Terrible Certainty” a “Warcurse”) tutti da cantare, cosa che io e Bosj attuiamo senza ritegno dalla collinetta sopraelevata che domina i palchi principali.
SUNN O))): Dope Fiend
Ormai è l’una di notte passata quando finalmente arriva uno dei momenti da noi più attesi del festival: dodici enormi amplificatori disposti a semicerchio, due chitarre, un sintetizzatore e un microfono; un soundcheck che persuade già alcuni ad abbandonare il proprio posto in transenna; quattro figure incappucciate; la fine della nostra esistenza come l’abbiamo conosciuta finora. Sunn O))). Le due entità chiamate Greg Anderson e Stephen O’Malley iniziano a travolgerci con le loro schitarrate eternamente riverberate, mentre Attila bercia cose incomprensibili e un quarto ignoto manovra l’effettistica: e pian piano l’imperscrutabile enormità del vuoto ingoia noi, la fortezza di Josefov, la Repubblica Ceca e probabilmente l’intero universo. All’incirca a metà della celebrazione, Attila scompare per poi rientrare con una tunica rivestita di specchi rotti e un copricapo di una forma bizzarramente aperta a qualsiasi interpretazione: da questo momento in poi non mi è più possibile parlare con coscienza. La realtà — o perlomeno quella che fino a quel momento credevo fosse la realtà — si sbriciola, trascinando con sé ogni nozione di spazio e di tempo, lasciando il posto al nulla più assoluto: i bisogni primari non hanno più ragione di esistere. Alle letterali difficoltà respiratorie e di equilibrio accusate per i contraccolpi delle enormi onde sonore generate non facciamo più caso, frattanto che Anderson e O’Malley alzano le loro chitarre, in adorazione degli amplificatori, o forse per omaggiare una divinità che a nessun altro è dato conoscere. Completamente frastornati, distrutti, increduli e con i timpani ancora in subbuglio (il sottoscritto sentirà ronzii nel proprio cervello per moltissime ore a seguire, oltre che ritrovare l’uso della parola solo dopo parecchi minuti), torniamo alle nostre tende, assolutamente certi che l’esperienza vissuta sia stata qualcosa di totalmente incomprensibile per chiunque non fosse lì.
Venerdì – POMERIGGIO: LordPist
Il venerdì è un giorno tutt’altro che di transizione, con band di qualità già a partire dal pomeriggio. La mia giornata inizia al Metalgate Stage con la strampalata e surreale musica dei francesi Sebkha-Chott (che confermano l’ottima impressione live avuta a un Brutal Assault precedente) e il solido black metal degli inglesi Winterfylleth. Buono anche il post-black del progetto tedesco Lantlôs, ormai saldo sulle proprie gambe e in grado di offrire una interessante scaletta nel tardo pomeriggio ceco.
BRUJERIA: Dope Fiend
Dopo averli già incrociati al Solo Macello Fest di Milano, i Brujeria promettevano fin dal principio di essere una delle esibizioni più movimentate e divertenti, ed ecco che accompagnati dal monologo razzista che introduce “Raza Odiada (Pito Wilson)” entrano in scena i sei narcos, i quali iniziano immediatamente a scaricarci addosso una sequela infinita di mazzate a base di death metal, grind, orgoglio messicano e droghe. Nonostante l’ardente canicola che opprime le lande ceche, il nutrito pubblico non rimane di certo indifferente, quindi si fa presto a perdere il conto dei momenti di mosh sfrenato e di crowd surfing generati da pezzi come “Colas De Rata”, “Consejos Narcos”, “Matando Gueros”, “Anti-Castro”, “Brujerizmo” e “Revolution”. Fatta nota dell’ingresso sul palco di una succinta signorina che recita evidentemente la parte della protagonista femminile di “Pititis, Te Invoco”, i Brujeria svolgono alla perfezione il proprio compito: asfaltare l’uditorio e divertirlo, soprattutto quando quest’ultimo viene salutato dalle note dell’immancabile “Marijuana”.
PRIMORDIAL: Bosj
Lo stacco tra i Brujeria e la formazione proveniente dalla Repubblica d’Irlanda è netto, ma Nemtheanga e compagni hanno il merito, nei loro tempi cadenzati e brani mastodontici, di ricreare atmosfere assolutamente uniche. Basta quindi cambiare passo e subito mi ritrovo a cantare “Where Greater Men Have Fallen” (di grande presa in sede live, nonostante io non abbia ancora ascoltato il disco), seguita da un solo altro brano dell’omonimo album, la conclusiva “Wield Lightning…” e quattro classici del gruppo come “As Rome Burns”, “No Grave Is Deep Enough” (tratta dall’ottimo Redemption At The Puritan’s Hand), “The Coffin Ships” e la totale “Empire Falls”. Cinquanta minuti riempiti con sei canzoni, per una (ennesima) prova superlativa e un’altra esibizione di altissimo livello di questa edizione del festival.
KYPCK: Dope Fiend
Nel più ristretto spazio del Metalgate Stage trovano posto anche i Kypck: la curiosa scelta di cantare in lingua russa, l’appassionata trattazione di vicende sovietiche e non secondariamente il bassista che suona un basso con una sola corda, destano sicuramente un certo interesse. Nonostante personalmente non abbia apprezzato in maniera particolare l’ultima fatica discografica dei Finnici (a differenza dei lavori precedenti), il loro doom metal anche in sede live fa la propria figura, sebbene questa possa essere classificabile come un’esibizione non memorabile ma semplicemente onesta. I cinque pescano uniformemente dai tre dischi partoriti finora, presentando anche un pezzo nuovo e chiudendo con la sempre bellissima “Stalingrad” che commuoverebbe senza dubbio ogni cuore bolscevico.
CANDLEMASS: LordPist
E così si arriva al mio personale main event affettivo del festival, un’attesa incredibile per me che ho sperato di vedere questa band dal vivo da anni. I defezionari Killing Joke vengono sostituiti sul Metalshop Stage dai padri del doom, per una folla enorme che mal si sarebbe sposata con il palco piccolo del Metalgate. Purtroppo, la mente del gruppo Leif Edling non ha potuto prendere parte al tour di quest’anno per motivi di salute, ma la resa dei brani è incredibile. La scaletta parte con alcuni dei pezzi più veloci come “Mirror Mirror” e “Black Dwarf”. Dopo un breve assolo di chitarra del solito Johansson, ci si avvia alla seconda parte dello show, che si conclude con un trittico doom devastante: “Under The Oak”, “At The Gallows End” e una enorme “Solitude” vengono cantate anche dal pubblico in una delle performance più partecipate dell’intero festival. Il tono della serata sarebbe leggermente cambiato di lì a poco.
SKEPTICISM: LordPist
Contrariamente a quanto si pensi spesso, il doom metal è in realtà un mondo estremamente variegato e la contrapposizione di Candlemass e Skepticism a distanza di circa un’ora ne è un esempio perfetto. Si torna al Metalgate Stage in un’atmosfera più raccolta per dare il benvenuto al quintetto finlandese che — tra le altre cose — riesce benissimo a creare le sue inconfondibili atmosfere di dolore senza l’uso del basso. Il tono dell’esibizione, già a partire dall’impostazione del cantante Matti, è su un altro pianeta rispetto a quanto visto sul palco principale poco prima, un pianeta fatto di male e sofferenza (il nostro, insomma). Gli autori di capolavori del genere come Stormcrowfleet e Lead And Aether ci trascinano in una dimensione priva di speranza costellata dalle mai invasive note di chitarra e tastiera. Proprio come fu per gli Shape Of Despair qualche anno fa, il Brutal Assault si riconferma teatro perfetto per il funeral doom di stampo atmosferico.
Sabato – POMERIGGIO: LordPist
Le cose si fanno difficili l’ultimo giorno, con noi aristocratici già provati da un festival veramente intenso e dalle temperature senza senso. Raccogliendo un po’ di coraggio, vado a vedere lo show dei Rosetta alle 13:30, restando piuttosto soddisfatto anche e soprattutto grazie all’impegno profuso da Mike Armine. Tra le altre cose, la band di Philadelphia è anche una delle tante che hanno visitato la Cina negli ultimi anni in ambito post-rock o metal. Dopo di loro è il turno dei cileni Procession, che propongono un doom metal molto ottantiano buono per riempire una mezz’ora di slot pomeridiano. A seguito di un problema, i Ne Obliviscaris vengono sostituiti dai polacchi Outre per lo show delle 15:30. La nostra delegazione prende parte alla loro esibizione black metal; non esattamente la band più variegata tra quelle viste in azione, ma sicuramente in grado di intrattenere i fan del genere e di dire la sua in questo contesto. Tra gli highlight del pomeriggio, segnalo l’inatteso (almeno per noi) approccio post-punk dei lussemburghesi Rome, uno degli intrusi musicali in questa edizione del festival. Jérôme Reuter e i suoi abbandonano le sonorità neofolk che ne hanno caratterizzato la carriera su disco, per proporre dei ballabili arrangiamenti in chiave rock di pezzi tratti dalla propria infinita produzione. Troll con classe.
DEMILICH: Bosj
Tralasciando le bestemmie per l’organizzazione (come si fa a far suonare i Demilich in contemporanea con i Cryptopsy?), mi dirigo verso il palco secondario, abbandonando mio malgrado Flo Mounier in favore di Antti Boman e i suoi Demilich, che non ho mai visto. Data la storia della band, meglio cogliere l’occasione al volo. E i Finlandesi non tradiscono: una badilata nei denti dal gusto retrò del death metal che fu, rigorosamente 1991-1993, contraddistinta dal rigurgito di Boman e da un groove e una tecnica che in quegli anni erano difficili da trovare, specialmente da questo lato dell’Atlantico. Boman è un compagnone, si diverte ancora come un ragazzino a suonare la sua musica, e i suoi compagni d’armi — la formazione classica al completo, con la sola eccezione del bassista — lo seguono con una perizia invidiabile. Per nostalgici veri.
SÓLSTAFIR: LordPist
Non si può dire che non sia stata un’annata piena per il quartetto islandese dei Sólstafir, dopo l’uscita di un signor disco come “Ótta” e le ormai stranote polemiche tra l’ex batterista Pálmason e il resto del gruppo (tra le altre cose, li incrociammo in Italia un paio di anni fa per un’intervista). In questa sede, preferiamo parlare di musica e ci concentriamo sull’esibizione di una band che ormai si trova a suo agio su palchi di questo rilievo, dopo l’ottima performance dell’edizione 2012. Cinque brani in scaletta, tra cui la solita “Fjara” e una spettacolare “Náttmál” estratta dall’ultimo album, i Sólstafir concludono la parte pomeridiana dell’ultimo giorno e si confermano una delle formazioni di punta degli ambienti post-.
PHURPA: Dope Fiend
Sono da poco trascorse le otto di sera quando ci inoltriamo in un piccolo cortile di una parte della fortezza, al cui interno è stato allestito l’Oriental Stage, palco dedicato unicamente alle esibizioni di Phurpa e Cult Of Fire (che purtroppo non riusciremo a vedere, a causa della massa improponibile di gente che si riverserà lì). Non passa molto tempo prima che l’esibizione dei Phurpa abbia inizio ed è d’obbligo una premessa: la proposta del gruppo non è assolutamente adatta a un contesto come quello del Brutal Assault; la musica rituale dei Russi è basata infatti su una corrente del buddismo tibetano ed è dunque un concetto atmosferico e psichico piuttosto complesso da far passare in una cornice come questa. Tuttavia, durante l’ora abbondante che passiamo seduti a terra con gli occhi chiusi, riusciamo in qualche modo ad avvicinarci a quanto esce dalle gole e dagli strumenti dei musicisti: canti meditativi tibetani che ci fanno vivere un’esperienza spirituale da approfondire sicuramente in un secondo momento e in un contesto più consono.
HEAVEN SHALL BURN: Bosj
Ero tentato di lasciar perdere, più incuriosito dai misteriosi Phurpa che suonavano sul fantomatico Oriental Stage che non dall’ennesima esibizione degli Heaven Shall Burn, che già un paio di volte erano stati penalizzati dal contesto di un grande festival, non godendo di suoni all’altezza. Eppure, mentre mi allontanavo dal palco, l’attacco di “Counterweight” mi ha bloccato: E-NOR-ME. La canto e la ballo senza posa, ma «sarà un caso», mi sono detto, e mi allontano. Salta fuori che i Phurpa sono per me una ciofeca e l’Oriental Stage in sé è ingestibile, così torno indietro giusto giusto per “Black Tears”, unica rappresentazione dell’immensità degli Edge Of Sanity. Enorme, parte seconda. Segue “Trespassing The Shores Of Our World”, che esattamente come “Counterweight” non sente il peso dell’età e fa cantare più o meno tutti. Il delirio vero arriva all’attacco di “Awoken”: la folla si apre, i due schieramenti si studiano, i cuori si scaldano. “Endzeit”. La fine del mondo. Un circle pit così grande che non si vede spesso al di fuori delle folle di Wacken. Una violenza sonora totale. Nettamente la migliore esibizione degli uomini della DDR cui abbia mai partecipato. Il pubblico ancora sconvolto viene accompagnato al termine dell’esibizione da un brano di “Veto” (soprassedibile) e dalle immancabili invettive anti-destroidi, ma il concerto è ormai concluso, il mondo è ormai distrutto.
AT THE GATES: Bosj
Devo preservarmi per gli Esoteric, ragion per cui costringo il Maestro Pist a legarmi su una panchina dell’area sopraelevata e impedirmi a qualsiasi costo di lanciarmi nella folla per questa nuova calata degli At The Gates. Fortunatamente riesco più o meno a contenermi per tutta la durata dell’esibizione, complice la stanchezza ormai imperante, ma la solita setlist che pesca a piene mani da Slaughter Of The Soul — con le classiche aggiunte “Terminal Spirit Disease”, “Kingdom Gone” e qualche novità da “At War With Reality” — è la solita scarica di adrenalina. Tompa inizia a essere un po’ affaticato, d’altronde i tour intensivi sono ben più impegnativi che qualche data sparsa ogni tanto, ma il voto generale è come sempre positivo.
ESOTERIC: Dope Fiend
Accompagnati dal terrorismo sonoro degli Anaal Nathrakh, i quali ci stanno ricordando che siamo nati in mezzo alle feci e al piscio, ci dirigiamo verso uno dei palchi principali per assistere a quello che sarà per noi il concerto di chiusura di questa edizione del Brutal Assault: ormai oltremodo provati da quattro giorni di festival, attendiamo soltanto che gli Esoteric ci infliggano il colpo di grazia. I cinque inglesi — autori di capolavori come Paragon Of Dissonance — salgono sul palco poco dopo l’una e un quarto di notte e iniziano immediatamente a sferzarci con tre chitarre che snocciolano monolitici e grevi riff al rallentatore, i quali — accompagnati dalla voce cavernosa di Greg Chandler — instillano in tutti noi un senso di malessere imperituro, un’apocalisse di dolore che si protrae per oltre un’ora. Quattro pezzi eseguiti durante i quali la band britannica riversa su di noi una sofferenza senza eguali, un male di vivere che Leopardi in confronto era un infante gioioso e spensierato. Abissi di afflizione e di tribolazione esistenziale si aprono sotto i nostri piedi, ingoiando ogni flebile barlume di speranza e lasciandoci lì a patire un travaglio eterno, che ci mette di fronte alla dura verità che poco dopo verrà candidamente espressa dalle parole di LordPist: «la vita non è bella».
Così, ricolmi di un abnorme travaglio psichico, ci congediamo dal Brutal Assault 2015 senza attardarci oltre, poiché l’indomani ci attenderà una spropositata quantità di ore di auto, giusto per rammentarci che la nostra agonia non può avere ancora conclusione; ammesso e non concesso che possa mai davvero avere termine…
In definitiva, dal punto di vista dell’organizzazione sono stati fatti degli interessanti passi avanti rispetto all’edizione 2013, tra cui l’arrivo di punti Wi-Fi con cui anche chi non è munito di una scheda SIM ceca può restare in contatto con i propri compagni di viaggio, e l’ulteriore snellimento delle code (migliori anche le docce). Tuttavia, ci sono ancora un paio di aree nelle quali il Brutal Assault può migliorare, come ad esempio una più efficace disposizione delle zone d’ombra nell’area campeggio e una maggiore varietà nella zona merchandising. Di nuovo molto fornita l’area cibo. Vedremo come saranno le cose l’anno prossimo, con gli Exodus già confermati nel bill.