10 album per scoprire l’heavy metal canadese contemporaneo
Da queste parti abbiamo sempre privilegiato il lato più estremo del sottobosco metallaro, non è un mistero che su Aristocrazia death e black metal l’abbiano sempre fatta da padroni, ma questo non significa che siamo impermeabili a tutto il resto. E quindi, in un’epoca in cui la maggior parte dell’attenzione sembra rivolgersi al death metal, vero e proprio protagonista di una seconda giovinezza ogni giorno più putrida, è decisamente il caso di andare a guardare altrove, e provare a raccontare qualcosa di diverso.
Ho deciso di farmi un bagno di nostalgia e tornare là dove tutto è partito, buttandomi a capofitto nel genere più famoso di tutti, ma che negli ultimi decenni ha faticato a imporsi come qualcosa più di una nicchia per passatisti: l’heavy metal. Chiedendomi come se la passi oggi un genere vecchio di quasi cinquant’anni, al netto dei tour mondiali degli Iron Maiden e della rottura del sodalizio tra Glenn Tipton e KK Downing. Il primo dato interessante è meramente numerico e dice che l’heavy metal, almeno quantitativamente, se la passa benissimo: il sempre preciso Metal Archives parla di 12.191 album heavy pubblicati dal 2012 a oggi. Addentrandomi tra queste migliaia di dischi ho trovato un filo conduttore parecchio resistente e robusto dall’altra parte dell’Atlantico, e se non sono rimasto stupito dalla recente ondata di band heavy a stelle e strisce (Eternal Champion, Visigoth, Haunt, i redivivi Sumerlands e via di questo passo), ammetto di essere colpito da quanto sta succedendo in Canada.
All’ombra degli aceri scarlatti la voglia di metallo classico sembra non essersi mai sopita, e anzi pare aver trovato nuovo vigore proprio negli ultimi anni. Per prendersi una pausa da tutti quei blast beat e tutta quella gente che urla e grugnisce, non c’è nulla di meglio che un bagno di assoloni e voci pulite, magari conditi con ritornelli tutti da cantare e illustrazioni con eroi epici in mutandoni di pelo. Ecco allora dieci album heavy metal canadesi usciti negli ultimi anni che vale la pena di recuperare, e chissà che questa un giorno non venga ricordata come la New Wave Of Canadian Heavy Metal.
Emblem – Emblem
(Autoprodotto, 2017)
Gli Emblem arrivano da Saint John’s, capitale dell’isola di Terranova e più antico insediamento europeo nel continente nordamericano. Un luogo ricco di storia, nonché ultima propaggine orientale del continente, che davanti a sé ha solo l’enormità dell’Atlantico. Non c’è da stupirsi quindi se nel loro primo e per ora unico album i ragazzi decidono di raccontare antiche storie e leggende di tempi lontani, dove il confine tra folklore locale e pura narrativa si fa sempre più sfumato a ogni strofa.
I brani degli Emblem sono lunghi, epici, e si sviluppano attorno a melodie di chitarra sempre ispirate e una batteria in perenne up-tempo, figlia dello speed metal ottantiano. Forse per mantenere quegli umori anni ‘80, forse per mancanza di fondi, l’album è registrato, mixato e masterizzato da “The Sumerian”, chitarrista di un’altra band heavy locale, e il risultato è un bagno di nostalgia dalla prima all’ultima nota.
Cauldron – New Gods
(Dissonance Productions, 2018)
I Cauldron, da Toronto, sono senza dubbio i veterani della lista. Attivi dal 2006, con New Gods (ad oggi ancora la loro ultima fatica) tagliano il traguardo del quinto album in studio, e lo fanno nel migliore dei modi. L’apertura è lasciata alla dichiarazione di intenti “Prisoners Of The Past”, ma a differenza di tutto quanto fatto dal trio in passato stavolta non si pigia mai sull’acceleratore, al contrario ci si prende il tempo necessario, soffermandosi sui dettagli.
Melodia, assoloni e ritornelli con strofe in rima potrebbero arrivare da una classifica hard rock del 1982, ma suonano allo stesso tempo freschi e contemporanei. I suoni puliti e la produzione ariosa e profonda danno ai Cauldron una dimensione perfettamente bilanciata tra passato e presente, mentre le canzoni variano da episodi leggermente più spinti (“Drown”) a veri e propri singoloni sentimentaloni (“Together As None”, che al solo ascolto ti cotona i capelli). Forse una parentesi più compassata, forse un vero e proprio cambio di rotta per la band, New Gods rimane la prova più matura del gruppo dell’Ontario.
Gatekeeper – East Of Sun
(Cruz Del Sur Music, 2018)
Eccolo qua, il guerriero armato di spada di turno che va a salvare il mondo dalle grinfie dello stregone di turno che evoca l’entità maligna di turno dall’alto della rupe di turno. In una parola sola: i Gatekeeper. E poteva il gruppo originario dell’Alberta equipaggiare il proprio eroe con qualcosa di diverso dalla Blade Of Cimmeria? E via a menare fendenti contro chiunque abbia la sventura di trovarsi sulla sua strada.
Nel loro approccio intransigente alla materia originale, l’heavy ottantiano, i Gatekeeper fanno incetta di riffoni e non nascondono nemmeno per un secondo di ispirarsi ampiamente a Eternal Champion e Atlantean Kodex, infilando qua e là rallentamenti e brani corposi, che arrivano a superare gli otto minuti di durata. Va detto che i ragazzi, oggi spostatisi a Vancouver, si presentano meglio quando schiacciano a tavoletta e caricano a tutta velocità più che nei downtempo, ma al netto di questa asimmetria piuttosto evidente East Of Sun rimane un debutto più che valido, di cui sarebbe bello conoscere il seguito prima o poi. Forse per instabilità interne, forse per affilare meglio le lame, negli ultimi anni i Gatekeeper hanno pubblicato soltanto l’EP Grey Maiden che, per quanto buono, non dà le risposte necessarie a capire se il gruppo possa fare il definitivo salto di qualità.
Riot City – Burn The Night
(No Remorse Records, 2019)
Quando cerchi ogni scusa per poter cacciare un urlo in falsetto, quando la velocità è l’unica opzione, quando chiodo, bandana e occhiali da sole li usi anche come pigiama, allora sei pronto per i Riot City. L’aquila bionica di Burn The Night (che fa il paio con il giaguaro altrettanto bionico del recentissimo Electric Elite) è un classico moderno obbligatorio per tutti gli amanti delle chitarrone e della sobrietà mancata.
Uscito nel 2019 un po’ a sorpresa dopo che il gruppo aveva sparso qualche canzone qua e là tra demo e split negli anni precedenti, il debutto dei Riot City è una collezione di hit micidiali dall’inizio alla fine. Non rallenta mai, non perde mai un colpo, e appena finisce hai voglia di farlo ripartire da capo e ricominciare a cantare dall’inizio alla fine. L’onestà di Burn The Night è a tratti imbarazzante: come faccia una band di ragazzi che negli anni ‘80 non erano praticamente neanche nati a padroneggiare la materia in modo così competente, genuino e divertente dovrebbe essere materia di studio da una parte e ragione per appendere le chitarre al chiodo per tanti dall’altra. Da Calgary, trentacinque minuti di adrenalina pura.
Traveler – Traveler
(Gates Of Hell Records, 2019)
Di nuovo a Calgary, di nuovo un debutto, di nuovo nel 2019. I Traveler hanno moltissimi punti di contatto con i Riot City, incluso un batterista, e se non fosse che i Riot City sono così esagerati e sopra le righe da essere irraggiungibili direi che i due gruppi potrebbero quasi essere interscambiabili. Questo non significa che i Traveler non abbiano personalità, anzi il quartetto ne ha da vendere e lo dimostra in ogni singolo brano.
Dalla cosmica opener “Starbreaker” alla successiva “Street Machine”, con un basso in primissimo piano e un gusto fortemente maideniano fatto di accelerazioni e rallentamenti, i Traveler inanellano otto canzoni che non possono lasciare indifferenti. Dove non sono i Maiden a farla da padroni, sono i Manilla Road o i Judas Priest, ma quale che sia il nume tutelare che i ragazzi prendono a paragone non c’è rischio che il quintetto esca dal seminato, ed è uno dei rari casi in cui si tratta di un’affermazione solo e soltanto positiva. Forti di un ottimo gusto nella scrittura e di un’altrettanto valida capacità immaginifica, i Traveler portano tutti a spasso con nonchalance tra le stelle o in mezzo alle puttane (“Speed Queen”), non fa differenza, l’importante è infilare l’assolo giusto.
Smoulder – Times Of Obscene Evil And Wild Daring
(Cruz Del Sur Music, 2019)
Del debutto degli Smoulder parlammo già a tempo debito, ormai quasi tre anni fa, perché è un album semplicemente troppo giusto per non piacere. In ordine sparso, Times Of Obscene Evil And Wild Daring ha un titolo tratto da un racconto di Michael Moorcock (il creatore dell’Eternal Champion e con tutta probabilità del concetto stesso di multiverso), una copertina di Michael Whelan (sue le opere di Chaos A.D., Beneath The Remains, Roots, Cause Of Death e mezza discografia dei Cirith Ungol, tra gli altri) e un sound preso a piene mani dai Pagan Altar e da tutto quel filone heavy-epic-doom cappa e spada, ma con una produzione al passo coi tempi.
Il songwriting rende in modo perfetto sia quando gli Smoulder puntano sulla velocità, che quando rallentano per lasciare spazio alla vena più epica e doomy, e Times… scivola via che è un piacere ascolto dopo ascolto. La voce femminile si sposa poi perfettamente con il concept all’interno del concept, cioè la scelta di raccontare non gli eroi, ma le eroine: la regina Ilian di Garathorm, Dark Agnes, Jirel di Joiry e via di questo passo. Perché non di soli Conan è fatto l’heavy metal. Nel 2022 il chitarrista Shawn Vincent e la cantante Sarah Ann Kitteringham si sono trasferiti in Finlandia, annunciando una nuova formazione dal vivo per calcare i palchi del Vecchio Continente. Chissà mai che prima o poi si riesca a vederli anche in Italia.
Allagash – Cryptic Visions
(Autoprodotto, 2019)
Gli Allagash, da Saint John’s, sono il gruppo di cui Trevor “The Sumerian” Leonard, il produttore del debutto degli Emblem, è il chitarrista. Ad appena due anni dal lavoro svolto su Emblem, il produttore e musicista spariglia completamente le carte in tavola, e il secondo album degli Allagash suona ottimo e rifinito in ogni suo aspetto. Dopo un debutto omonimo decisamente più thrash e acerbo nel 2016, la band cambia marcia, sterza pesantemente verso un sound più heavy e melodico, e mette a referto un lavoro davvero ottimo.
Il nome Allagash deriva dalla cittadina del Maine dove, nel 1976, quattro campeggiatori vennero (forse) rapiti dagli alieni, e la narrazione del quintetto si fa forte di questo e altri racconti legati ad avvistamenti di UFO, rapimenti e incontri ravvicinati del terzo tipo. Cryptic Visions è fatto di cavalcate e assoli, up-tempo e momenti più epici e ariosi, tutti scritti, suonati e registrati con grande perizia, e la formazione di Terranova si impone come uno dei nomi più interessanti del panorama canadese, che per qualche strana ragione (o forse per scelta) non è ancora accasato con nessuna etichetta. Sempre che siano davvero canadesi e non di Alfa Centauri.
Spell – Opulent Decay
(Bad Omen Records, 2020)
Torno all’estremo occidentale del Paese: gli Spell sono di Vancouver, sono in giro dal 2013 (anzi, dal 2007, prima si chiamavano Stryker) e Opulent Decay è il loro terzo album. Stavolta siamo alle prese con un heavy d’antan, più settantiano che ottantiano, pieno di riverberi, con un’attenzione particolare per le atmosfere prima che per la velocità, e perché no con un debole per le virate psych. Chitarroni, voci suadenti e tempi medi fanno di Opulent Decay una piacevole variazione dall’epica e dalla velocità del grosso degli altri partecipanti di questa lista.
Gli Spell hanno più di un punto di contatto con i Cauldron di New Gods: riescono a incastrare con grande naturalezza influenze molto diverse tra loro e a rendere organici brani che partono come leggerezze psych, si trasformano in riffoni doom, poi tornano sui loro passi e si scoprono assoli heavy, il tutto sbandando qua e là tra bassi ciccioni, voci acute e una produzione decisamente nostalgica. Per scrivere Opulent Decay gli Spell hanno dichiaratamente sfruttato suggestioni romantiche di Keats, Shelley e Coleridge, cercando di dipingere il contrasto tra opulenza e austerità, e il declino che deriva dalla mancanza di equilibrio tra questi due estremi. Ulteriore chicca colta, L’Oeil Du Silence di Max Ernst in copertina, uno dei pittori più importanti del surrealismo.
Ültra Raptör – Tyrants
(Fighter Records, 2021)
Chiusa la parentesi colta con gli Spell, torniamo a parlare di cose serie: dopo i barbari (e le barbare) coi mutandoni di pelle, gli animali bionici che sparano raggi laser dagli occhi e i rapimenti alieni potevano forse mancare… i dinosauri? Ecco, gli Ültra Raptör, da Québec City e rigorosamente con la dieresi dove possibile, intervengono a gamba tesa per sopperire a questa grave lacuna, ma non solo, perché il loro t-rex lo piazzano su una piramide circondata da donne primitive dai seni enormi e nudi con fisico da modelle di Victoria’s Secret, durante una tempesta, mentre un’astronave sfreccia in mezzo a tutto ‘sto casino.
Titoli come “Missile”, “Cybörg-Rex” (mi raccomando, la dieresi) o “Nightslasher” sono piuttosto esplicativi di quanto gli Ültra Raptör si prendano sul serio, eppure anche in questa sintesi di pacchianità che è Tyrants c’è spazio per qualche pippone da boomer contro i social network e la tecnologia che ci rende scemi (“Take Me Back”) o per celebrare l’audiofilia e il vero heavy sound da vinile, contro le produzioni moderne e plasticose (“The Quest For Relics”). Questi cinque alfieri del cattivo gusto, che peraltro hanno tutti progetti paralleli seri (o quantomeno più seri di una band che parla di cyborg-dinosauri e missili heavy metal), fanno talmente ridere che non si può non volergli bene, tanto più alla luce del fatto che Tyrants è — senza se e senza ma — un album divertentissimo.
Starlight Ritual – Sealed In Starlight
(Temple Of Mystery Records, 2021)
Da quando si sono formati nel 2014 a Montréal, gli Starlight Ritual hanno pubblicato un paio di EP, ma solo nel 2021 hanno trovato la quadra per far uscire il proprio debutto. Sealed In Starlight, edito dalla piccola ma dedicatissima (e canadesissima) Temple Of Mystery, è la prova che J-F “Athros” Bertrand, cantante, tastierista e chitarrista dei Forteresse, sa fare delle ottime cose anche quando non urla come un indemoniato, e anzi ha grande sensibilità anche per i suoni più classici e meno cattivi.
Ad accompagnarlo in questa avventura altri quattro compagni, di cui tre sconosciuti e uno, il cantante Damian Ritual, noto ai cultori per essere l’ugola del progetto internazionale Spiral Wheel, al cui interno militano (tra gli altri) membri ed ex di Abigail e Sabbat. Insomma, Sealed In Starlight è confezionato da mani sapienti e infatti convince sotto tutti i punti di vista, un album di mestiere, che non scade mai nell’eccesso, anzi ribadisce che l’heavy metal può benissimo raccontare di tormenti interiori, dolori, rivalse e desideri, senza bisogno di buttarla in caciara. Gli Starlight Ritual prendono la materia molto sul serio, ed è facilissimo lasciarsi trascinare dalla voce ruvida di Damian Ritual tra le stelle.