I LISTONI DEL DECENNIO #3 – DOOM METAL
Sembra ieri che si chiudeva il primo decennio di questo nuovo, scalcagnato millennio. E invece sono passati altri dieci anni, e da buona webzine siamo già qui a tirare le somme di cosa gli anni Dieci ci abbiano dato e cosa ci abbiano tolto in ambito musicale. Anzi, siccome da queste parti ci diamo delle arie, abbiamo deciso che tiriamo le somme solo di cosa ci porteremo dietro di questo decennio, e ce ne infischiamo delle cose brutte e di quelle che ci sono state portate via, tipo i Motörhead, perché ci farebbe troppo male.
Questo articolo è quindi parte di una serie di listoni da dieci dischi ciascuno che vogliono essere un vademecum di questi anni, pensati per quando saremo estinti e gli alieni finalmente atterreranno sulla Terra e dovranno cercare di capire chi eravamo. O più semplicemente, per chiunque volesse prendersi la briga di sapere quali sono stati secondo noi gli album migliori e al tempo stesso più importanti usciti tra il 2010 e il 2019. Quella che segue è la musica più bella in cui ci siamo imbattuti nell’arco di dieci anni, senza alcun criterio preciso al di là del nostro gusto personale. Il che significa che mancherà sicuramente il tuo album preferito, e puoi farcelo notare, ma con delicatezza, perché questi elenchi non hanno alcuna pretesa di essere esaustivi né di insegnare qualcosa a qualcuno. Sono solo la musica del demonio che ci piace di più.
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DOOM METAL
Di tutti questi articoloni di fine decennio, quello dedicato al doom metal è il più classico e il più inaspettato della serie. Gli anni ‘10 hanno visto il riaffermarsi dei suoni di una volta, la riscoperta delle origini, ma da parte di nuove leve; la conferma, casomai ce ne fosse ancora bisogno, di qualche grande veterano è arrivata invece tramite nuove sperimentazioni e ulteriori maturazioni. Tutto al contrario, tutto molto piano, tutto molto sofferto.
TRYPTIKON
Eparistera Daimones
(Century Media Records, 2010)
Ben prima che questo infausto decennio avesse inizio, avevamo avuto il vago sentore che Thomas Gabriel Fischer (Tom G. Warrior, per gli amici) non fosse esattamente un novellino. Il canto del cigno dei Celtic Frost con il monumentale Monotheist aveva aperto un buco nero che il buon Warrior non poteva in alcun modo permettere che si richiudesse. Detto fatto, nel 2010 esce Eparistera Daimones, primogenito dei Triptykon, la nuova band entro cui il caro svizzero ha ricominciato a riversare tutta la sua malattia mentale, tutte le sue visioni apocalittiche e tutta la sua inestinguibile voglia di ridurre in brandelli ogni timpano e ogni cervello che abbia la (s)fortuna di passargli a tiro. E allora via con gli inconfondibili huh!, con quei riff marci che arano e tritano impietosamente qualunque cosa, con gli arpeggi dissonanti, con le soffocanti e pesantissime atmosfere tragiche, con gli onnipresenti e infiniti feedback, con le malsane litanie e con quei downtempo che trasudano pece, morte e oscurità. Impreziosito da un artwork contenente un demoniaco incubo dipinto dal compianto amico H.R. Giger, Eparistera Daimones dimostra ancora una volta il genio contorto e insano di Tom G. Warrior che, Triptykon o meno, riesce sempre a trovare il modo per dilatare un po’ di più quell’abisso che egli stesso ha contribuito ad aprire nelle nostre anime.
ELECTRIC WIZARD
Black Masses
(Rise Above Records, 2010)
Da un grande potere derivano grandi responsabilità, ed essere gli Electric Wizard vuol dire essere preceduti da un’innegabile fama, quantomeno tra gli appassionati del genere. È difficile vivere sotto il peso delle aspettative dei fan, specie quando sei una band che è riuscita a crearsi un sound crudo e acido riconoscibile già da un solo accordo o anche solo da un groove di batteria isolato, accompagnato da una voce cantilenante, ipnotica e strascicata che è diventata un po’ il tuo marchio di fabbrica. Mettiamoci pure che nel 2000 hai fatto uscire una pietra miliare del settore che risponde al nome di Dopethrone, aggiungiamoci un altro disco colossale come Witchcult Today e — perché no — consideriamo pure che nemmeno l’esordio dalle tinte più stoner era minimamente da cestinare (tutt’altro!): ecco qua che continuare a sfornare bella roba diventa sempre più complicato. Il quartetto inglese invece ha sfatato ogni dubbio nel 2010 con Black Masses, un disco che presenta tutti i marchi che contraddistinguono un sound ormai consolidato e che è anche l’ultimo pubblicato per Rise Above Records. Gli Electric Wizard appartengono all’olimpo del doom e difficilmente se ne schioderanno mai; per nostra fortuna, aggiungerei.
ESOTERIC
Paragon Of Dissonance
(Season Of Mist, 2011)
Una cosa da tenere a mente quando si parla di doom è che si tratta di un termine molto generico per definire sfumature di genere anche molto diverse tra loro, riunite tutte sotto l’ombrello della sofferenza eterna. C’è chi poi si avvicina di più allo stoner piacione e chi, come gli Esoteric, si diverte a lanciare senza ritegno badilate in faccia a chiunque si metta all’ascolto. Personalmente associo la band di Greg Chandler e compagni a un intenso e vivido dolore fisico oltre che spirituale, perché la prima volta che li vidi dal vivo fu in un posto minuscolo, ero praticamente a pochi centimetri dall’immensa strumentazione della band inglese e mi ero dimenticata i tappi per le orecchie: uscii dal locale provata, esaltata e molto, molto sorda. Del resto, però, il doom DEVE fare male, e il funeral doom deve letteralmente ricordarti che un piede nella fossa ce l’hai già. Paragon Of Dissonance esce nel 2012 ed è uno dei lavori più grossi degli Esoteric, che a dire il vero non hanno mai dato delusioni; la tecnica e i suoni sono curatissimi e le migliaia di euro di strumentazione di certo non stanno là solo per far fare bella figura. Un’ora e mezza di melodie, oscurità, buchi neri e disperazione, tutto quello che vogliamo portarci dietro nel decennio a venire. Col tempo il sound degli Esoteric ha finito per scurirsi e i ritmi per rallentare ulteriormente, ma Paragon Of Dissonance resta il manifesto di una delle formazioni funeral doom più colossali di sempre.
PALLBEARER
Sorrow And Extinction
(Profound Lore Records, 2012)
Decidere di chiamarsi Pallbearer significa portare sulle proprie spalle un peso non indifferente: quello della morte e del dolore che essa si trascina dietro. La band americana che risponde a tale appellativo non lo ha scelto per caso, è anzi ben conscia della sofferenza di cui si è fatta ambasciatrice, tanto da debuttare con una delle uscite più angoscianti di questo decennio. Sorrow And Extinction non verrà certo ricordato per originalità o innovazione, ma è piuttosto l’impatto emotivo che questo album riesce ad avere a renderlo un’opera adatta a organizzare il proprio funerale: cinque brani mastodontici fatti del doom metal più classico, dove gli otto minuti di durata sono il minimo sindacale e tutto sembra inneggiare alla disperazione, a partire dalla straziante performance vocale immersa nel riverbero, passando per ritmiche che paiono affannarsi a non sprofondare in una palude di sconforto e arrivando, infine, alle due chitarre che in quella stessa palude ci sguazzano allegramente. Tra sonorità tradizionali e riferimenti settantiani, Sorrow And Extinction è un ottimo tuffo nel passato, imperdibile per chi è cresciuto a pane e Candlemass.
JEX THOTH
Blood Moon Rise
(I Hate, 2013)
Il doom metal dal sapore occulto e rituale ha radici profondissime, che affondano nelle origini stesse del genere tra tardi anni ‘60 e primi ‘70, ispirandosi per motivi diversi a nomi come Coven e Black Sabbath, fino ad arrivare a Pagan Altar e simili. Tuttavia, in questo contesto, il paganesimo inteso come sistema iconografico e filosofico (e non banalmente come un pretesto), in particolare per quanto riguarda il posto degli esseri umani nel circolo dell’esistenza, ha faticato a entrare nell’immaginario e nel sound del doom fino almeno a tutti gli anni ‘90. Quella di Jex Thoth è stata per molti versi una rivoluzione, che con il debutto eponimo del 2008 ha raccolto il testimone da quei nomi e dalla seconda fase degli Electric Wizard, per aprire una nuova finestra nel mondo del doom. Blood Moon Rise è la consacrazione di un sound e di un sistema concettuale che — soprattutto grazie a pioniere come Jex Thoth — è finalmente riuscito a ritagliarsi lo spazio meritato ed è stato anzi una delle fonti di ispirazione più floride per l’intero genere nell’arco dell’ultimo decennio.
YOB
Clearing The Path To Ascend
(Neurot Recordings, 2014)
A dirla tutta, gli YOB si erano già ritagliati un notevole spazio in ambito doom nell’arco della loro lunga carriera, ulteriormente rinsaldato con l’uscita del sontuoso Atma nel 2011. Eppure, con Clearing The Path To Ascend, (uscito per la storica Neurot Recordings) il progetto di Mike Scheidt ha compiuto un altro salto di qualità, per l’appunto ascendendo verso la cerchia delle band che hanno segnato indelebilmente l’universo del genere. Quattro brani, un’ora totale, un compendio di quello che il doom è, dovrebbe essere, potrebbe essere e quant’altro; il punto di incontro tra le meditazioni mistiche degli OM, la pesantezza delle montagne del nordovest pacifico degli Stati Uniti e le atmosfere di ispirazione Neurosis che fanno capolino a più riprese. Su tutto, la voce sporca di Scheidt che libera la strada, ci indica il percorso per ascendere e smascherare lo spettro, la via per arrivare dove le immagini finiscono e la vita inizia. Con questo album gli YOB cercano di farci provare un momento vero. E direi che ci riescono abbondantemente.
ELDER
Lore
(Armageddon Shop, 2015)
Ci sono gruppi che necessitano di un lungo periodo di pratica prima di sfornare lavori di qualità o di farsi notare sulle scene nazionali e non, e poi ci sono gli Elder. Non c’erano dubbi sul fatto che il quartetto del Massachussets, attivo dal 2006, sarebbe finito in questa nostra personalissima lista di dischi del decennio, l’unica perplessità riguardava la scelta dell’album che lo avrebbe rappresentato: dal 2010 a oggi, infatti, sono stati pubblicati prima Dead Roots Stirring (2011), poi Lore (2015) e infine lo psichedelico Reflections Of A Floating World (2017). Ciascuno dei tre ha tanto da dire attraverso sfumature di suono e scelte stilistiche diverse e più o meno marcate; il qui presente Lore, per esempio, è ricco di influenze di stampo rock a tratti quasi classico e perfino progressive, per un totale di quasi un’ora di riffoni magistrali e viaggioni mentali di un certo livello. La formazione degli Elder è leggermente cambiata con l’ingresso, qualche settimana fa, di Georg Edert dietro le pelli, con relativo annuncio di nuovo tour e nuovo disco. Che il prossimo lavoro sia quello che vedremo nel listone dei dischi del prossimo decennio? Intanto, godiamoci Lore.
SHAPE OF DESPAIR
Monotony Fields
(Season Of Mist, 2015)
Finlandia del sud, inizio del nuovo millennio: durante i primi cinque anni dei Duemila, una piccola compagine di adoratori dell’oscurità attiva dalla seconda metà dei ’90 pubblica i suoi primi tre album. Shades Of…, Angel Of Distress e Illusion’s Play hanno fatto la fortuna degli Shape Of Despair, catapultandoli di prepotenza tra le formazioni di punta del genere, assieme ai connazionali Skepticism, considerati fra i più influenti pionieri del funeral doom e che in quegli anni tiravano fuori il loro annichilente Farmakon. Poi, il silenzio; dieci anni di stasi mortifera, interrotta solamente da un EP e uno split. Finché, a un certo punto, è uscito fuori Monotony Fields, il degno erede di Angel Of Distress. I cambi di formazione che hanno afflitto la band di Helsinki non hanno influito sulla qualità della musica; anzi, si può facilmente dire il contrario. Il quintetto finnico conosce a memoria i campi della monotonia e ci accompagna attraverso i lugubri panorami funerei della vita a passo lento, come fossimo appresso a un corteo funebre; eppure l’incedere con cui si procede è costante, deciso, reso più possente dai riff delle chitarre. Le strutture dei brani così come le linee dei singoli strumenti sono tutt’altro che complesse, eppure nella loro semplicità fanno sì che il tutto risulti all’ascoltatore maledettamente monolitico. Gli arrangiamenti di tastiera uniti alla magnifica voce pulita della Koskinen (che si intreccia alla perfezione con i pochi, memorabili momenti clean del nuovo arrivato Henri Koivula) spiccano come la punta di diamante rilucente in cima a questi settanta minuti di gemma del funeral doom metal, consacrando inequivocabilmente il ritorno in attività degli Shape Of Despair allo status di disco del decennio.
TREES OF ETERNITY
Hour Of The Nightingale
(Svart Records, 2016)
Se siete arrivati alla fine del 2019 senza aver mai sentito parlare dei Trees Of Eternity, da fan del doom, probabilmente avete sprecato gli ultimi tre anni della vostra esistenza, senza mezzi termini. Di solito non sono così netto né tanto spinto nei miei giudizi, ma in questo caso non ci sono alternative, perché il progetto di Juha Raivio e della compianta Aleah è stato il fulmine a ciel sereno più grosso e abbagliante mai generato. La coppia si è conosciuta probabilmente ai tempi della registrazione di New Moon degli Swallow The Sun, in cui la tristemente soave voce di lei accompagnava le note di “Lights On The Lake (Horror Pt. III)”, inaugurando il progetto in quello stesso anno. Dopo la pubblicazione di una demo nel 2013, i due hanno tirato fuori il debutto capolavoro solo nel novembre 2016, una manciata di mesi in seguito alla prematura scomparsa della compagna di vita di Raivio. A tre anni dalla sua uscita, Hour Of The Nightingale è ancora prepotentemente infestante, con le sue melodie emotivamente destabilizzanti e quel carico di dolceamara nostalgia che, purtroppo, si porterà addosso per sempre. La collaborazione dei fratelli Norrman (October Tide ed ex-Katatonia), di Kai Hahto (Nightwish, Wintersun e altri), di Mick Moss degli Antimatter in “Condemned To Silence” e di Nick Holmes (Paradise Lost e Bloodbath) nella conclusiva “Gallows Bird”, così come la produzione egregia targata Fascination Street Studios, non sono che la ciliegina sulla torta per un disco così stupendo da essere entrato automaticamente e a mani bassissime nei cuori di molti membri di questa redazione. Venite, prendete e piangete: fate questo in memoria di Aleah.
BELL WITCH
Mirror Reaper
(Profound Lore Records, 2017)
Un lutto da elaborare, un album di una densità sconcertante, 83 minuti di musica per due sole tracce che sono quanto di più lontano dal concetto di canzone si possa mai trovare. Dylan Desmond deve scendere a patti con la dipartita del suo amico e compagno di band Adrian Guerra, mancato nel 2016 per arresto cardiaco, e lo fa mettendo in musica tutto il dolore e lo sconforto della morte. Il doom qui attraversa senza soluzione di continuità i territori più abissali e sfocia nello slowcore, e per lunghi tratti Mirror Reaper di metal non ha più nulla, fino a quando il basso a sei corde di Desmond non riporta tutto prepotentemente alle origini funeral del progetto. Impreziosito dall’illustrazione di Mariusz Lewandoswski intitolata Essence Of Freedom, il terzo lavoro in studio della band di Seattle ridefinisce completamente i concetti di decostruzione ed estremismo, abbandonando spesso e volentieri la stessa idea di tempo all’interno di questi due monoliti sonori. I Bell Witch sono la dimostrazione di quanto si possa fare male anche senza una chitarra.