Malvagità cibernetica: l'oscuro mondo dell'Industrial Black Metal|

Diabolus Ex Machina: breve storia dell’industrial black metal in 13 album

All’apparenza, l’elettronica e il black metal sono due generi intrinsecamente incompatibili. Per il filantropo dell’Inner Circle, lo stereotipo richiede di essere puristi a oltranza, trve e grim a ogni costo, e in ogni caso di rifiutare qualsiasi orpello di modernità musicale in fase di registrazione e produzione. A tanto zelo (anti)religioso si sono opposti fin dagli anni ’90 alcuni altri aspetti tipici dei blackster: su tutti, la tendenza negli elementi di spicco della corrente a sperimentare al di fuori del branco senza curarsi troppo delle pressioni esterne, ma anche la fascinazione per qualsiasi cosa sia anti-umana o anti-vita — e c’è ben poco di più inumano e privo di vita in musica di una macchina che programmi per suonare.

Conseguenza di queste diverse forze in conflitto è stata la nascita di una costola particolarmente audace di un movimento già di rottura: una nicchia nella nicchia che si diverte a dissacrare la corrente più iconoclasta della storia del metal, spesso composta di progetti paralleli di musicisti che non sopportano l’essere limitati in un solo ambito. Questo piccolo viaggio in tredici tappe nel mondo dell’industrial black metal non pretende di fotografare in pieno le sfumature toccate da un ibrido tanto cangiante — per esempio, non saranno approfonditi i più noti Blut Aus Nord, CNK o Samael — ma mira a offrire a chi legge un ventaglio di esempi notevoli emersi nel corso dei suoi primi (quasi) vent’anni di evoluzione, dalle fiamme al largo dei bastioni di Orione ai raggi B nel buio vicino alle porte di Tannhäuser.


Mysticum – In The Streams Of Inferno

(Peaceville Records, 1996)

A buon diritto si può affidare l’inizio del viaggio ai norvegesi Mysticum, che nel 1996 — dopo qualche anno di attività sotto altro nome — si presentano al mondo con In The Streams Of Inferno, debutto di pura e grezza malvagità che riassume precisamente la combinazione tra approccio black metal e suggestioni industrial. Il primo brano “The Rest” basterebbe già da solo a fornire un’idea piuttosto precisa: songwriting e sound in perfetta sintonia con i grandi nomi del periodo (sono da poco usciti autentici monumenti del calibro di Battles In The North, Antichrist e Nemesis Divina), pregni di una rabbia primordiale che poco si cura di orpelli e precisione di esecuzione, ma armati di una drum machine che rende l’ascolto completamente diverso dagli album sopracitati.

Ritmiche marziali, inesorabili e inumane permeano l’intera opera in accompagnamento a una voce che unisce al normale scream black metal uno smodato uso di saturazione ed effetti che rendono il timbro ancora meno umano del solito. In The Streams Of Inferno è un perfetto campionario delle potenzialità di questo nuovo sottogenere, dalle atmosfere di gelido abbandono di “Crypt Of Fear” a quelle quasi thrash di “Winter Mass”, che potrebbe essere uscita dalla versione inumana di una vecchia demo degli Emperor. L’album si chiude con sei minuti di atmosferici synth dissonanti a suggello di un’abbondante mezz’ora senza alcuna traccia di luce e umanità.


Dødheimsgard – 666 International

(Moonfog Productions, 1999)

Altro nome dalla Norvegia, stavolta gentilmente offerto da Moonfog, altro passaggio imprescindibile per comprendere cosa possa essere l’industrial black metal. Già autori di due album ancorati a un black più classico benché già deragliati verso lidi che oggi definiremmo avantgarde, i Dødheimsgard con 666 International abbandonano ogni pudore e scagliano un bulldozer sopra ogni definizione di genere musicale.

Se già grafica e titolo non avessero messo a disagio il metallaro che alle soglie del 2000 si fosse accinto ad ascoltare questo album, ci avrebbe pensato la scaletta. Il lettore CD indica sessantasei tracce: le prime sono la musica vera e propria, poi ci sono cinquantacinque tracce vuote e una piccola ghost track sepolta sotto minuti di silenzio.

Nine Inch Nails, Front 242, Voivod, Machine Head, Beastie Boys, jazz e musica classica del secolo scorso si rincorrono per un’ora in un baccanale impazzito e sacrilego che rifiuta ogni tentativo di categorizzazione. L’aspetto black punteggia la maggior parte dei pezzi, almeno per quanto riguarda l’uso delle chitarre zanzarose e il ricorso a furiosi blast beat, ma il termine sta tremendamente stretto a qualsiasi canzone. La performance canora di Aldrahn (segnati questo nome, tornerà utile in futuro) salta tra scream, voci pulite dissonanti, lamenti, urla di dolore e tanto altro, tenendo come unico denominatore un senso di sardonica superiorità. 666 International resta ancora oggi un gioiello con pochi eguali e un ascolto obbligato per chiunque cerchi originalità e follia: astenersi amanti di ordine e coerenza.


Aborym – Kali Yuga Bizarre

(Scarlet Records, 1999)

Un pizzico di Italia fa capolino in questa fredda panoramica. Direttamente dalla Capitale, gli Aborym escono ventiquattro anni fa con questo album di debutto assolutamente fondamentale per gli sviluppi del genere. Kali Yuga Bizarre è un piccolo capolavoro, futurista e ispirato, capace di spaziare tra i generi con una libertà rara sulla scena estrema. La band mostra un livello tecnico eccelso nel districarsi tra black relativamente canonico (“Wehrmacht Kali Ma”), assalti thrash all’arma bianca (“Metal Striken Terror Action”) e momenti quasi epici (“Roma Divina Urbs”), snocciolati con un senso quasi di superiorità su chi fa di questi generi l’unica forma di espressione musicale.

Dove però questo disco rende meglio e varca il confine tra ottimo album e capolavoro è nei brani più sperimentali. “Horrenda Peccata Christi“, “Tantra Bizarre”, la spettacolare cover del tema — rifiutato — di “Hellraiser” dei Coil: qui l’elettronica entra prepotentemente tra suggestioni trip-hop e momenti quasi techno-EBM, e si mescola al metal in modo indissolubile creando un ibrido marziale, inesorabile e onirico, sfruttando al massimo le potenzialità vocali dell’ospite d’onore Attila Csihar. Una presentazione monumentale per Malfeitor Fabban e compagnia, che poi proseguiranno una soddisfacente carriera verso lidi meno metallici ma ugualmente ispirati.


The Kovenant – Animatronic

(Nuclear Blast, 1999)

I The Kovenant sono un autentico supergruppo che annovera l’ex-Dimmu Borgir Nagash (qui noto come Lex Icon) alla voce e nientemeno che Hellhammer (con l’alias Von Blomberg) dei Mayhem alla batteria. Dopo due album usciti a nome Covenant spostati verso lidi più sinfonici, i Nostri cambiano nome e stile e sfornano questa piccola gemma. Animatronic è un esempio di come dal metal estremo a musiche ballabili il passo può essere sorprendentemente breve.

In questo caso la definizione di industrial black metal è opinabile, data l’assenza di blast beat e altri tratti caratteristici, mentre abbondano i riferimenti a nomi quali Marylin Manson o Rob Zombie. Quello che rende Animatronic degno di nota è il suo essere estremamente coerente nella proposta musicale pur restando in bilico tra i due campi, sfruttando a fondo tutte le tecniche vocali di Lex Icon che, pur non essendo un cantante eccezionale, si districa tra scream, voce pulita di ispirazione goth-rock, cantilene robotiche e nenie di dolore. Il resto degli strumenti cesella alla perfezione ogni canzone con piglio ora più incalzante (“In The Name Of The Future”, “ The Human Abstract”), ora più smaccatamente dance (“New World Order” e “Jihad” smuovono qualsiasi fascia di pubblico), ma anche tendente al gotico (“Mannequin” o “Spaceman”, cover della one-hit wonder dei Babylon Zoo). La produzione svolge un ruolo fondamentale nel definire il sound e non a caso è stata affidata a Siegfried Bemm, responsabile di altre strane creature degli anni Duemila come Lacuna Coil, Moonspell, Flowing Tears e The Gathering. Il gruppo pubblicherà un altro album allontanandosi ulteriormente dal metal per poi limitarsi ai remix dei primi due, lasciando la sensazione di avere avuto forse poco da dire ma di averlo detto davvero molto bene.


Thorns – Thorns

(Moonfog Productions, 2001)

Altri nomi illustri sono presenti nei Thorns, band di Trondheim che — dopo un decennio di oscuri demo tape — all’epoca del seminale album Thorns annoverava nientemeno che Bjørn Dencker (già comparso in questa rassegna come Aldrahn nei Dødheimsgard), Snorre Ruch (ex-chitarrista dei Mayhem coinvolto nei fattacci dell’Inner Circle) e due ospiti del calibro di Satyr e Hellhammer.

Uscito con svariati anni di ritardo dovuti alle vicissitudini carcerarie di Ruch, Thorns si presenta come un riassunto degli anni di underground vissuti all’ombra dei grandi nomi, un figlio visionario della scena black anni ’90 e delle suggestioni industrial e sci-fi di fine secolo, combinate in un sound gelido, preciso e asettico, capace di spaziare da marce robotiche come “Shifting Channels“ o la suite dark-ambient “Underneath The Universe 1” alla sfuriata black primordiale “Interface To God”. Sintetizzatori e vocoder filtratissimi punteggiano raramente tutte le composizioni dei Thorns, spuntando qua e là, ma fornendo sempre l’idea di essere in un mondo diverso da quello descritto dal normale black metal; perfino la batteria viene processata e de-umanizzata fino a essere ridotta a un beat alieno e martellante.

Sfortunatamente questo resterà l’unico album completo prodotto dai norvegesi, con Ruch che sposterà il progetto verso composizioni ambient-drone per mostre ed esposizioni e ci lascerà con un pizzico di amaro in bocca per quello che poteva essere un nome di punta nel cyber-metal.


Diabolicum – The Dark Blood Rising (The Hatecrowned Retaliation)

(Code666 Records, 2001)

Dopo tanta malevolenza astrale e raffinata vale la pena di dare uno sguardo anche al lato più crudo del genere, e in questa categoria è d’obbligo soffermarsi sugli svedesi Diabolicum che riprendono la lezione dei Mysticum e la interpretano attraverso un filtro di violenza sonora più affine ai connazionali Myrkskog e Raise Hell.

Gli elementi che contraddistinguono principalmente The Dark Blood Rising sono l’abbondanza di tremoli melodici e le chitarre granitiche che scandiscono ogni pezzo, secondo l’immortale lezione dei Dissection. Allo stesso tempo, però, il ricorso a sample e arpeggiatori ricorda una certa EBM primordiale di Lᴂther Strip o :wumpscut:, mentre la drum machine viene utilizzata quasi sempre come sostituto del batterista umano.

Dal punto di vista lirico, i Diabolicum, dopo un album di debutto zeppo di satanismo spicciolo, si concentrano sulla guerra e i suoi orrori, soffermandosi in particolare sugli aspetti più alienanti, facendone una sorta di rituale malvagio a divinità ctonie. Non mancano le ingenuità: il salto tra passaggi suonati e momenti affidati ad atmosfere elettroniche è chiaramente percepibile e la volontà di risultare crudi spesso porta il sound a risultare più finto del dovuto. Tra i singoli brani svettano il più classicamente metal “The Hatecrowned Retaliation” e “The War Tide (All Out Genocide)”, che invece sfrutta al massimo gli aspetti elettronici finendo per essere la canzone meno umana e più riuscita dell’album. The Dark Blood Rising è invecchiato probabilmente peggio degli altri dischi finora incontrati, ma resta un esempio di come dietro un’etichetta di sottogenere possano nascondersi esempi molto variegati.


…And Oceans – Cypher

(Century Media Records, 2002)

I finlandesi …And Oceans sono una creatura enigmatica già a partire dal nome. Nati negli anni ’90 come band symphonic black metal, dopo due album molto interessanti stravolgono completamente il loro stile pubblicando due dischi in cui le componenti sinfoniche sono praticamente inesistenti e a dominare è l’elettronica più gelida e industriale.

Cypher è la seconda opera in questo solco, dove le influenze più cyber sono maggiormente ragionate e gestite e — come già detto nel caso dei The Kovenant — a risentirne è la parte più squisitamente black, qui presente più che altro per fornire al sound di insieme il tipico aspetto grezzo e scarno. Le chitarre vengono esautorate dal ruolo di guida principale mentre le melodie portanti, quando presenti, sono affidate a rarefatti sintetizzatori di scuola dance.

La particolarità del gruppo è quella di basare spesso e volentieri parti o interi brani su beat ballabili che non sfigurerebbero in un locale dark: “Voyage: Lost Between Horizons: Eaten By The Distance” o l’intro di “Picturesque: Cataclysm Savour: And The Little Things That Make Us Smile” ne forniscono degli ottimi quanto lampanti esempi. All’interno di Cypher gli …And Oceans sfruttano l’atmosfera da club oscuro e futuristico per dare un tono del tutto particolare ai loro testi, sempre piuttosto ermetici e poco legati alla realtà terrena.


Blacklodge – Solarkvlt

(End All Life Productions, 2006)

La Francia rivendica un ruolo sempre più importante sulla scena musicale del terzo millennio, quindi non sorprende trovare una band transalpina tra i nomi fondamentali per questo movimento. I Blacklodge prendono le lezioni dei Mysticum e degli Aborym più elettronici, le frullano in un mulinello di misticismo, droghe e satanismo old school e ne esce questa summa del black industriale che porta il nome di Solarkvlt.

Fin dalla copertina e dai titoli dei brani — come “TeknoShaman_666” o “Drugz MysticisM [#A:Vision]” — ci si cala in un mondo in cui il Diavolo tenta e conquista l’umanità a suon di tecnologia e sostanze psicoattive. Il buon gusto chiaramente non è ospite gradito in queste tredici tracce, che aggrediscono l’ascoltatore con un mix quasi alla pari tra techno-industrial vera e propria e chitarre black metal.

Nessun fronzolo orchestrale, nessuna batteria vagamente umana e perfino poca aderenza alla forma-canzone tradizionale. I Blacklodge saltano con folle disinvoltura da breakbeat ad aggressioni black (rette spesso da batterie tipiche dall’hardcore elettronico più spinto), passando per momenti ambient-drone, mantenendo come denominatore comune l’impressione di essere in un trip acido in balìa di una terribile minaccia robotica. Nessun brano di Solarkvlt si qualifica come capolavoro (nota di ultra-merito alle melodie deraglianti di “PreQuel To The Kult”), il disco in sé rende al meglio se ascoltato per intero come un unico viaggio lisergico e malvagio. La band darà alla luce altre due fatiche discografiche notevoli, ma senza riuscire più ad avvicinarsi a questo abisso. Solarkvlt è un passaggio fondamentale per chiunque voglia farsi un’idea del grado di pazzia che può essere sottointeso a ciascuno dei sottogeneri.


Control Human Delete – Terminal World Perspective

(Code666 Records, 2007)

Un album oscuro di una band ancora più oscura, relegata ahimè a uno status piuttosto di nicchia anche per gli appassionati del settore. Gli olandesi Control Human Delete — da qui in avanti CHD — si inseriscono fin da nome e grafica sulla via tracciata dai Dødheimsgard (che negli anni successivi a quel seminale 666 International adotteranno il logo DHG), ma senza disdegnare altre influenze come Thorns o Satyricon, e applicano quanto appreso in modo personale e peculiare.

Terminal World Perspective è un album feroce e tempestoso, dove le drum machine vengono sfruttate per blast beat e tappeti di doppia cassa a velocità inconcepibili, i sintetizzatori punteggiano i brani con melodie semplici, dissonanti e inquietanti, mentre i passaggi ripetuti ossessivamente contribuiscono a togliere ogni sensazione di umanità. Un punto di indubbia forza dei CHD è il contributo di Void, responsabile non solo delle parti cantate, ma anche dei concept delle canzoni in generale. Tra scream, rare parti pulite e passaggi pesantemente filtrati da vocoder, l’intero album evita sdegnosamente l’approccio tradizionale ai testi, puntando su passaggi declamati in prosa tratti da grandi scienziati, testi storici, religiosi, filosofici e di fantascienza, oppure scritti di proprio pugno sulla stessa falsariga, a formare un tumultuoso viaggio futuristico alla ricerca di introvabili risposte alle più esistenziali domande che il genere umano si possa porre.

L’unica pecca riscontrabile in Terminal World Perspective è la produzione che, dovendo sottostare ai dettami di sporcizia & cattiveria tipici del black metal, finisce per rendere pesante l’ascolto dei lunghi brani proposti (oltre settanta minuti totali) e penalizza i ricercati e complessi arrangiamenti. Nonostante questo, perle come l’onirica “Transpherium” o la granitica “The Creation Equivalence Principle” restano ai vertici di questo sottogenere. I CHD proseguiranno la loro carriera pubblicando un altro album e qualche brano singolo anche uscito indipendentemente: non è mai stato annunciato uno scioglimento, quindi la speranza di venire visitati di nuovo da questi viaggiatori spazio-temporali resta viva.


Neo Inferno 262 – Hacking The Holy Code

(Necrocosm, 2008)

Orwell incontra l’industrial black metal: un manifesto propagandistico di un ipotetico (?) stato totalitario, registrato e pubblicato dai quattro Ministeri cardine dell’establishment — Giustizia, Moralità, Comunicazione e Ordine. Andando oltre i simboli, troviamo un progetto francese composto da membri della scena black locale e un prodotto di livello altissimo e caratterizzato da una cura per i dettagli degna di produzioni molto più danarose.

Ritmi tipicamente metal misti a beat da discoteca, follia techno-hardcore e melodie black sono la base ormai nota e arcinota di Hacking The Holy Code dei Neo Inferno 262, ma l’album eccelle nel presentare un mix assolutamente inscindibile e organico, fornendo un’esperienza di ascolto unica perfino in questa nicchia. Elementi di forza sono l’inserimento di sample cinematografici in perfetto sync con la musica, pratica già in voga in ambito EBM ma raramente impiegata nel metal, e la capacità di sfruttare le voci vere e proprie — che spaziano tra scream, pulito, rantoli di dolore e stentorea declamazione riconducibili a periodi storici meno felici — in sinergia con il tutto, ennesima sintesi uomo-macchina mirabilmente riuscita. I testi non sono di facile interpretazione, ma risulta chiaro l’intento di presentare una sorta di manifesto distopico in puro stile 1984: se «la Libertà è Schiavitù» si può inferire che si possa trovare la salvezza solo nella dannazione, la lucidità nelle sostanze psicoattive e forza per vivere nella negatività, quindi le minacciose promesse distruttive di “Neuronal Revolution” — che sfoggia sezioni di archi svolazzanti nello stile dei connazionali Anorexia Nervosa — o “The Great Industrial God” vengono ripetute all’infinito come mantra salvifici.

Altri picchi del disco sono la title track che non sfigurerebbe come cover metal di qualche brano dimenticato dei Prodigy o la lisergica “A Needle In Your Eardrum” che mette in secondo piano l’aspetto metal per regalarci un pezzo techno-trance oscuro e avvolgente. Hacking The Holy Code è un piccolo capolavoro dal suono ancora estremamente attuale e perfetto per chiunque voglia accostarsi al genere per i primi ascolti. Il progetto Neo Inferno 262 resterà silenzioso per quindici anni fino al ritorno in grande stile di inizio 2023, con un nuovo album e una nuova veste grafica che fonde AI e mano umana per un nuovo viaggio nella distopia cyber-metal più nera.


Havoc Unit – h.IV+

(Vendlus Records, 2008)

Gli Havoc Unit altro non sono che gli …And Oceans quando la loro volontà di evoluzione e rottura con il passato ha valicato ogni argine. Dopo il cambio di genere, grafica e temi lirici, restavano da cambiare soltanto nome e pseudonimi. Così, dalla furia iconoclasta, è emerso un disco crudo, grezzo e ostile come pochi.

Con h.IV+, gli Havoc Unit abbandonano praticamente del tutto ogni velleità orchestrale residua, appesantendo e abbassando ulteriormente il riffing, sconfinando spesso in ambiti più affini al death metal che al black. La produzione, intanto, si fa decisamente lo-fi, contribuendo alla genesi di un sound ferocemente fangoso, con inserti electro-noise a dominare le frequenze più alte di un muro di suono compatto ed efficace. Su tutto domina la voce di Jos.f che non disdegna incursioni nel registro pulito (la notevolissima “Ignoratio Elenchi [Reversed Genesis]”) pur restando prevalentemente uno scream sofferto, adattissimo ai temi.

h.IV+ è una carrellata provocatoria, rabbiosa e nichilista sulla negatività della natura umana, una invettiva sfrenata contro ogni forma di religione, ideologia o forma di aggregazione. Martellante nelle liriche come nella musica, questo album rappresenta un perfetto atterraggio per chi predilige gli aspetti più violenti e meno rassicuranti dei due generi progenitori di questo articolo. Unica pecca: per ottenere questi risultati è stata sacrificata la magia caratteristica del black metal ben fatto, la stessa che la band riprenderà anni dopo, tornando al vecchio nome e al discorso musicale iniziato con le prime uscite.


Gorgonea Prima – Black Coal Depression

(Naga Productions, 2010)

La Repubblica Ceca offre la tappa successiva nel nostro viaggio. I Gorgonea Prima sono un misconosciuto duo che nel 2010 arriva al primo full length, forte di un paio di EP e di un notevole carico di ispirazione. Black Coal Depression esplora la commistione tra il black metal più canonico e la musica EBM-techno, divertendosi ad applicare a un genere i trucchi del mestiere dell’altro.

La ripetitività sfruttata come mezzo espressivo viene prestata alle ritmiche metal, mentre la ricchezza melodica eletta a tratto distintivo dalla scuola black scandinava viene passata a pilotare arpeggiatori e synth degni di un club dark dei primi anni ’00. Il risultato sono otto brani sorprendentemente catchy, in cui ritmiche metal scandite con precisione meccanica si mischiano perfettamente con breakbeat spezzati e passaggi in four-on-the-floor da discoteca. La sezione melodica dipinge invece paesaggi che si avvicinano a certe uscite dei Limbonic Art, pur senza sconfinare nell’adiacente nicchia symphonic black.

Come già notato per i Neo Inferno 262, risalta in particolare l’impossibilità di scindere le componenti elettroniche e metal, a conferma della padronanza del duo dei fondamentali di entrambe le correnti. I testi possiedono una forte componente astratta o psicologica, quindi gli scenari da apocalisse industriale si stemperano in un’atmosfera onirica, dove il senso di meraviglia supera quello di minaccia, allo stesso modo in cui un appassionato di astronomia assiste a fenomeni catastrofici nel cosmo. Una piccola nota di demerito è l’eccessivo ricorso ai passaggi ambient-noise inseriti all’inizio di quasi tutti i brani e in buona parte dei breakdown a metà canzone: una formula sicuramente riuscita, ma alla lunga prevedibile. Nonostante le ingenuità, momenti come “Corroded Landscape” o “Blast Furnace” sono biglietti da visita che non lasciano spazio a dubbi su un gruppo dal potenziale notevole, ma svanito dopo un secondo album meno di impatto di questo per la triste scomparsa del polistrumentista Hogath.


Mysticum – Planet Satan

(Peaceville Records, 2014)

Il cerchio si chiude là dove è iniziato, con il ritorno alla ribalta dei seminali Mysticum, dopo diciotto anni di assenza e un brano non eccelso nel 2003 pubblicato in uno split. Non è facile confrontarsi con un genere che hai praticamente inventato da solo, ma che si è evoluto con una rapidità invidiabile anche per uno xenomorfo: l’asticella si è alzata parecchio e nuove vie stilistiche sono state man mano aperte ed esplorate.

Il trio norvegese non si scompone e riparte esattamente da dove era rimasto, tirando le fila del discorso e ribadendo una padronanza mirabile dello stile e degli strumenti a disposizione. Planet Satan conserva la glacialità e la ferocia dell’esordio, grezzo come si conviene a chi ha vissuto gli albori del black metal, ma dove In The Streams Of Inferno poteva essere un colpo di fortuna nel suo sound di insieme, questo album è chiaramente studiato a fondo. Ogni singolo strumento trova il suo spazio nelle frequenze: la cassa è squisitamente elettronica, ma riesce a suonare alla perfezione sia nei momenti più cadenzati che nei blast beat, (lanciati spesso a velocità assolutamente inumane, dove i singoli colpi non si sovrappongono e non saturano i bassi. Le voci sono sempre affidate al duo di chitarristi e il ringhio sofferente del debutto viene spesso sostituito da uno scream effettato affine ai Summoning o parti quasi-pulite che non sfigurerebbero nei Celtic Frost.

Anche i testi riprendono da dove erano rimasti, riportando l’attenzione su uno sfacciato satanismo elementare, ma con una padronanza di linguaggio superiore a quasi tutti gli epigoni. L’intero spettro delle origini dell’industrial black metal viene qui ripreso, perfezionato e portato a manifesto, dall’aggressione speed deumanizzata di “Fist Of Satan” o “Cosmic Gun” alla fredda e ripetitiva epicità black dell’opener “LSD” (“Lucifer In The Sky With Demons”, sarcastico tributo ai Beatles), dalla marcia robotica “Far” al finale onirico affidato al lungo drone di “Dissolve To Impiety”. Planet Satan è la conferma che gli anni non hanno scalfito le fondamenta dell’intuizione iniziale, che continua a suonare attuale nella sua sfrontatezza.