10 Ballad Per Cuori Teneri
Possiamo fare i metallari cattivi quanto ci pare e andare in giro con magliette nere stracariche di loghi perlopiù illeggibili quanto vogliamo, ma in fondo siamo dei gran romanticoni e, che ci piaccia o meno, non siamo insensibili al lato più delicato della musica del diavolo. Andiamo, chi è che non si è mai commosso ascoltando una ballad? Chi ha il coraggio sfacciato di negare di essersi emozionato ascoltando canzoni che parlano d’amore, morte, solitudine e tutto quanto di bello (o brutto) la vita ha da offrire? Esatto, nessuno. Qui di seguito trovate una selezione delle ballate che più ci stanno a cuore, quelle che ci fanno piangere mentre siamo sotto le coperte e stringiamo forte al petto peluche a forma di caproni infernali, perché, come probabilmente avrete capito, confessarci e metterci a nudo ci piace proprio tanto.
Black Sabbath – Solitude [Bosj]
A volte le scelte più semplici sono anche quelle più efficaci. Senza doverci pensare troppo, “Solitude” è la madre di tutte le ballad, di tutto il doom, di tutto il malessere, di tutta un’esistenza. Nel 1971 i Black Sabbath erano al terzo disco in un anno e mezzo e non avevano alcuna voglia di fermarsi, avevano tantissime cose da dire e in ogni canzone trovavano un nuovo modo per farlo. Eppure, nonostante il loro status di rockstar stesse già crescendo a ritmi a dir poco vertiginosi, questi cinque minuti certificarono in modo inossidabile un senso di inadeguatezza, una tristezza, una sensazione di abbandono che ancora dopo quasi cinquant’anni non accenna a invecchiare. Non si contano più i gruppi che hanno tentato di esprimere in una carriera quello che le leggende di Birmingham hanno riassunto e codificato in un singolo brano. Tutto ciò che c’è da sapere sulla sofferenza sta in una canzone. Questa.
Whitesnake – Sailing Ships [Elisunn]
Il mio legame con i Whitesnake è cominciato quasi per caso con “Fool For Your Loving”, che ballad non è ma sempre d’amore parla, ed è continuato con “Still Of The Night”, uno dei brani più erotici che conosca. Imbattersi in un pezzo delicato e allo stesso tempo intenso come “Sailing Ships”, e nella sua celebrazione della vita, dell’avventura e del desiderio di lanciarsi a esplorare, è stato una splendida sorpresa, specialmente nella versione “Starkers In Tokyo”. Mettiamoci pure che quella di Davidino Coverdale è una delle voci che preferisco ed ecco pronta la magia: arpeggi di chitarra, archi in sottofondo e finale che esplode in un tripudio di acuti. Non versare nemmeno una lacrimuccia è impossibile, non importa che la si stia ascoltando per la prima o per la centesima volta.
«Spread your wings and you will see
You control your destiny»
Anathema – One Last Goodbye [Es]
Inutile negarlo, le canzoni degli Anathema su cui farsi scappare una lacrimuccia, per i più svariati motivi, sono innumerevoli. “One Last Goodbye”, però, probabilmente le batte tutte. Il brano e il disco che lo contiene (Judgement, del 1999) sono dedicati alla memoria di Helen Cavanagh, madre di Danny, Vincent e Jamie. Per i novellini, è opportuno sottolineare che i primi due sono l’anima della band e Judgement è il primo album in cui le sonorità doom vengono marcatamente superate ed elaborate in un alternative rock riflessivo e personale. “One Last Goodbye” rappresenta e consacra questa svolta e lo fa, inevitabilmente, con la delicatezza di una ballata.
Iron Maiden – Wasting Love [Giup]
Tutto ciò che nella storia degli Iron Maiden va dal 1990 al 1998 è cosa nota ai metallari di tutto il globo: prima l’addio di Adrian Smith, con l’arrivo del mai totalmente accettato dai fan più integralisti Janick Gers, poi quello di Bruce Dickinson con tutto ciò che ne è conseguito. Tra questi due avvenimenti, due dischi spesso oscurati — in negativo — da quanto uscito con Blaze Bayley alla voce. Da Fear Of The Dark, a detta del sottoscritto il peggior disco con Bruce alla voce, proviene una delle ballatone più sfacciate dell’ormai sestetto britannico, “Wasting Love”. L’unica canzone d’amore nella discografia della Vergine di Ferro è tra i pochi brani validi del disco targato 1992 e ha tutti gli ingredienti necessari per accaparrarsi un posto in questa speciale selezione: arpeggioni acustici, un assolo particolarmente sentito e quell’ugola d’oro che ha fatto sognare molti di noi imberbi metallini, che narra l’infelice esistenza di chi si ritrova ad amare in maniera vuota, scivolando da un letto all’altro per sempre in balìa della solitudine.
Iced Earth – Watching Over Me [Huldradans]
Se non la migliore tra le ballad scritte dagli statunitensi Iced Earth, “Watching Over Me” è certamente una delle più toccanti in virtù degli struggenti arpeggi, di un testo decisamente suggestivo e della coinvolgente interpretazione di quel mostro di talento che risponde al nome di Matt Barlow. La musica ha la straordinaria capacità di trasmettere intatte sensazioni ed emozioni provate dall’autore durante la sua composizione. In questo frangente si percepisce lo stato d’animo che ha mosso John Schaffer durante la scrittura, ispirata e dedicata all’amico di infanzia Bill Blackmon, deceduto anni prima in seguito a un incidente stradale. Nonostante la tragedia personale e contrariamente a quanto lecito aspettarsi, i toni depressivi sono posti in secondo piano a favore piuttosto di un messaggio quasi consolatorio: «I feel it once again / It’s overwhelming me / His spirit’s like the wind / The angel guarding me». A tutto questo possiamo aggiungere un ritornello trascinante e melodie piene di pathos che permettono a “Watching Over Me”, senza timore di smentite, di entrare di diritto nel novero delle ballad da ricordare.
W.A.S.P. – Hold On To My Heart [Kelvan]
Quanto è vero che The Crimson Idol è il punto più alto della carriera dei W.A.S.P., questa magnifica rock opera include una delle ballad più emozionanti di sempre. Contestualizzata, “Hold On To My Heart” non è altro che il grido di aiuto di Jonathan, il protagonista della storia narrata nel disco, che nella sua scalata verso fama e successo si rende conto di aver perso una colonna fondamentale: l’affetto e la presenza delle persone care. Quasi a conclusione della sua vicenda, che finisce tragicamente di lì a poco, il brano riesce ad avere una valenza assoluta anche al di fuori del disco, incastrandosi perfettamente in quella serie di ballad melodiche e spaccamutande, piene di pathos e soprattutto con un ritornello impossibile da dimenticare. Una poesia disperata, che grida il bisogno d’amore fisiologico con pochissime strofe cariche di significato come la straziante «And oh no, don’t let me go cause all I am / You hold in your hands, and hold me». Una canzone che ti rimane dentro, soprattutto se in qualche modo legata a eventi della vita personale.
Lake Of Tears – Forever Autumn [LordPist]
Gli anni ’90, un periodo in cui andava parecchio essere un po’ gotici, un po’ autunnali, sempre all’insegna dell’allegria e della voglia di fare. I Lake Of Tears sono una di quelle band svedesi che non hanno mai fatto davvero il grande balzo, mentre alcuni loro colleghi come Katatonia e Tiamat si avviavano a fare grandi cose in giro per il mondo (ok, soprattutto i primi). Ciononostante, il progetto di Daniel Brennare e compagni si fece comunque notare tra gli appassionati di quelle sonorità con alcuni album di maniera, fino a pubblicare Forever Autumn, una piccola gemma di gothic rock-metal proprio sul finire del decennio. Ho scelto la ballata che dà il titolo al disco proprio per omaggiare quel modo di intendere le cose gotiche, a vent’anni dalla sua uscita, perché forse in fin dei conti può essere autunno per sempre.
Blind Guardian – The Bard’s Song (In The Forest) [Oneiros]
Correva l’anno 1992, il sottoscritto non era ancora nato e la Germania regalava già perle power metalliche al mondo da quasi un decennio, quando il fanta-reame dei capelloni dai jeans attillati stava per essere sconvolto irrimediabilmente. In quella estate, una delle più promettenti realtà teutoniche avrebbe pubblicato un album destinato a fare la storia, contenente probabilmente quella che è la ballad che tutti gli amanti del metallo del potere conoscono a memoria, ovvero “The Bard’s Song (In The Forest)”. Perché i Blind Guardian sono, ancora oggi, simbolo di viaggio, fantasia, memoria ed epicità. La magia delle parole cantate dall’inconfondibile voce di Hansi Kürsch combinata alla semplicità iper-efficace delle chitarre acustiche di Olbrich e Siepen stava incantando le menti di mezzo mondo, irretendo gli ascoltatori e incatenando i loro cuori fino alla fine del tempo. Perché, in fondo, il tempo… cos’è il tempo, davanti a tutto ciò? Un inchino alla ballad simbolo di questo fantastico genere, che ci farà per sempre chiudere gli occhi, sognare e avere visioni provenienti da qualche parte molto lontano.
«In my thoughts and in my dreams
They’re always in my mind
These songs of hobbits, dwarves and men
And elves
Come close your eyes
You can see them, too»
Kamelot – On The Coldest Winter Night [VACVVM]
Contenuta in quello che è a tutti gli effetti uno degli apici della carriera dei Kamelot, “On The Coldest Winter Night” è una piccola gemma tagliata finemente, dotata di una luce che continua a brillare senza opacizzarsi ancora oggi, dopo più di un decennio. La chitarra acustica di Thomas Youngblood è dolce come il miele, la voce di Roy Khan regale e le orchestrazioni sontuose senza mai essere sopra le righe; come il resto del disco, anche questo brano è il risultato di una cura maniacale per i dettagli, cura che investe ogni aspetto: dalla lunghezza delle strofe all’incisività delle parti strumentali, articolate eppure affatto stucchevoli. Ballad sognante e romantica, “On The Coldest Winter Night” si inserisce nel complesso concept di Epica — ispirato al Faust di Goethe — che prosegue anche sul successivo e altrettanto importante The Black Halo, e vede il personaggio di Ariel impegnato a cantare dell’amore per Helena, incontrata appena fuori dal castello di Mephisto. Sugli sviluppi della trama non intendo svelarvi altro, è un disco da scoprire nella sua interezza, e questo brano non è che la proverbiale ciliegina sulla torta.
X-Japan – Endless Rain [Vlakorados]
Gli anni Ottanta furono un periodo molto oscuro per il metal: non tanto per la musica, quanto per il look alquanto appariscente degli svariati gruppi glam metal. Pur non facendo parte di quel movimento — ed essendo anzi progenitori di un altro, il visual kei — gli X-Japan di quei tempi vantavano acconciature indescrivibili e un’estetica a dir poco sgargiante e sul finire di quel decennio pubblicavano il loro Blue Blood. All’interno dell’album era contenuto uno dei brani che sarebbe poi diventato tra i più famosi della band nipponica: “Endless Rain”, classica ballata romanticona in cui i protagonisti sono il pianoforte strappalacrime di Yoshiki e la voce pregna di emozione di Toshi, nel cui testo si intrecciano giapponese e inglese, nonostante la discutibile pronuncia del secondo. L’assolo di chitarra in questo caso non è solo un elemento fondamentale in un pezzo di questo tipo, ma è anche il modo migliore per ricordare il mai troppo compianto Hide, il cui (presunto?) suicidio nove anni dopo fu un duro colpo per la scena giapponese.