Alla scoperta di Glasgow in 10 album
Per una serie di ragioni ci sono luoghi nel mondo che stimolano la creatività più di altri. Alcune di queste ragioni sono spiegabili, altre meno, ma tendenzialmente si tratta di grandi città, magari con una storia millenaria e — perché no — il vizio del colonialismo, magari di formazione più recente tuttavia con una fortissima tradizione migratoria. L’importante è che le condizioni di partenza portino molte persone con storie molto diverse a incontrarsi e condividere le proprie esperienze e le proprie idee. In questo senso, in Europa Londra non è seconda a nessuno, ma anche Berlino, Parigi e altre capitali sono da sempre delle piazze molto importanti per la musica, soprattutto quella che parte dal basso, che non si basa sui sistemi dello showbiz, ma sulla cara vecchia gavetta.
Poi, ogni tanto, capita anche che aree più periferiche, fino a un certo momento rimaste sottotraccia, si rivelino delle più o meno insospettabili fucine di talenti. Ad esempio una città che nel corso del ventesimo secolo ha subito delle fortissime ingegnerizzazioni sociali per ricollocare una popolazione in ascesa troppo rapida e che ha vissuto una forte emigrazione, che negli anni ‘30 del Novecento aveva quasi un milione e mezzo di residenti e novant’anni dopo arriva più o meno alla metà. Una città che da sempre fa dell’economia e del commercio il proprio cavallo di battaglia, eppure che riesce ad avere una rilevanza notevole anche in campo artistico. Ecco, nel caso di Glasgow le ragioni per una produzione musicale e artistica così imponente, francamente, non saprei proprio dove andarle a cercare. Quello che è certo è che, soprattutto negli ultimi anni, la capitale economica della Scozia viene nominata sempre più frequentemente.
I suoi quartieri e i suoi comuni periferici hanno dato i natali a Mark Millar, Grant Morrison e Frank Quitely, tre leggende dell’industria fumettistica (e parzialmente cinematografica, ormai) contemporanea. Tra le sue vie Ken Loach ha girato uno dei suoi film più iconici, My Name Is Joe, mentre Jonathan Glazer ha diretto una Scarlett Johansson aliena e cacciatrice di uomini in Under The Skin. Per quanto riguarda il mondo musicale, il contributo della città è decisamente fuori scala: i fratelli Knopfler, Midge Ure, Angus e Malcolm Young sono tutti originari di Glasgow, anche se poi Dire Straits, Visage e AC/DC si sono formati altrove. E poi Primal Scream, Mogwai, Simple Minds, Texas, Franz Ferdinand, CHVRCHES, Sophie, la lista di artisti che arrivano dalle sponde del fiume Clyde comprende rockstar internazionali, artisti di avanguardia e tutto ciò che sta nel mezzo.
Eppure nessuno ha mai approfondito il lato più estremo di Glasgow, nonostante solo nell’ultimo anno siano usciti diversi album di altrettanti artisti che vale la pena ascoltare, tutti provenienti dalla stessa città. Da cui l’idea per questo listone, che include dieci album di altrettanti gruppi, con qualche divagazione e qualche aneddoto per ciascuno di essi, se ne conosco; non soltanto una breve descrizione dell’opera, quindi, ma una presentazione un po’ più ampia di ciascuno dei progetti. L’articolo è più o meno ordinato con la sfera black metal prima e quella death metal dopo, in ordine cronologico secondo la pubblicazione dei vari dischi, ma non offre nessuna coordinata stilistica precisa. Questa volta l’unico aspetto preso in considerazione è quello dell’origine geografica delle band trattate, anche se ovviamente in diversi casi le vicende dei diversi artisti a un certo punto si intersecano, sovrappongono o separano. D’altronde, sono tutti vicini di casa.
Falloch – Where Distant Spirits Remain
(2011, Candlelight Records)
Per buona parte dell’attuale scena estrema di Glasgow, quella più legata al black metal, il debutto dei Falloch è una pietra angolare. Where Distant Spirits Remain è infatti l’album che mette sulla cartina due musicisti, Scott McLean e Andy Marshall. Il primo è un musicista irrequieto, che oltre alla sua band ha collaborato in lungo e in largo con formazioni di praticamente qualsiasi genere, il secondo invece è un personaggio più ombroso, decisamente più concentrato sulla sua musica che non sulla collaborazione con altri artisti, che arriva da un’esperienza piuttosto sfigata con la sua prima band personale, Askival, sorta di progetto nazionalista scozzese uscito nel 2009 per Darker Than Black e poi ripudiato.
Il connubio tra queste due personalità così diverse dà vita a un album che sa di post-rock, folk, blackgaze e mille altre sfumature, per un insieme ricchissimo di sfaccettature e idee anche molto diverse tra loro. Lungi dall’essere perfetto, il primo lavoro dei Falloch è un inno alla malinconia dove Alcest, Mogwai e melodie celtiche si incontrano e mescolano senza soluzione di continuità. Where Distant Spirits Remain è il prodotto di un momento specifico, uno snodo fondamentale sia per ciò che McLean avrebbe fatto della band dopo la dipartita di Marshall, cioè un’entità liquida e puramente sperimentale, sia per ciò che Marshall avrebbe fatto del proprio percorso artistico. Entrambi i musicisti si sono allontanati tantissimo da queste coordinate, rendendole purtroppo una sorta di album dimenticato.
Saor – Guardians
(2016, Northern Silence Productions)
Archiviata l’esperienza Askival con una certa vergogna, e capito che la dimensione collettiva non fa per lui, Andy Marshall ci riprova con un’altra one man band, Àrsaidh, con cui nel 2013 pubblica il debutto Roots, di nuovo per Darker Than Black. È solo dopo qualche mese che il glasvegiano trova definitivamente la pace troncando i rapporti con l’etichetta NSBM, cambiando nuovamente nome e trovando casa su Northern Silence come Saor. Sull’etichetta tedesca Saor rimane per tre dischi: la rapidissima ristampa di Roots, Aura (2014) e Guardians, l’album che lo ha imposto come una delle realtà più interessanti del panorama folk-black moderno. Marshall ha sempre scritto brani lunghi, e in Guardians arriva a metterne insieme cinque di cui nessuno sotto i dieci minuti e mezzo di durata, eppure di una scorrevolezza e un’ispirazione davvero rare. Cornamuse, bodhráin, violini e strumenti a corda folkloristici fanno parte del repertorio di Saor da sempre, ma in Guardians le parti affidate ai musicisti ospiti trovano una compiutezza e una forza nuove, dipingendo le Highlands di colori accesi e vividissimi, dando profondità e spessore alla musica. Finalmente il folk metal non è solo chitarra su cui vengono appiccicate parti folkloristiche caciarone in modo posticcio, ma un vero e proprio modo di unire il black metal e la musica tradizionale. In una carriera ormai decennale fatta di cinque validi album e nessun passo falso (senza contare i due più che validi lavori a nome Fuath), Guardians svetta come il lavoro di Saor più significativo in assoluto.
Ashenspire – Speak Not Of The Laudanum Quandary
(2017, Code666 Records)
Degli Ashenspire si parla tantissimo nel 2022 grazie all’ottimo Hostile Architecture, ma vale la pena di spendere due parole anche sul debutto Speak Not Of The Laudanum Quandary, un album altrettanto ideologico e ben fatto, per quanto parecchio più dispersivo. Il gruppo fa principalmente capo al batterista, cantante e compositore cardine Alasdair Dunn, ma tra i vari collaboratori (oggi si tratta di una sorta di collettivo, con ben nove artisti partecipanti con vari ruoli e strumenti) c’è proprio Scott McLean dei Falloch. Esattamente come Hostile Architecture, Speak Not… è un inno anti-capitalista volto a raccontare le fallacie e i disastri del modello occidentale. Lo spunto principale arriva in questo caso dalle guerre dell’oppio, conflitti ottocenteschi tra gli imperi britannico e cinese: il primo voleva mantenere aperto il canale di distribuzione dell’oppio, coltivato in India e venduto appunto in Cina, perché molto profittevole, mentre il secondo non vedeva di buon occhio il potere commerciale britannico, oltre alla crescente tossicodipendenza della popolazione, e tentò di limitare il commercio di stupefacenti. Gli Ashenspire vogliono far riflettere sulle contraddizioni e le problematiche di un modello insostenibile, di una società al collasso, e lo fanno riprendendo l’approccio di Dødheimsgard, Solefald e A Forest Of Stars, con l’utilizzo dello sprachensang (tecnica di canto molto più utilizzata nel neofolk che nel metal estremo) e di strumenti non canonici innestati su una struttura black metal di avanguardia. Il violino, soprattutto, dà a Speak Not… un’espressività decadente e molto vittoriana, e la voce di Dunn soffre su ogni dichiarazione di sconfitta subita dal popolo. Un album importante tanto quanto il suo successore.
Ruadh – The Rock Of The Clyde
(2021, Northern Silence Productions)
Il progetto principale di Tom Perrett, a lungo one man band e dal 2022 gruppo in piena regola, è un vero e proprio figlioccio del più celebre Saor. Con la band di Andy Marshall, Ruadh condivide non soltanto genere e riferimenti stilistici, ma anche l’etichetta, e infatti tutti e tre i lavori in studio di Perrett sono stati pubblicati da Northern Silence, che all’epoca contribuì alla diffusione proprio di Roots e dei due album successivi di Andy Marshall. Nessun sottotesto politico o sociale per Ruadh, che si concentra invece sul raccontare la Scozia, e in particolare la Rutherglen (la Valle Rossa, oggi periferia sudorientale di Glasgow), al tempo dei latini. Un viaggio nell’età del ferro lungo il fiume Clyde, e in particolare nella rocca che ne adombra le sponde e che da millenni veglia sulla valle. The Rock Of The Clyde è una bellissima escursione per gli amanti del black metal atmosferico e melodico, che non lesina sulle cornamuse e sui fiati, con qualche voce femminile che spunta qua e là. Recentemente, appunto con l’ingresso ufficiale nel gruppo di alcuni collaboratori di più o meno lunga data, Perrett ha dato vita a un nuovo progetto, Aonarach, più cupo e meno folk rispetto a Ruadh, che per il momento continua però a rimanere la sua incarnazione più interessante.
Sgàile – Ideals & Morality
(2021, Avantgarde Music)
Tony Dunn è un multistrumentista che nel corso della sua militanza metallara ha prestato la propria arte, tra gli altri, sia ai Falloch che a Saor sotto molteplici vesti, in studio come dal vivo. Poi, nel 2021, la fioritura di un’idea coltivata nei ritagli di tempo per anni: scrivere e suonare musica per qualcun altro non era più sufficiente, e Dunn pubblica Ideals & Morality a nome Sgàile, il suo progetto personale per cui da qualche tempo accumulava materiale. Il debutto di Sgàile è con tutta probabilità il lavoro meno cattivo di quelli scelti per questo articolo, eppure i richiami agli altri artisti con cui Dunn ha condiviso esperienze passate sono piuttosto forti lungo tutta la durata di Ideals & Morality. C’è un po’ del post-rock dei Falloch, un po’ della matrice folk di Saor, ma anche e soprattutto tanto buon gusto. Le melodie di Sgàile sono sempre orecchiabili, sia che siano supportate da un robusto blast beat che nei momenti più trasognati, mentre Dunn canta (sempre rigorosamente con voce pulita) dei suoi drammi personali e della sua terra. Sgàile, spettro in gaelico, è un ragazzo che non riusciva a sentirsi pienamente parte della scena black metal che frequentava, perché evidentemente con argomenti differenti da offrire, e questa distanza dagli abissi più oscuri della musica ne ha fatto un outsider dell’ambiente glasvegiano. Ideals & Morality è uno degli album metal, post- e in generale alternativi più sottovalutati del 2021.
Tyrannus – Unslayable
(2022, True Cult Records)
«”Unslayable” è un album che prende le nostre influenze più eclettiche e le deforma in una storia dai temi esistenziali, lovecraftiani e antifascisti». L’introduzione del comunicato stampa dei Tyrannus lascia poco spazio ai dubbi, e il progetto capitanato dal cantante e chitarrista Callum John Cant, guarda un po’, tra le proprie fila conta tra gli altri anche Alasdair Dunn degli Ashenspire e Scott McLean dei Falloch come tastierista e soprattutto produttore. I Tyrannus fanno parlare di sé da qualche tempo, e tra il 2019 e il 2022 hanno rilasciato una serie di EP, demo e singoli che balzano all’occhio grazie alle copertine in due colori, nero e rosa shocking. Unslayable è una forma riveduta e corretta di tutto quel materiale, tanto esteticamente quanto musicalmente, ed è un insieme di death metal anni ‘80 e black-thrash scarnissimo e freddo come gli abissi davanti a Innsmouth. L’aspetto che colpisce di più del lavoro dei Tyrannus è ovviamente la lettura politica dell’orrore cosmico di Lovecraft, che qui viene visto in analogia ai totalitarismi e alle politiche oppressive nei confronti delle persone comuni e meno abbienti. L’album, appunto un concept che si sviluppa organicamente dall’inizio alla fine, parte da una condizione di svantaggio del protagonista «condannato a faticare per soddisfare la fame dei giganti» (“A Worse Reality”), e lo segue lungo il percorso di sfida e rivalsa nei confronti dell’entità mostruosa che «distrugge i pianeti e gioca a fare Dio» (“Break The Will Of Evil”). Non proprio una metafora sottile, come non sottile è la musica del gruppo, anche in questo caso di forma molto liquida tra musicisti principali e ospiti. Un altro ascolto molto interessante e per certi versi necessario di un cupo 2022.
Man Must Die – No Tolerance For Imperfection
(2009, Relapse Records)
È verosimile dire che i Man Must Die sono la prima band estrema di Glasgow ad avere una vera “carriera”: non la prima a formarsi sicuramente, ma la prima che inizia a pubblicare album in studio su base regolare, e anche ad avere una certa distribuzione ed esposizione. Dopo un paio di uscite nei primi anni ‘00, Relapse si interessa ai glasvegiani pubblicando The Human Condition (2007) e due anni più tardi No Tolerance For Imperfection, ad oggi il punto più alto raggiunto dagli scozzesi. I Man Must Die suonano un death metal piuttosto tecnico, che potrebbe essere una versione più coatta e groovy degli ultimi Anata o dei primi Decapitated, che compensa la mancanza di classe con un coefficiente zarro molto più alto. Insomma, una delle classiche formule Relapse di fine anni zero, che cerca di sopperire alla perdita dei Necrophagist con i Leng Tch’e. No Tolerance For Imperfection è un disco particolare, perché riesce a essere un album death dal buon tasso tecnico che allo stesso tempo suona tagliato giù con la falce da un contadino bergamasco. Forse non il migliore dei biglietti da visita, ma il risultato è quantomeno affascinante, per quanto i momenti più groovy e la produzione moderna possano risultare indigesti. Con il successivo Peace Was Never An Option (2013) i Man Must Die passano a Lifeforce e virano in modo sensibile verso il metalcore, per poi sparire nel nulla. Nei successivi dieci anni soltanto un EP e un singolo, nemmeno particolarmente interessanti. Chissà.
Cerebral Bore – Maniacal Miscreation
(2010, Autoprodotto)
L’unico album dei Cerebral Bore è un lavoro interessante, soprattutto per memoria storica. Sicuramente Maniacal Miscreation è un tassello fondamentale per la scena estrema di Glasgow fin dalla copertina — proprio una veduta della città in un contesto post-apocalittico con quella palata di grafica digitale posticcia che fa tanto anni duemila — ma il percorso dei Cerebral Bore è stato aiutato da una serie di fattori esterni alla band, e poi distrutto dall’interno. Formatosi nel 2006, dopo appena un demo di quattro pezzi il gruppo inizia a suonare a più non posso, e al momento della pubblicazione di Maniacal Miscreation ha già calcato parecchi palchi in giro per il Regno Unito, l’Europa e il mondo. Le condizioni economiche e interne alla band però non sono delle migliori, e nei primi anni si avvicendano in formazione cantanti, bassisti e chitarristi a getto continuo. Nel 2010 pare finalmente che in casa Cerebral Bore ci sia un po’ di stabilità, e dieci giorni prima di entrare in studio a registrare viene arruolata la cantante olandese Simone “Som” Pluijmers, poco più che diciannovenne. Maniacal Miscreation viene sostanzialmente pubblicato come autoproduzione, ma pochi mesi dopo bussa alla porta nientemeno che Earache, che propone una ristampa, e il gruppo prende la definitiva rampa di lancio. Il disco è valido e fotografa una band dalle ottime potenzialità alle prese con un buon brutal death, ben scritto e ben suonato, dalla produzione molto compressa, ma in questi anni è così che funziona, e tutto sembra volgere al meglio per i Cerebral Bore. Le instabilità e le sfighe però non si fermano: durante un tour negli States il fondatore Paul McGuire e altri membri vengono arrestati per errore e finiscono davanti a un tribunale americano che poi li scagiona, e quando nel 2012 si tratta di finalizzare i lavori per il nuovo album e di iniziare un nuovo tour Pluijmers lascia la band il giorno prima della partenza. La cantante, che nei due anni di militanza con il gruppo ha acquisito una certa notorietà come una delle frontwoman più promettenti del periodo, dice che non si sente sicura in tour con i suoi compagni di band, McGuire in primis. Da lì in poi tutto si infrange, e nemmeno uno split con i Carcass nel 2014 riesce a rimettere i Cerebral Bore in carreggiata, che a poche settimane di distanza chiudono definitivamente baracca.
Iniquitous Savagery – Subversions Of The Psyche
(2015, Grindethic Records)
Dopo qualche anno di vuoto, dalle rive del Clyde torna ad emergere la violenza più efferata: gli Iniquitous Savagery si formano proprio quando i Cerebral Bore si disgregano, e spingono l’asticella brutal verso orizzonti ancora più complessi e impegnativi. Del quartetto si sa poco: si forma nel 2012, demo ed EP di riscaldamento a seguire per poi approdare nel 2015 a Subversions Of The Psyche, un misto tra Suffocation e cose da Willowtip Records, etichetta su cui i ragazzi infatti approdano qualche anno dopo. Il debutto degli Iniquitous Savagery convince senza riserve, e oltre a divertire offre un songwriting tutt’altro che banale, che riesce sempre a farsi apprezzare e qualche volta addirittura fornire un appiglio anche ai meno avvezzi al brutallo della morte. Tra un riff cadenzato e una growlata più da bestia che da uomo i ragazzi mettono in mostra un’ottima varietà e tanta voglia di fare, così tanta da finire addirittura sul Guardian insieme agli Iron Maiden, ma la pubblicazione su Grindethic (all’epoca etichetta anche dei Defeated Sanity) penalizza un po’ la diffusione dell’album, e anche per gli Iniquitous Savagery seguono cinque lunghi anni di vuoto. Nel 2020 la band festeggia l’accordo con Willowtip con la pubblicazione di un ottimo nuovo singolo, ma da allora ancora tutto tace.
Scordatura – Mass Failure
(2020, Gore House Productions)
Gli Scordatura sono una realtà glasvegiana non più di primo pelo, per quanto composta da musicisti ancora relativamente giovani. I ragazzi pubblicano il primo demo intorno al 2008, poco più che adolescenti, come la miglior tradizione estrema insegna, e da lì iniziano una scalata sempre più soddisfacente verso le vette del death metal. Dopo un debutto abbastanza acerbo (Torment Of The Weak, 2013) e un secondo album più centrato (Self-Created Abyss, 2017), la maturità arriva nel 2020 con Mass Failure, che pur senza reinventare la ruota mette in mostra una band convinta delle proprie idee e consapevole del proprio potenziale. Gli Scordatura sguazzano nel limbo tra i Cannibal Corpse degli anni duemila e suoni vagamente più moderni, quella roba à la Dying Fetus più recenti: complicata, ma anche groovy e soprattutto estremamente brutale. Ad arricchire il lavoro del quartetto, qualche dissonanza calata negli interstizi senza dare troppo nell’occhio e un songwriting ormai esperto e senza sbavature: i ragazzi passano da momenti più cadenzati a strutture arzigogolate senza soluzione di continuità e con grande naturalezza. Non è un caso che la nostra Everlasting Spew si sia accorta di tutto questo, e che gli Scordatura abbiano in programma un prossimo album per l’etichetta bresciana.
Dopo aver provato a mettere ordine tra i vicoli della città con questa mappa musicale, a prima vista il sottobosco di Glasgow sembra infinitamente più coeso e strutturato nella sua parte black metal: tutti si conoscono, quasi tutti hanno suonato insieme e buona parte ha anche degli ideali di un certo tipo. Scavando un po’ più in profondità però emergono dei nomi e delle comunanze anche per la apparentemente più sparpagliata controparte death metal, soprattutto in tempi recentissimi. Nelle vie più fetide della città stanno infatti nascendo un sacco di piccoli progetti da tenere d’occhio, gruppi che non hanno ancora tagliato il traguardo del primo album in studio, ma che potrebbero farlo da un momento all’altro, e vale la pena di citarne qualcuno.
I Gendo Ikari, nome mutuato da uno dei più iconici e criptici personaggi di Neon Genesis Evangelion, dal 2016 macinano un grindcore moderno e incazzatissimo, che come il genere vuole per ora si è espresso soltanto attraverso un nugolo di split, EP e demo da pochi minuti. Astenersi chi cerca “canzoni” che durino più di 120 secondi. Purtroppo i ragazzi fanno fatica a concentrarsi sui lavori per un album perché, a detta loro, sono molto pigri, ma anche perché hanno anche altri quattrocentoventisette progetti cui badare. E a proposito di sliding doors, l’ex bassista è oggi il bassista degli Iniquitous Savagery, mentre l’attuale bassista è anche voce e chitarra dei Civil Elegies, band post-metal / noise rock decisamente interessante.
Nel giro di amici del metallo della morte ci sono anche i Coffin Mulch (con cui il batterista dei Gendo ha suonato dal vivo in diverse occasioni), quartetto che si fa notare nel 2021 grazie all’EP Septic Funeral, sei canzoni che sanno di cimitero stampate in vinile dalla microetichetta del cantante Alastair Mabon, At War With False Noise, in CD da Redefining Darkness e in cassetta dalla sempreverde Caligari. Quello dei Coffin Mulch è un death parecchio distante da quello solitamente prodotto a Glasgow, che puzza di vecchio e ha un piede in Svezia nel 1989, l’altro nel putridume di Autopsy-ana memoria e la terza gamba che ciondola a ritmo death’n’roll.
Gli Autopsy sembrano poi essere entrati a gamba tesa negli ascolti di Glasgow, perché da un retaggio brutal negli anni zero la città pare si stia spostando su coordinate sempre più classiche. Recentissimi sono i Rancid Cadaver, formatisi nel 2021 e con all’attivo un solo EP, Flesh Monstrosity, uscito in pieno 2022. Il gruppo si forma dalle ceneri di un’altra formazione death metal, i Bhàs, che a sua volta non era andata oltre un EP, e per ora fa intravedere schifo e putrefazione, ma per ora è difficile per poter dire di più. Così come è presto per tirare delle somme sui BrainBath, anche loro esordienti nel 2022 con un EP omonimo, anche loro felici proseliti dei funerali mentali Chris Reifert ed Eric Cutler.
Ovviamente nel sottobosco della città vive anche tanto altro: gruppi stoner, doom e thrash che non ho (ancora) incrociato sul mio cammino, ma già dalla sfilza di band qui sopra esce un’istantanea di Glasgow decisamente interessante. Una città in fermento, in cui molte idee, quando non proprio ideologie, vengono condivise a più livelli e da più artisti anche molto distanti tra loro. I risultati forse non sono sempre perfetti, ma il più delle volte meritano almeno un ascolto attento e, perché no, una riflessione.
Un grazie a Gerald e ai Gendo Ikari per l’aiuto nella ricerca dei gruppi più nascosti.