I LISTONI DEL DECENNIO #4 – POST-METAL
Sembra ieri che si chiudeva il primo decennio di questo nuovo, scalcagnato millennio. E invece sono passati altri dieci anni, e da buona webzine siamo già qui a tirare le somme di cosa gli anni Dieci ci abbiano dato e cosa ci abbiano tolto in ambito musicale. Anzi, siccome da queste parti ci diamo delle arie, abbiamo deciso che tiriamo le somme solo di cosa ci porteremo dietro di questo decennio, e ce ne infischiamo delle cose brutte e di quelle che ci sono state portate via, tipo i Motörhead, perché ci farebbe troppo male.
Questo articolo è quindi parte di una serie di listoni da dieci dischi ciascuno che vogliono essere un vademecum di questi anni, pensati per quando saremo estinti e gli alieni finalmente atterreranno sulla Terra e dovranno cercare di capire chi eravamo. O più semplicemente, per chiunque volesse prendersi la briga di sapere quali sono stati secondo noi gli album migliori e al tempo stesso più importanti usciti tra il 2010 e il 2019. Quella che segue è la musica più bella in cui ci siamo imbattuti nell’arco di dieci anni, senza alcun criterio preciso al di là del nostro gusto personale. Il che significa che mancherà sicuramente il tuo album preferito, e puoi farcelo notare, ma con delicatezza, perché questi elenchi non hanno alcuna pretesa di essere esaustivi né di insegnare qualcosa a qualcuno. Sono solo la musica del demonio che ci piace di più.
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POST-METAL
Dieci anni fa si iniziava a parlarne come cosa separata dal resto, tuttavia oggi è un sottogenere ormai largamente canonizzato. Prendendo le mosse dallo sludge, dal doom, dall’hardcore, dal black e da tanti altri suoni orrendi, il post-metal è la proposta più moderna in cui il metallaro può imbattersi, ma è anche uno dei rari casi in cui la modernità non scende a compromessi: disagio, violenza e pesantezza sono ancora una condizione necessaria.
KYLESA
Spiral Shadow
(Season Of Mist, 2010)
L’ultima volta che ho scritto dei Kylesa è stato per parlare di Exhausting Fire (2015) e ancora non sapevo che sarebbe stato l’ultimo disco pubblicato dalla band di Savannah, prima di prendersi una pausa di durata a oggi ancora indefinita. Lascia sicuramente l’amaro in bocca non sapere quand’è che potremo assaporare nuova musica, fortunatamente però quella che i Kylesa ci hanno lasciato finora è di qualità quasi sempre eccelsa, in particolare Spiral Shadow con le sue contaminazioni sludge e psichedeliche, come anche la copertina lascia intendere. Se crearsi un suono che sappia essere di spicco e ricco di personalità è impresa difficile, d’altra parte è innegabile che la fusione delle voci di Phillip Cope e Laura Pleasants sia tutto tranne che poco riconoscibile. Come dimenticare poi le melodie ipnotiche di “Crowded Road”, quelle più ruffiane di “Don’t Look Back” e i ritmi più lenti e quasi desertici di “Distance Closing In”? Spiral Shadow vanta ben undici brani per un totale di soli quaranta minuti, il che lo rende un disco incredibilmente concentrato e allo stesso tempo intensissimo. Provare per credere e, se ancora non conoscete (bene) i Kylesa, magari partite da qui.
SALOME
Terminal
(Profound Lore Records, 2010)
Terminal è quello che succede quando metti un’insegnante di yoga attivista e con un caratterino non proprio pacato assieme a un chitarrista cresciuto con gli Iron Monkey e un batterista che in realtà più che il tom e rullante ama i droni e gli effetti da impianto siderurgico. Reduci da un debutto più classicamente sludge un paio d’anni prima, i Salome inaugurano il decennio con uno dei primi album in cui si capisce che il post-metal è qualcosa di diverso da tutto quello che abbiamo sentito in precedenza. Sulla matrice sludge lercissima la band della Virginia aggiunge una serie di disagi ulteriori, da lunghi momenti di effettistica pura a testi molto più vicini all’hardcore e al crust, in cui Kat Katz sancisce a chiare lettere che la vita fa schifo e il genere umano fa ancora più schifo. I tempi sono rallentatissimi e doomy, ma il sound è inequivocabilmente sporcato da cose altre, e il mastering di James Plotkin è il certificato finale di nocività e follia. Il trio si scioglie poco dopo, perché Katz non si sente trattata equamente dai suoi compagni di band (situazione che si ripeterà poi con gli Agoraphobic Nosebleed), ma a dieci anni dal suo concepimento Terminal resta uno dei punti di incontro fondamentali tra vecchio e nuovo.
CELESTE
Morte(s) Nee(s)
(Denovali Records, 2010)
Ci sono gruppi il cui nome risulta essere estremamente fuorviante rispetto al genere proposto. I Celeste sono uno di questi: ricordo che al primo approccio mi aspettavo qualcosa di atmosferico e delicato, in stile shoegaze. Niente a che vedere con la mattonata sui denti che è Morte(s) Nee(s), terzo album dei francesi, un cattivissimo miscuglio di post, hardcore e black che non conosce pausa dalla prima all’ultima nota. L’assalto frontale del quartetto di Lione si snoda tra momenti spaccaossa in cui riffoni enormi investono i timpani e aperture che esaltano la voce carica di disagio e sofferenza. La ciliegina sulla torta è l’imponente “De Sorte Que Plus Jamais Un Instant Ne Soit Magique”, che lascia l’ascoltatore a raccogliere i cocci della propria anima, con gli archi a intervallare gli ultimi colpi inferti. Graziato da una durata perfetta e da una produzione che risulta al contempo più pulita rispetto al predecessore Misanthrope(s) e più sanguigna e viscerale rispetto ad Animale(s), che arriverà tre anni dopo, Morte(s) Nee(s) è il disco che cristallizza il talento dei Celeste e definisce il loro stile inconfondibile, che sarà portato avanti con intransigenza fino a oggi.
SÓLSTAFIR
Svartir Sandar
(Season Of Mist, 2011)
L’inizio degli anni Dieci è stato segnato, tra le altre cose, dall’esplosione del vulcano Eyjafjöll, che probabilmente ha messo a rischio le vacanze estive di molti di noi. Restando sempre entro i confini dell’Islanda, un’altra esplosione ha caratterizzato l’ultimo decennio: quella di una scena metal più o meno estrema che ha sfornato parecchi gruppi di assoluto rilievo. Alfieri incontrastati di questa nicchia sono i Sólstafir, che nel 2011 compivano già sedici anni di attività, ma si apprestavano a sfornare il lavoro che avrebbe completato la loro transizione dal viking-black a un personalissimo post-metal, divenuto loro marchio di fabbrica inconfondibile. Svartir Sandar è un’opera maestosa, i cui due dischi sono un concentrato di emotività e intensità come pochi altri. L’iniziale e travolgente “Ljós Í Stormi” lascia subito spazio a quella che può essere considerata la “Stairway To Heaven” del gruppo scandinavo, la bellissima “Fjara” ormai inamovibile dalle scalette live e garanzia di lacrimoni sotto al palco. Segue una scaletta clamorosa, che si conclude come da tradizione con un pezzo-kolossal, “Djákninn”: un crescendo lungo quasi undici minuti che sigilla un disco estremamente riconoscibile, nonché l’apice di una band che in seguito si è solo avvicinata a tali livelli.
OM
Advaitic Songs
(Drag City, 2012)
Si sa che Al Cisneros e il suo basso lasciano il segno praticamente ovunque passino. L’hanno fatto con gli Sleep, hanno continuato a farlo con gli Om. Avevamo parlato di God Is Good in occasione del suo (e nostro) decennale, il disco che fece di fatto da apripista per Advaitic Songs. Con l’ormai rodato batterista Emil Amos e la conferma di Robert Aiki Aubrey Lowe tra gli ospiti, ancora una volta per Drag City, l’ultimo disco degli Om è un tuffo senza più remore nel misticismo. Le sparute venature stoner-doom si fanno più rarefatte che nel lavoro precedente fin dall’apertura“Addis”, in cui le percussioni si limitano a un tamburello e il cantato è affidato alla ospite Kate Ramsey. Tante collaborazioni (tra cui Jackie Perez Gratz dei Giant Squid al violoncello) in quello che è il lavoro più collettivo della loro carriera. Le canzoni advaitiche vi apriranno la via verso un altro piano dell’esistenza, un album assolutamente da ricordare.
AMENRA
Mass V
(Neurot Recordings, 2012)
Definire in qualche modo gli Amenra da un punto di vista strettamente musicale è tempo sprecato. Certo, ci sono riff hardcore, sfondi di estrazione drone, ritmiche opprimenti, arpeggi malinconici e urla strazianti, ma questi elementi sono la punta di un iceberg che affonda in profondità nel malessere, nella disperazione più cupa, nel dolore soverchiante, nella lucida consapevolezza di essere una fiamma che consuma se stessa in un ciclo infinito di morte e rinascita. In Mass V non esiste spazio per nulla di luminoso, per nulla che abbia una speranza: gli Amenra mettono a nudo la loro stessa anima martoriata, ormai ricoperta dal tessuto cicatriziale di migliaia di ferite autoinflitte, decostruendola pezzo dopo pezzo, per poi lasciarsi dietro soltanto mucchi di rovine fumanti. Non esistono corrispettivi linguistici per un album come questo che, con quattro pezzi e in meno di quaranta minuti, riesce a demolire qualsiasi cosa, seppellendo sotto strati infiniti di macerie ogni sovrastruttura, evocando un titanico nucleo di mortifera angoscia allo stato quintessenziale. Esiste una sola possibilità, ovvero prostrarci, cospargerci il capo di cenere e lasciarci guidare con sacro timore verso la conoscenza della bestia che ognuno di noi si porta dentro. E quindi tutti a messa nella Chiesa di Ra, dove Colin H. Van Eeckhout e soci, alla nona ora, amministreranno una funzione che ci porterà al cospetto dell’unica divinità che tutti dovremmo amare e accogliere: la costante e penosa sofferenza provocata dal semplice fatto di avere nel petto un cuore che ancora si ostina a battere.
RUSSIAN CIRCLES
Memorial
(Sargent House, 2013)
Se seguite un minimo le post-cose, in realtà non c’è bisogno che stia qui a spiegare perché Memorial dei Russian Circles è in questa lista. Se proprio devo, cito “1777” e “Deficit” e vi auguro buon ascolto. A parte l’indubbia qualità dell’album in sé, però, ci sono un altro paio di motivi per cui ha segnato in maniera particolare il decennio. Il trio originario dell’Illinois aveva già iniziato a lavorare con Sargent House con l’ottimo Empros un paio di anni prima, dando un grande contributo all’affermazione dell’etichetta gestita da Cathy Pellow. Proprio in questo senso, è da segnalare infatti la collaborazione con Chelsea Wolfe nella title track, l’unico brano con cantato nella carriera dei Russian Circles e un tassello importante nella costruzione di ponti tra metal, post-cose, cantautorato oscuro e quant’altro, proseguita con ottimi risultati nel corso del decennio.
SUBROSA
More Constant Than The Gods
(Profound Lore Records, 2013)
Come la storia e la letteratura ci hanno insegnato, è cosa comune che le divinità abbandonino il nostro mondo, volenti o nolenti. La stessa decisione è stata presa dai Subrosa nel maggio di quest’anno ed è inutile descrivere l’ampiezza del cratere lasciato da questa scelta nella scena musicale contemporanea. Come ogni divinità che si rispetti, però, questi moderni cantori hanno lasciato dietro di sé doni e segnali, affinché si possa continuare a godere della loro salvifica vicinanza. Il più luminoso tra questi segni è More Constant Than The Gods, un condensato di devastanti sonorità sludge e di voci eteree che ha riscritto a caratteri cubitali le regole del genere, lasciando fluire dentro di sé sonorità e atmosfere strappate da un nebuloso paradiso perduto dai sentori post-rock e donando loro una consistenza fatale e struggente. Lasciando ora da parte il riffing devastante e la sezione ritmica priva di sbavature, l’accento va posto sulle armonie dipinte dagli strumenti ad arco, dalle tastiere e dai cori, gli elementi che più contraddistinguono lo stile dei Subrosa: il risultato di una sintesi mirabile della cetra e della folgore, Apollo e Dioniso, il perfetto e quasi irreale equilibrio tra armonia e tracotanza.
CULT OF LUNA & JULIE CHRISTMAS
Mariner
(Indie Recordings, 2016)
Dopo una carriera ormai ventennale, risulta quantomeno pleonastico affermare che i Cult Of Luna siano una delle realtà più solide all’interno del caleidoscopico panorama post. Il sestetto di Umeå, infatti, non ha mai perso un colpo e l’ultimo parto del 2019, A Dawn To Fear, ha ben sottolineato il concetto; un concetto che era stato esplicato già a suo tempo da Vertikal e che Mariner ha poi consolidato definitivamente. I sei svedesi, in maniera del tutto inaspettata, poco dopo l’annuncio di un periodo di pausa, se ne sono usciti nel 2016 con una collaborazione con Julie Christmas, artista già ben conosciuta per il suo operato nei Made Out Of Babies e nei Battle Of Mice. Un esperimento riuscito oltre ogni più rosea aspettativa: l’eclettica statunitense urla il proprio disagio di estrazione punk sopra i chitarroni enormi dei Cult Of Luna, generando un vortice sfaccettato di consapevole alienazione che ha davvero dell’incredibile. La predisposizione della band a costruire cattedrali di riff che traghettano verso altre dimensioni sensoriali si amalgama alla perfezione con una prestazione vocale tanto avvolgente quanto graffiante: il risultato è una narrazione con un peso specifico titanico, un coacervo di atmosfere ipnotiche che stordisce e picchia con violenza inaudita. Mariner è una perla di rara bellezza che, molto semplicemente, sposta un po’ più in là i paletti, divenendo a tutti gli effetti un paradigma di potenza immaginifica.
THE OCEAN
Phanerozoic I: Palaeozoic
(Metal Blade Records, 2018)
I The Ocean si sono sempre distinti dalla massa fin dalle loro primissime pubblicazioni: i loro concept album dalle tematiche profondamente rilevanti assieme ai brani volutamente lunghi e complessi hanno garantito al collettivo teutonico un posto nell’olimpo delle band del genere, se esistono davvero altre band del genere. Eppure, dopo l’uscita di Pelagial (avvenuta nel 2013 per Metal Blade Records e Pelagic Records) sembrava quasi impossibile che i Nostri potessero superarsi, e invece ce l’hanno fatta. Palaeozoic è il sottotitolo di questo primo macro-atto intitolato Phanerozoic ed è destinato ad avere un seguito presumibilmente nell’arco del prossimo anno. Gli argomenti cardine dell’opera, come si intuisce dal titolo, fanno riferimento all’eone Fanerozoico e, più nello specifico, agli eventi che hanno caratterizzato l’era del Paleozoico, che spazia dai 542 ai 252 milioni di anni fa; eppure, per quanto lontani da noi, questi vengono trattati da Loïc Rossetti e soci con una vivida crudezza così toccante da travalicare i confini dello spazio e del temp,o fino a farci rivivere sia la drammatica deriva dei continenti avvenuta in quei secoli sia la grande estinzione di massa che ha segnato il passaggio dal Permiano al Triassico (“Permian: The Great Dying”). Suoni perfetti, voci sublimi, arrangiamenti ineccepibili e una discretissima collaborazione con Jonas Renkse dei Katatonia (all’interno di “Devonian: Nascent”) hanno messo il sigillo a quella che a parere di moltissimi è stata una delle più ispirate uscite dello scorso anno. Nessuno può opporsi a questo assalto acustico-emotivo: ascoltate, esperite e soffrite; i The Ocean hanno partorito un capolavoro.