7 album death-doom per (non) sopravvivere alla settimana del blue monday
È davvero necessaria una scusa per cacciare fuori un listone tematico? Probabilmente no, ma far coincidere questo approfondimento — o recupero, a seconda del caso — con il fatidico blue monday converrai anche tu che dà alla lettura un taglio completamente diverso. Eccoci qui, dunque, all’alba della terza settimana del 2023, pronti a viverla un album death-doom alla volta.
Nessuno ci vieta di annichilirci l’anima in primavera o in estate con riff sepolcrali, rantoli demoniaci e melodie malinconiche, ma la presa a male tipica del genere si sposa troppo bene con le atmosfere dei mesi invernali. Come sempre, l’idea non è quella di essere esaustivi, ma di raccogliere e presentare a te che leggi una piccola summa dei dischi che, a parer nostro, meglio rappresentano la doomicità dell’inverno.
Altars Of Grief – This Shameful Burden
(Autoprodotto, 2014)
Quando penso agli Altars Of Grief, non può che scendermi una lacrima — ulteriore, considerato il genere — al pensiero che una band tanto valida abbia una discografia così scarna. Come recita l’adagio popolare, però, meglio pochi titoli ma buoni, e This Shameful Burden è sicuramente una colonna sonora imprescindibile per i primi freddi che ci stanno attanagliando.
This Shameful Burden è il full length d’esordio della band canadese, dedita a quello che viene definito dalla stessa «prairie doom». Ciononostante, questo disco snocciola una serie di idee ben chiare, che non vedono solo il doom quale costola principale da cui prende forma il sound degli Altars Of Grief, ma incorpora anche tutto il gelo e lo smarrimento del black nordamericano.
È solenne quando serve, denso di atmosfere nebulose e dello sconforto a tratti ossessivo che potrebbe verosimilmente cogliere chi si trovasse ad attraversare una prateria avvolta dalla nebbia, dalla quale a ogni passo può sembrare di sentire i sussurri spettrali delle ombre che si muovono indisturbate. In particolare, sono azzeccati gli interventi dei synth che contribuiscono alle ambientazioni sconfortanti di cui sopra e garantiscono trentasei minuti di angoscia pressoché totale. Verdetto finale: impossibile staccarsene.
[V. Rain]
Katatonia – Dead End Kings
(Peaceville Records, 2012)
Da queste parti i Katatonia sono una specie di culto. Li abbiamo seguiti e stalkerati più di una volta. Ai tempi dell’uscita di Dead End Kings, noi eravamo lì, ai Magazzini Generali di Milano, e sempre a Milano, nella giornata in cui Nyström e Renkse incontravano la stampa per presentare il disco, il nostro Bosj ha intervistato Blakkheim per sua gioia da fanciulletto leopardiano. L’idea che questo album, ormai, abbia più che superato il traguardo dei dieci anni è devastante e, anche per questo, dalla immensa e ultra-variegata discografia dei Katatonia il focus è finito proprio qui. Per una volta si poteva dare lustro al mai abbastanza ricordato Tonight’s Music, o si poteva optare per un più morigerato Last Fair Deal Gone Down, da accompagnare con un buon bicchiere di rosso e un piatto di depressione, ma la nostalgia ha avuto nuovamente la meglio.
Probabilmente il punto di svolta definitivo verso il loro attuale sound più vicino al prog rock, Dead End Kings non è certamente l’album più pesante dei Katatonia né quello più estremo. Non ha il piglio violento di The Great Cold Distance né trabocca di malessere come Discouraged Ones, piuttosto ci presenta una sofferenza lucida, come un post-sbornia in cui ti siedi e realizzi la realtà dei fatti nuda e cruda. Armonie di voce che ti toccano nel profondo, arrangiamenti che a distanza di un decennio sono ancora freschi, un’ultima prova di batteria di Daniel Liljekvist — se non consideriamo Dethroned & Uncrowned — ineccepibile, pezzi concatenati (“Ambitions”, “Undo You” e “Lethean”) che ti accompagnano in un viaggio in notturna carico di luci al neon, sintetizzatori e presa a male.
Questo è l’inverno della separazione, quello in cui ti fiderai di chi non si è mai fidato di te. È l’inverno in cui ti renderai conto che la persona che cerchi non è qui e che l’unica cosa che troverai è il tuo cuore che batte all’impazzata. È l’inverno in cui riascolterai i Katatonia e piangerai, com’è giusto che sia.
[Oneiros]
Novembre – Dreams D’Azur
(Peaceville Records, 2002)
Come insegna Loredana Bertè, l’ambiente marittimo ha un suo fascino anche nei mesi più freddi dell’anno. Se la Bertè si è focalizzata maggiormente sull’inverno, non si può ignorare il fatto che il mare abbia un effetto magnetico anche durante i mesi invernali. Sono queste le suggestioni che mi sono venute in mente riascoltando Dreams D’Azur dei Novembre, ovvero la versione registrata ex novo di Wish I Could Dream It Again, del 1994.
Chi segue i Novembre sa già quanto possa essere stratificato il sound della band romana, e Dreams D’Azur non è certo un’eccezione: alcuni brani privilegiano la creazione di atmosfere evocative che sembrano proiettarci su una spiaggia deserta, come ad esempio “Novembre”, l’impetuosa “Sirens In Filth” e “Marea (Pt. 1,2,3)”, mentre altre tracce puntano a dare sfogo agli elementi prog, creando melodie arzigogolate e ipnotiche (“Nottetempo”), oppure struggenti sezioni acustiche (l’intro di“The White Eyed”).
Dreams D’Azur non è un ascolto rapido e indolore — si tratta di un disco dalla durata piuttosto consistente — ma considerata la molteplicità di elementi sonori che i Novembre hanno riversato al suo interno si tratta di un album scorrevole e ipnotico, che sortisce un effetto gradito a chi si affida alla malinconia come modus vivendi: quello di far precipitare nello spleen che solo la vista di una distesa di acqua grigio-azzurra può suscitare.
[V. Rain]
October Tide – Rain Without End
(Vic Records, 1997)
Il buon Jonas Renkse non poteva non spuntare di nuovo fuori, in questa lista. Quando ancora non aveva appeso il growl al chiodo, infatti, lui e il suo ex compare catatonico, Fredrik Norrman (anche negli Uncanny), decidono di sondare ancora più in profondità il mondo del death-doom e, nello stesso periodo in cui i Katatonia si preparano a passare da Breve Murder Day a Discouraged Ones, gli October Tide debuttano con Rain Without End. Prima dello scioglimento repentino del ’99, Norrman dà anche un seguito a questa pietra miliare, con Renkse ancora in formazione e quell’altro sconosciuto di Mårten Hansen (A Canoarous Quintet) a sostituirlo dietro al microfono. Cinque anni di vita e due ottime prove, poi il nulla fino al 2009, quando Norrman riprende a lavorare su quello che da lì a qualche mese sarebbe stato il terzo album degli October Tide, A Thin Shell.
Oggi, a un quarto di secolo di distanza dalla sua uscita o poco più, Rain Without End resta insuperato, nel bene e nel male. Nei suoi quaranta minuti, il debutto degli October Tide rimane monolitico da capo a coda. “12 Days Of Rain” è presagio di violenza e mazzate, promessa mantenuta a dovere già dalla successiva “Ephemeral” e fino alle fine, con dovizia e costanza. Non c’è posto per la speranza e per le gioie qui, come se le premesse sulla nascita del progetto non fossero bastate a chiarirlo: “All Painted Cold”, “Losing Tomorrow”, “Blue Gallery”… ma di che parliamo? Sotto con quello che mi auguro per te sia un ri-ascolto, altrimenti preparati, perché andrà più o meno così: abbasserai la testa, fisserai il vuoto e contemplerai con tristezza l’esistenza. Lacrime, fazzoletti, altre lacrime e, a fine disco, prenderai un profondo respiro e lo farai ripartire. Nella gioia e, soprattutto, nel dolore. Perché, in fondo, se sei qui a leggere di dischi death-doom da goderti in inverno, un po’ te lo cerchi, il dolore.
[Oneiros]
Shores Of Null – Beyond The Shores (On Death And Dying)
(Spikerot Records, 2020)
Su Aristocrazia abbiamo parlato in maniera dettagliata di Beyond The Shores in concomitanza con la sua uscita; ormai due anni or sono, il disco monotraccia degli Shores Of Null si conferma un ascolto obbligato. Beyond The Shores si concentra sulle cinque fasi di elaborazione del lutto teorizzate da Elisabeth Kübler-Ross, qua declinate nella forma di una narrativa che viene esplicitata in maniera magistrale sia dalla struggente esecuzione musicale degli Shores Of Null, sia dal cortometraggio che accompagna il disco.
All’interno di esso, si vedono le vicissitudini di una coppia di esseri umani che si trovano a lottare contro la separazione forzata creata dalla dipartita di uno di loro: una trama certamente devastante, ma che rappresenta in maniera efficace il dolore della perdita con il quale tutti, in vari momenti della vita, siamo chiamati a confrontarci. Beyond The Shores è un album corale, non solo per la presenza di varie voci che si sovrappongono (tra gli ospiti figurano Mikko Kotämaki degli Swallow The Sun ed Elisabetta Marchetti degli Inno), ma soprattutto per il fatto che dà voce a una sorta di lamento universale, condivisibile da chiunque. È un album che parla alla parte viscerale di ognuno di noi, quella che spesso ci fa paura perché comporta il fatto di provare dolore, una delle emozioni che tendiamo maggiormente a rifuggire. Un disco totale sotto tutti i punti di vista, il cui mancato ascolto rischia di cadere nell’illegalità.
[V. Rain]
Tristania – Widow’s Weeds
(Napalm Records, 1998)
Dopo l’annuncio del loro scioglimento, ho passato settimane e settimane a chiedermi come, nel mio piccolo, potessi omaggiare i Tristania. Eccoli qui, dunque, a tenere alto lo stendardo del gotico in una playlist che per sua natura tende all’oscurità. Al netto di qualunque osservazione sull’evoluzione del progetto, i Tristania sono stati pionieristici, spianando la strada al beauty and the beast e a un certo gothic metal che in verità i più oltranzisti relegano a gironi ben inferiori a quello riservato al pop.
Ai tempi di Widow’s Weeds, però, i Tristania sono tutt’altro che bimbiminchia. Le visioni sepolcrali che affollano la mente di Morten Veland tradotte in nove elegie dicembrine, la voce angelica di Vibeke Stene a ricamare sulle melodie taglienti come rasoi, atmosfere grandiose e magniloquenti soppesate con maestria: un insieme che, a distanza di quasi un quarto di secolo, tiene ancora banco perfettamente. Potrai anche non averne apprezzato l’evoluzione futura, ma quanto al loro debutto — e magari anche al suo successore Beyond The Veil — non ti puoi opporre. “Evenfall”, “Pale Enchantress”, “Angellore”, ma anche “My Lost Lenore”, “Midwintertears”, “Wasteland’s Caress” e “December Elegy”, oltre preludio e post-ludio: non c’è un minuto di Widow’s Weeds che valga la pena skippare o scordare. Stacce.
[Oneiros]
Woods Of Ypres – Woods 5: Grey Skies & Electric Light
(Earache Records, 2012)
Per scrivere queste poche, deliranti righe, ho letteralmente riesumato Woods 5: Grey Skies & Electric Light dopo anni dall’ultimo ascolto: come di consueto, si è trattato di un’esperienza totalmente immersiva, che ha fatto scorrere in un batter d’occhio l’ora di durata dell’ultimo album che i Woods Of Ypres, ormai dieci anni fa, hanno consegnato ai posteri.
Quello che mi colpisce ad ogni ascolto è la naturalezza con cui i Woods Of Ypres riescono a mettere insieme un caleidoscopio sonoro in cui coesistono la malinconia meditativa di cui sono maestri insieme ad altri gruppi nordamericani (come gli altrettanto compianti Agalloch) e l’amara ironia esistenziale dei Type O Negative, ben esplicitata da titoli come “Career Suicide (Is Not Real Suicide)” e “Kiss My Ashes (Goodbye)”.
Sì, perché ascoltare Woods 5 equivale un po’ ad aprire la famigerata scatola di cioccolatini a cui Forrest Gump paragona la vita: forse non c’è un effetto sorpresa totale, ma ad ogni cambio traccia non è possibile sapere se ci si troverà davanti a un brano più sostenuto e denso di melodie in grado di incidersi a ripetizione nel cervello, una ballata dove la tastiera riveste il ruolo di protagonista o un macigno sonoro che ci riporta al doom annichilente nel vero senso del termine. Gli anni passano, i Woods Of Ypres ci mancano sempre di più, ma Woods 5 si rivela impassibile di fronte al lento scorrere del tempo: la dimostrazione che l’immortalità non è solo prerogativa di divinità e vampiri, ma anche dei prodotti della mente umana, quando meritano davvero.
[V. Rain]