TUSKA OPEN AIR 2016
Evento: | Tuska Open Air 2016 |
Data: | 01/07/2016 – 03/07/2016 |
Luogo: | Suvilahti, Helsinki, Finlandia |
Gruppi: | |
Quest’anno ho rinunciato per vari motivi alla trasferta in direzione Brutal Assault, l’evento che ha segnato il mio battesimo nel mondo dei festival ormai tre anni fa, non senza una certa tristezza. Il Brutal è un qualcosa che per qualche motivo sento mio, che mi ha regalato tante emozioni e tanti nuovi amici (tra cui i nostri instancabili Aristocratici) ed è stato stranissimo non ritrovarsi tutti davanti al pc per i rituali di prenotazione e acquisto voli e campeggio. Non tutti i mali, però, vengono per nuocere e poche settimane fa ho realizzato un desiderio festivalico che nutrivo dal 2010: il Tuska Open Air a Helsinki, che ha soddisfatto pienamente le mie aspettative e si è rivelato un evento, sotto certi punti di vista, più a misura d’uomo rispetto all’ormai famoso festival ceco. Sì, è vero, al Tuska ci sono meno band e costa decisamente di più, ma il luogo in cui è organizzato (Suvilahti) è vicinissimo al centro di Helsinki, facilmente raggiungibile con i mezzi pubblici, dotato di tre palchi — di cui due al coperto con annessi bagni — e, ultimo ma non meno importante dettaglio, offre la possibilità di riempire la propria bottiglia d’acqua all’infinito e gratuitamente. Per chi, poi, come me ha una pressione sanguigna ridicolmente bassa, il pensiero che il festival finisca ogni sera entro la mezzanotte e l’assenza di un’area campeggio si traduce praticamente con «stasera dormo nel mio letto», il che, dopo tre anni di Brutal passati a (fare finta di) dormire quelle quattro ore scarse in tenda, è un pensiero oltremodo confortante.
Venerdì – CATTLE DECAPITATION
La giornata si rivela calda e asciutta fin dalle nove del mattino (alla faccia di chi dice che in Finlandia fa sempre freddo). Le porte del festival aprono alle 13:00; dopo un pranzo consumato in compagnia al centro della città, ci avviamo tutti insieme verso Suvilahti, che è a poche fermate di metropolitana. Sul luogo incontro il mio gruppetto di amici, tre dei quali arrivati a Helsinki proprio il giorno prima esclusivamente per il Tuska, e con una certa impazienza ed eccitazione iniziamo a pianificare la giornata. Quel giorno c’erano sedici band in programma e partiamo tutti insieme dal primo grande nome del festival, i Cattle Decapitation da San Diego, in Finlandia per la prima volta. Il caldo si fa sentire ma noi siamo attrezzati, quindi i loro cinquanta minuti di death-grind scorrono piacevolmente (no, non volevo fare alcuna battuta), fungendo praticamente da warm-up per i fan, che iniziano a scaldarsi con un sempre crescente mosh pit nel quale spicca un ragazzo con un lungo e fiammante cappello da Babbo Natale. Nei giorni seguenti, in seguito all’avvistamento di coniglietti rosa, maschi in gonnella (non necessariamente kilt), ragazze con cani di peluche impalati e ragazzi con falli bianchi attaccati al cappello, avremo modo di confermare che la gente strana ai festival non manca mai.
WHORION + SWALLOW THE SUN
Dopo aver ascoltato per sbaglio e con pentimento qualche minuto di Delain, mi dirigo all’Inferno Stage, situato all’interno di una struttura molto elegante e dotata di colonne e lampadari etnici, sul cui palco stanno per esibirsi i Whorion. Non li conosco, ma il mio amico Marco me li descrive in modo piuttosto interessante, quindi decido di dare loro una possibilità. Ragazzi giovani, tutti di Helsinki, che propongono un death metal con venature sinfoniche e tecniche, anche se non mancano influenze black nemmeno troppo velate. Esibizione più che soddisfacente e interessante, che abbandono prima del tempo un po’ a malincuore per dirigermi verso il Radio Rock Stage, quello principale, su cui alle 15:45 apparirà un’altra band finnica, gli Swallow The Sun.
Il gruppo è una delle maggiori attrazioni del festival, soprattutto perché suonerà per tutti e tre i giorni, riuscendo così a proporre per intero al pubblico il nuovo album — diviso, appunto, in tre parti — Songs From The North. Il loro concerto è sofferenza pura, sia perché non capisco come facciano a essere quasi tutti vestiti in camicia a maniche lunghe con quel caldo, sia per via del loro genere malinconico e triste. La tristezza aumenta con il breve discorso del cantante Mikko Kotamäki prima del brano “Heartstrings Shattering”, la cui interprete femminile, Aleah, ha perso la sua battaglia contro il cancro lo scorso aprile. «La nostra cara amica canterà con noi ugualmente, purtroppo non qui sul palco». Il pubblico reagisce con un rispettoso, forte applauso, e il brano è toccante e commovente. Impossibile non notare lo sguardo di Juha Raivio, compagno di Aleah da sette anni, mentre la voce della cantante risuonava dalle casse; impossibile non sentire una stretta al cuore e provare empatia con tutti i componenti della band. Lo spettacolo è di altissimo livello, Mikko ci dà appuntamento al giorno dopo per il secondo disco, ma purtroppo non riuscirò più ad assistere alle loro successive due esibizioni causa accavallamenti con altri gruppi; senza contare che entrambe si svolgeranno nella piccola Solmusali, con una capienza massima di cento persone.
MANTAR
«The show goes on» ed è il turno dei tedeschi Mantar, un duo chitarra-voce più batteria-voce dedito a uno sludge grezzo e violento. Avevo preventivamente ascoltato il loro ultimo lavoro, Ode To The Flame, di cui avevo molto apprezzato il brano “Era Borealis”, presentato anche in questa sede, ma ammetto di non essermi informata sulla formazione della band, quindi rimango piacevolmente sconvolta dalla scoperta che sono solo due gli artefici di quel bordello. Non che siano l’unica band al mondo con questa caratteristica, ci mancherebbe (la stessa sensazione la provai nel 2014 con gli Inquisition), ma è comunque una sorpresa constatare dal vivo che sì, sono proprio due signori da soli e basta.
KVELERTAK
Assisto a pochi minuti della scenograficamente ricchissima esibizione dei Lordi e vado a piazzarmi con largo anticipo all’Helsinki Stage, all’aperto ma riparato da un grosso tendone, in attesa del mio personalissimo main event della giornata: i Kvelertak. La band black’n’roll norvegese mi colpì da subito nel 2012 e da allora è stato amore incondizionato, senza contare che il loro live nel 2014 — a Helsinki, durante il mio periodo Erasmus — è a oggi uno dei concerti più belli a cui io abbia mai assistito, per motivi anche di carattere strettamente personale. Mi guadagno la prima fila col mio ragazzo e un suo amico e, poco dopo la fine della celeberrima “Hard Rock Hallelujah” cantata dai Lordi qualche metro più in là, la Stretta Mortale fa la sua comparsa sul palco.
Il gruppo è maturato molto negli anni e ha conquistato una schiera di sostenitori sempre crescente, lo si vede dalla ressa che si crea sotto al palco e dalle urla dei fan in visibilio. Io sono emozionatissima e non riesco a stare ferma man mano che i sei snocciolano un repertorio vastissimo che attinge soprattutto dall’ultimo arrivato, Nattesferd. Spero fino all’ultimo in “Sjøhyenar (Havets Herrer)” tratta dal primo disco ma non vengo accontentata; in compenso, però, mi becco “Mjød”, “Ulvetid” e “Blodtørst”. Chiude il concerto “Kvelertak”, tratta dal secondo album, esattamente come due anni e mezzo prima, ed esattamente come due anni e mezzo prima riesco ad acchiappare un plettro — grazie al chitarrista che praticamente si sporse per darmelo, allora; grazie al ragazzo accanto a me che ne aveva presi due e me ne regala uno, stavolta. Lascio — fisicamente e letteralmente — la transenna felice, euforica, soddisfattissima e col collo a pezzi.
TESTAMENT
La seconda attrazione della giornata per me sono i Testament, visti per la prima volta tre anni prima e di cui sentivo tanto la mancanza. Iniziano a suonare immediatamente dopo i Kvelertak, tant’è che le prime note di “Over The Wall” mi rimbalzano sul timpano mentre sto ancora cercando di lasciare l’Helsinki Stage: un buon motivo per mettermi a correre. La band snocciola successi del passato come “The Preacher”, “Practice What You Preach”, “Into The Pit”, “D.N.R.” e “Disciples Of The Watch” uno dopo l’altro; Chuck Billy si conferma uno dei miei frontman preferiti, nonché un morbidissimo e panzosissimo orsacchiotto. Rimango un po’ male dall’assenza di “More Than Meets The Eye”, ma in generale anche stavolta sono soddisfatta.
BEHEMOTH
Sono i polacchi Behemoth a chiudere il mio primo giorno al Tuska. Lo spettacolo è musicalmente e visivamente di altissimo livello e Nergal, che quando lo vidi nel 2013 era ancora visibilmente provato dalla leucemia, stavolta appare in piena forma. La band suona per intero l’ultimo lavoro, The Satanist, concedendo però al pubblico ben tre encore: “Ov Fire And The Void”, “Conquer All” e “Chant For Eschaton 2000”. Neri coriandoli di film cadono dall’alto, il microfono prende improvvisamente fuoco, l’atmosfera è occulta ed oscura: tutto perfetto. Io e il mio ragazzo ci avviamo verso l’uscita in cerca di un posto dove mangiare qualcosa, mentre gli Avantasia di Tobias Sammet gorgheggiano nel microfono.
Sabato – WITH THE DEAD
Dopo un rapido pasto a base di pizza surgelata — nel senso che l’abbiamo mangiata così, appena tolta dal freezer — usciamo di casa e arriviamo a Suvilahti giusto in tempo per riempire la bottiglietta d’acqua e assistere allo stoner-doom dei With The Dead, band formata da nomi illustri, tra cui spicca quello di Lee Dorrian (ex Cathedral). Non c’è molta gente all’inizio, ma basta una mezz’ora per trascinare nel void un numero più consistente di spettatori, mentre il quartetto sul palco propone il disco eponimo — sei tracce — per intero. I movimenti di Dorrian, che si muove a tempo di musica, riescono a ipnotizzarci, e alla fine dell’esibizione, quando realizzo che in effetti non c’è stato il pieno di spettatori, mi dico che in un certo senso è meglio così.
TSJUDER
Una breve pausa in zona Inferno Stage, dove stanno suonando i finlandesi Circle («Ammazza oh, ma sono bravi!»), precede l’esibizione dei norvegesi Tsjuder, durante la quale io e la mia amica Margherita rimembriamo le grasse risate condivise pochi mesi prime mentre suonavano i blackster Alghazanth e realizziamo che la vita da musicista è dura, specie se sei costretto a mantenerti in forma allo scopo di suonare senza maglietta. Stronzate a parte, i tre sono delle vere e proprie macchine e in quarantacinque minuti pestano come se non ci fosse un domani, porgendo anche omaggio ai Bathory con una cover di “Sacrifice”. Non una parola di dialogo col pubblico, solo pura e semplice viulenz’, e ci piace tantissimo.
MØRKET + JESS AND THE ANCIENT ONES
Arriva per me il momento di ascoltare i Mørket, band emergente finlandese formata da miei coetanei — conosciuta, pensate un po’, tramite Instagram — che propone un mix di black metal e crust, roba che pesta al punto giusto e che mi impressiona in positivo. Li ascolto fino alla fine, confermando le mie aspettative. Il gruppo ha pubblicato un solo album, Musta Luonto, giusto tre mesi fa: se siete amanti del genere, vi consiglio di recuperarlo al più presto.
Poco prima della fine dell’esibizione dei Mørket, il running order subisce una modifica: gli Havok hanno avuto un ritardo aereo e quindi si esibiranno alle 21:40 al posto dei Lord Vicar, anticipati alle 19:10. Contentissima mi rendo conto che in questo modo avrò meno sovrapposizioni tra i gruppi che voglio vedere e quindi esco tranquilla dall’area festival col mio ragazzo per andare a mangiare un boccone, visto che eravamo digiuni da mezzogiorno. Purtroppo, ahimè, ci vuole più tempo del previsto, quindi torniamo in area festival alle 19:40, quando ormai i Lord Vicar stanno per finire. Mi consolo incontrando il mio gruppo di amici, con cui ci facciamo scattare tutti insieme una foto idiotissima, e poi mi avvio con una mia amica a vedere i Jess And The Ancient Ones, la band settantiana-psichedelica finlandese che si esibisce all’Inferno Stage. Il tempo di ascoltare “Samhain” e di constatare le evidenti doti vocali della cantante Jess e via verso l’Helsinki Stage per i conterranei Stam1na, incontrando al volo il cantante e chitarrista degli Havok, David Sanchez, con cui scambio due parole mentre al Radio Rock Stage gli Anthrax stanno facendo pogare le masse.
STAM1NA
A quel punto, contro ogni aspettativa, comincia a piovere. Forte. Era prevista pioggia ma solo per domenica, quindi siamo tutti un po’ spaesati e preoccupati, specie perché l’ultimo grosso nome della giornata saranno i Ghost, all’aperto, e l’idea di bagnarmi non mi entusiasma per niente. Assisto quindi con preoccupazione alla performance degli Stam1na, abbigliati in tute da lavoro di uno sgargiante arancione e che fortunatamente riescono a distrarmi efficacemente, tirando fuori dal loro repertorio brani vecchi e nuovi, da “Panzerfaust” al più recente “Elokuutio”, dall’inaspettato e primordiale “Ristiriitä” all’ormai familiare “Kuudet Raamit”. La band è difficile da etichettare in un solo genere; quel che è certo, però, è che è amatissima dai finlandesi e già un’ora prima della loro comparsa sul palco c’erano tantissimi fan pronti ad attenderli con ansia.
GHOST
Ore 22:25, piove ancora e non sappiamo bene se andare a vederci i Ghost e inzupparci, oppure restare al coperto e rosicare: la band svedese aveva già suonato a Helsinki durante l’inverno, riscuotendo un grandissimo successo e facendo sold out, ma non ero potuta andare a vedermeli con immenso dispiacere. A risolvere il dilemma spunta il mio ragazzo, reduce dagli Anthrax, con una bellissima mantellina gialla con la scritta rossa “Alepa” (uno dei supermercati più diffusi in Finlandia) sulla schiena, una cosa fashionissima. Me la lancio addosso e corro verso il palco, mentre i Ghost stanno suonando le prime note di “Spirit”, preceduta da “Miserere Mei, Deus” di Gregorio Allegri e “Masked Ball” di Jocelyn Pook (ricordate il film “Eyes White Shut”?).
La pioggia fortunatamente smette poco dopo, quindi io e i miei fedeli compagni, anche loro equipaggiatisi celermente con una mantella di Santo Alepa, ci godiamo Papa Emeritus III e i suoi Nameless Ghouls all’opera. Ora, il primo disco che abbia mai ascoltato dei Ghost è stato Infestissumam, il secondo, il quale — a parte un paio di eccezioni — mi ha fatto proprio schifo. Con estrema riluttanza tentai l’approccio col nuovo Meliora, pubblicato lo scorso anno, e con altrettanto estrema sorpresa me ne innamorai al primo ascolto. I pezzi che ero più ansiosa di sentire, infatti, erano tratti proprio da quest’ultimo disco, e sono stata accontentata: “From The Pinnacle To The Pit”, “Mummy Dust”, “Cirice”, “He Is”, “Absolution”; affiancati da alcuni brani del primo disco, Opus Eponymous (che conosco molto poco e dovrò recuperare, vista la bella impressione che mi hanno fatto), e del già menzionato Infestissumam, di cui già amavo “Year Zero”. A volte il contesto live cambia tutto, mi scopro quindi ad apprezzare i pezzi tratti dal secondo disco che mi aveva impressionata così poco: ad oggi posso dire che l’ho completamente rivalutato.
Sfortunatamente ricomincia a piovere e io e il mio ragazzo decidiamo che forse sarebbe meglio andare, anche perché lui non ha voluto prendere la mantella per coprirsi. Uomini… Il giorno dopo scopriremo che il secondo giorno di Tuska aveva fatto il botto, risultando sold out: il merito, ne sono certa, è quasi interamente dei Ghost. Scopriremo anche che hanno chiuso il concerto con “Monstrance Clock”, «un’ode all’orgasmo femminile», così spiegherà Papa Emeritus III. Peccato essersela persa.
Domenica – MYRKUR + MÖRBID VOMIT
Il terzo e ultimo giorno di Tuska (che vuol dire «dolore», tra l’altro) dovrei iniziarlo con Myrkur alle 14:45, subito dopo un meet & greet con i Katatonia e uno scazzatissimo Jonas Renkse, cosa che mi fa rimanere abbastanza male, ma succede qualcosa di inaspettato: io e i miei due amici intravediamo il cantante e chitarrista degli Stam1na che chiacchiera vicino a un tavolino all’aperto, sotto la pioggia (sì, piove anche oggi). Dopo una decina di minuti di fangirlamento adolescenziale che nemmeno a sedici anni, decidiamo di andare da lui per chiedergli una foto. Finiamo a parlare tutti e quattro per almeno dieci minuti, Antti ci mostra una banconota con l’effigie di Papa Emeritus III raccolta il giorno prima da terra e ci consiglia di andare a vedere i Mörbid Vomit, consiglio che avevamo in realtà già intenzione di seguire. Felici e gai come dei bimbi che hanno appena incontrato Sonia de La Posta Di Sonia, andiamo a sentire le ultime cartucce sparate da Myrkur e la sua band e poi ci rifugiamo nella confortevole oscurità dell’Inferno Stage. Non capisco, tra l’altro, tutto l’odio e il sessismo che gli hater sputano costantemente su Myrkur, visto che personalmente la ritengo un’artista più che capace.
I Mörbid Vomit iniziano a suonare alle 15:25 e noi ce li vediamo dalla piccionaia in alto, seduti a terra a lamentarci della vecchiaia che ormai non ci consente più di fare i tipi da festival. La band propone un death metal vecchia scuola che pesta e funziona alla grande: anche loro hanno prodotto un solo disco, Doctrine Of Violence, che gli interessati potranno facilmente recuperare. Caos e bordello ben organizzato: ci sta.
NERVOSA
Piove ancora parecchio, quindi decido di restare all’Inferno Stage con la mia amica Margherita in attesa lei dei finlandesi Diablo e io delle brasiliane Nervosa, trio thrash metal che ebbi l’occasione di sentire anche al Brutal dello scorso anno, con la differenza che quella volta faceva un caldo soffocante ed erano le prime ore del pomeriggio: una combo mortale che mi impedì di soffermarmi a guardarle attentamente. Stavolta, però, siamo al chiuso e si sta belli freschi, quindi la situazione è ottimale. Le ragazze sono giovanissime e molto emozionate all’idea di suonare in Finlandia («Un sogno che abbiamo da sempre»), la bassista e cantante Fernanda — che ha la mia età, tra l’altro — interagisce moltissimo col pubblico e i brani suonati sono tratti da entrambi i loro dischi, Victim Of Yourself e Agony. Dopo “Into Mosh Pit” le ragazze non fanno che ringraziarci più e più volte, informandoci che saranno in giro per l’area festival nelle ore successive per bere qualcosa e chiacchierare con noi. Mi sarebbe molto piaciuto scambiare due parole con loro, ma purtroppo non le ho più viste.
GOJIRA + KATATONIA
Il primo nome di un certo rilievo a livello internazionale è quello dei Gojira, che avevo già visto e che si riconfermano una band validissima e tecnicamente impeccabile. “L’Enfant Sauvage” ha scatenato l’headbanging più o meno di tutti, ma alle 18:10 siamo già quasi tutti all’Helsinki Stage in attesa dei Katatonia.
Sì, ero rimasta un po’ delusa dal meet & greet, ma in fin dei conti è possibile che la gente doom non ami particolarmente i fan adoranti e le foto, quindi vabbè, decido di far finta di niente in nome del bel concerto a cui spero di assistere. Li avevo già visti all’Orion di Ciampino (RM) nel 2012, al Brutal Assault 2014 — nel corso del quale ebbero così tanti problemi tecnici che finirono per suonare mezz’ora invece dell’ora prevista — e anche a quello del 2015, regalando ai fan prestazioni buonissime e tantissime emozioni e lacrime. Stavolta l’hype è altissimo per via dell’ultimo, eccellente disco The Fall Of Hearts, pubblicato il 21 maggio scorso. Si comincia con “July”, giustamente, toccando poi punti come “Nephilim”, “Deliberation”, un’inaspettata “In The White”, “Forsaker”, “My Twin”, ma il delirio si scatena con “Old Heart Falls”, tratta dal nuovo disco e caratterizzata da uno dei ritornelli più belli mai scritti dai Katatonia, personalmente lo ritengo secondo solo a quello di “The Longest Year”. Rimango colpitissima da Roger Öjersson, il nuovo arrivato alla chitarra, per via della sua abilità nei cori: quasi tutti i brani dei Katatonia sono farciti di backing vocals più o meno complicate e lui si è dimostrato più che all’altezza di affiancare Renkse e la sua voce. L’esibizione cancella, o quantomeno offusca, quasi totalmente il poco soddisfacente meet & greet.
CHILDREN OF BODOM
L’ultimo grande nome della giornata sono i locali Children Of Bodom, che ormai non seguo più assiduamente come prima, ma dei quali ho apprezzato il nuovo lavoro I Worship Chaos. Li vidi anche durante il Brutal 2014, più in nome dell’affetto adolescenziale che mi aveva legata a loro che altro, e mi sorpresero proponendo una scaletta praticamente perfetta, quasi completamente incentrata sui vecchi brani, quelli più famosi: rimango felicemente sopresa man mano che apprendo che la scaletta scelta per il Tuska è molto simile. Come dirà Mikael degli Opeth qualche giorno dopo, al Monsters Of Rock, «People want to hear the old shit».
La setlist dei CoB, in cui ormai milita Daniel Freyberg alla seconda chitarra al posto di Roope Latvala, spazia da “Follow The Reaper” a “In Your Face”, da “Hate Crew Deathroll” a “Silent Night, Bodom Night”, da “Trashed, Lost & Strungout” — che adoro e mai mi sarei aspettata di poter ascoltare — a “Hate Me!”, e così via. Gli unici pezzi nuovi proposti sono “Morrigan” e “I Worship Chaos”, entrambi tratti dall’ultimo disco. All’improvviso, prima di “Lake Bodom”, Janne “Warman” Wirman lascia la sua postazione dietro le tastiere, lasciando spazio a un’ospite, Netta Skog, ormai membro ufficiale degli Ensiferum come fisarmonicista al posto della tastierista Emmi. Dopo l’ultimo brano, “Downfall”, i Children Of Bodom concedono tre encore, e da lì si crea il panico.
Le encore sono tre cover, prima delle quali è “Lookin’ Out My Back Door” dei Creedence Clearwater Revival. Seguono l’entrata di musicisti di altre band (tra cui Pexi degli Stam1na), i quali vanno a posizionarsi dietro la fila di microfoni precedentemente aggiunta dai tecnici, e tutti insieme cantano “Somebody Put Something In My Drink” dei Ramones, ballando e saltando come dei ragazzini. Noi del pubblico eravamo increduli e sorpresi, incapaci di toglierci un sorrisone enorme dalla faccia. Pensavamo di aver visto tutto, ma non era finita: Alexi Laiho invita alcuni fan a salire sul palco per cantare l’ultimo brano: «EI JUMALAUTA!», imprecherà un signore di circa quarantacinque anni, passando vicino a noi, sgomitando e correndo nella speranza di arrivare anche lui in prima fila ed essere scelto per cantare con la band. Intanto ricompare Netta Skog alla fisarmonica e, a sorpresa, David Sanchez degli Havok. Tutti insieme cantano “Ghostriders In The Sky” di Stan Jones, mentre il bassista Henkka imbraccia una chitarra e Janne Wirman il basso. Alla fine del concerto siamo tutti concordi su un punto: è stata l’esibizione più divertente dell’intero festival.
L’ultimo giorno del festival si conclude alle 21:00, dando a tutti la possibilità di infilarsi a letto a un orario ragionevole. Il mio giudizio è assolutamente positivissimo e, dal momento che il prossimo anno sarà il ventennale, potete scommettere sul fatto che farò di tutto per non perdermelo.
P.S.: In un momento di imbecillità particolarmente acuto, iniziai a sparare improbabili nomi a caso di artisti che avrei voluto veder suonare al Tuska, tra cui i Beastie Boys. Il caso ha voluto che, dopo l’esibizione dei Children Of Bodom, fossero proprio le note di “You Gotta Fight For Your Right To Party” ad accompagnarci mentre uscivamo.