I migliori album doom metal del 2020

LISTONI DI FINE ANNO 2020 #4 – Doom Metal

È arrivato anche per noi il momento di lanciarci nelle famigerate liste di fine anno per questo folle 2020. Prima di partire con l’elenco vero e proprio, un paio di note metodologiche. Innanzitutto, i titoli che seguono sono il risultato delle preferenze in semplice ordine alfabetico di tutto lo staff, e non di un singolo redattore, il che significa che i dischi che trovate qui dentro hanno fatto effetto su buona parte di noi. Secondariamente, come anticipato qualche giorno fa, non abbiamo l’ambizione di credere che le nostre scelte siano esaustive e/o definitive, perché la verità è che il grosso delle uscite del 2020 non l’abbiamo (ancora) ascoltato e chissà se riusciremo mai ad averne una reale e completa cognizione. Probabilmente no. Per cui, per farla breve, questi articoli vanno presi per quello che sono: semplici consigli legati a ciò che quest’anno ci è piaciuto, senza alcuna pretesa. Se riusciremo a far scoprire a qualcuno un bell’album, avremo raggiunto il nostro obiettivo.



DOOM METAL


ACID MAMMOTH
Under Acid Hoof
(Heavy Psych Sound)
A tre anni di distanza dal rilascio del loro album di debutto, gli Acid Mammoth tornano sulle scene con un nuovo full-length. Le cinque tracce che compongono Under Acid Hoof si inseriscono saldamente nel solco dello stoner-doom più tradizionale, proseguendo così lungo il percorso inaugurato con il suo predecessore. Gli ellenici si rifanno ai mostri sacri del genere, dagli Sleep agli Electric Wizard andando a ritroso fino ai Black Sabbath per quanto concerne il comparto vocale, e il risultato è un suono massiccio, elefantiaco. I ritmi, sempre molto lenti, si uniscono al ripetersi continuo di un riffing pesantemente distorto e al cantato salmodiante di Babalis Junior, andando a generare una vera e propria spirale ipnotica in grado di sopraffare l’ascoltatore, specialmente nel brano conclusivo. Under Acid Hoof potrà non essere un disco innovativo, ma la formazione greca è comunque riuscita a confezionare un lavoro che funziona dannatamente bene.


ATRAMENTUS
Stygian
(20 Buck Spin)
Parlando di Stygian sul concludersi dell’estate, abbiamo affermato di non essere ancora arrivati a toccare il fondo del debutto degli Atramentus. Con questa frase sentiamo di aver peccato di ottimismo eccessivo, perché non ci eravamo resi conto in cosa ci stessimo infilando. Come si può sperare di toccare il fondo di un vortice senza fine di dolore e disperazione? L’unica opzione è lasciarsi risucchiare, mentre l’incedere poderoso consuma ogni slancio vitale con la stessa insistenza con cui il mare scava la roccia. Dentro il funeral doom di Stygian aleggia una certa aggressività tipica del death più marcio, riscontrabile nel growl e nelle soluzioni più aggressive, mentre gli assoli di Phil Tougas (Chthe’ilist, Funebrarum, Void Ceremony, Serocs e tanti altri) appaiono piuttosto curati in confronto a quanto il genere ci ha abituato. I tre brani sono lunghi, ma se il funeral doom fa per voi crediamo proprio che non li troverete in alcun modo ripetitivi. Noi possiamo limitarci a consigliare di recuperare gli Atramentus — se non l’avete ancora fatto — a chi nella desolazione già ci vive. Ma vi avvertiamo: se vi lasciate strappare dai suoi tentacoli, ne verrete divorati.


BELL WITCH / AERIAL RUIN
Stygian Bough: Volume I
(Profound Lore Records)
La presenza di Erik Moggridge della one man band dark folk Aerial Ruins negli album dei Bell Witch è ormai una certezza: il cantante di Portland è menzionato fra gli ospiti in tutti e tre le opere del duo americano, in cui la sua voce mitiga il possente growl di Desmond. In occasione del quarto disco, il sodalizio si è fatto ancora più forte divenendo una vera e propria collaborazione per la quale Moggridge ha contribuito attivamente alla composizione e alla scrittura dei testi, nonché alla registrazione delle tracce di chitarra elettrica e acustica. Il risultato, che porta il nome di Stygian Bough: Volume I, è una maestosa opera di 64 minuti in cui funeral doom e folk si alternano dando vita ad atmosfere mistiche ed eteree che fanno immergere l’ascoltatore nell’universo lirico incentrato sul dualismo tra la vita e la morte, in un perenne gioco di contrasti e contraddizioni. Si tratta indubbiamente di una delle collaborazioni più riuscite in questo 2020, e probabilmente non l’ultima tra i tre musicisti.


CONVOCATION
Ashes Coalesce
(Everlasting Spew Records)
Ashes Coalesce è forse l’album che ha preso più voti per finire in questo listone di fine anno. Con buona pace dei pur validi Desolate Shrine, Lauri Laaksonen ha trovato nel funeral doom la quadratura del cerchio: ispirata, sofferta e di fortissimo impatto, la musica dei Convocation è un concentrato di tutto ciò che fa male, e non può non far saltare sulla sedia tutti gli appassionati della sofferenza in note. Ashes Coalesce continua il discorso iniziato un paio d’anni fa con Scars Across e se possibile ne amplifica tutti i pregi e rimpicciolisce i difetti (ammesso che ce ne fossero), regalando tre quarti d’ora di funeral doom misto death metal da cimitero che se non sono perfetti poco ci manca. In un genere dove la novità è pressoché inesistente e in cui oggi chi prova a fare qualcosa di diverso cerca di buttarsi sullo slowcore scimmiottando i Bell Witch, è rinfrancante andare a sbattere sul muro di mattoni dei Convocation.


DARK BUDDHA RISING
Mathreyata
(Svart Records)
Da oltre dieci anni i Dark Buddha Rising sono una garanzia nello psichedelico universo del doom. La band finlandese ci ha abituati a viaggi di ottima fattura, usciti a ritmi molto sostenuti fino al precedente Inversum. Con Mathreyata, Ajomo, i fratelli Rämänen e soci tornano a cimentarsi con un full-length a cinque anni di distanza, chiudendo il cerchio concettuale aperto con il disco precedente e arricchito dall’EP II, dopo la notevole parentesi con il progetto Waste Of Space Orchestra insieme agli Oranssi Pazuzu. In questi quattro brani prosegue la meditazione cosmica del quintetto, mescolando atmosfere e ispirazioni di matrice buddhista con un doom volontariamente costruito sulle ripetizioni, ma allo stesso tempo mai monotono. I Dark Buddha Rising ci pongono davanti al mistero dell’esistenza, all’infinità del tempo, in pezzi che scorrono tra drone, stoner, psichedelia, con qualche punta di sludge. Il disco è uscito a metà novembre per Svart Records, giusto in tempo per lasciare forse il segno più profondo nella carriera della band in un’annata particolarmente ricca per il doom metal.


DRACONIAN
Under A Godless Veil
(Napalm Records)
Nei loro ventisei anni di carriera, i Draconian non hanno mai pubblicato un album debole. Il successore di Sovran (2015, Napalm Records), però, aveva un compito più arduo del solito: confrontarsi con uno dei dischi più accessibili e contemporaneamente più personali della band; il primo, inoltre, a vedere Heike Langhans (Light Field Reverie) prendere il posto della defezionaria voce femminile storica del progetto, Lisa Johansson. Under A Godless Veil non delude assolutamente le aspettative e, come sempre, ci mette sotto al naso una proposta doom variegata e lussureggiante, diversa dalle precedenti e legata al passato dal classico fil rouge draconiano: un’attenzione spasmodica nei confronti delle atmosfere dai toni quasi sacrali nelle quali si intrecciano trame testuali decisamente mortali; nel caso specifico, una tensione tutta mortale verso il luciferiano e la ricerca spirituale gnostica. Non c’è pezzo nella scaletta della settima prova dei Draconian che non attiri il lettore attento alle tematiche, non c’è brano che non catturi l’animo dell’ascoltatore passionale. L’unico problema di Under A Godless Veil è che non è adatto all’ascolto veloce e disattento, ma conoscendo anche solo di seconda mano Anders Jacobsson siamo certi che intendesse quest’opera più come cibo per la mente che per il mercato del consumo dei giorni nostri. Ancora una volta, benissimo così.


DROWN
Subaqueous
(Autoprodotto)
Dietro il nome Drown si cela Markov Soroka, mastermind dei Tchornobog attivo anche nei Krukh. La creatura doom dell’ucraino, dalle sembianze di un mostro marino dalle dimensioni mastodontiche ma armoniose, ci offre un secondo tributo. Subaqueous, che continua il discorso intrapreso con il precedente Unsleep, è composto da sole due tracce dalla durata di oltre venti minuti ciascuna, in cui l’utilizzo importante di melodie e parti soliste di chitarra rende l’ascolto insospettabilmente leggero rispetto agli standard del genere. Le tematiche trattate sono legate alle profondità degli abissi e ai misteri che vi si celano, mentre l’incedere lento e costante dei riff e della batteria ne cattura appieno l’essenza. Tuttavia, la caratteristica più interessante di Subaqueous è la produzione, che riesce a dare l’impressione di essere all’ascolto di frequenze provenienti dagli abissi marini. Un’altra prova superata a pieni voti da Soroka, che ha confezionato uno dei dischi doom più interessanti e originali del 2020.


MARCHE FUNÈBRE
Einderlicht
(BadMoodMan Music / Hypnotic Dirge Records)
Quando si parla di gruppi adatti a offrire una qualche forma di compagnia (o ad acuire la sofferenza) nei momenti mortiferi, i Marche Funèbre sono dei candidati perfetti ad assolvere questo delicato compito. Lo dimostra Einderlicht, quarto full-length e nono capitolo della funerea discografia della band belga. L’album in questione si rivela un doloroso compendio di doom venato di death e declinato in tutte le sue sfumature, dalle più gotiche fino a quelle annichilenti e non definibili in altro modo se non Doom, con la D maiuscola; i riff ispirati e l’abilità del cantante Arne Vandenhoeck di passare dal growl possente alla voce pulita contribuiscono a intensificare la sensazione di abbandono all’abisso funerario da cui sembrano provenire i Marche Funèbre. Einderlicht ha l’effetto collaterale di tenere incollati allo stereo durante tutto l’ascolto; anche questa caratteristica ne fa un’uscita imperdibile per chi vive di ossigeno e doom.


OPIUM DOOM CULT
Tremors To Signal The End
(Autoprodotto)
Nati dalle convergenze (più personali che musicali) tra Beneath Oblivion e Thorns Of The Carrion, gli Opium Doom Cult sono un progetto nuovo, ma la caratura dell’album di debutto Tremors To Signal The End è assolutamente fuori questione. Poco più di un’ora di doom a tinte funeree, intessuto di melodie tanto sconfortate quanto squisitamente belle, psichedelia, ritmiche monolitiche e sofferenza. Il solito funeral doom atmosferico, sì, ma sviluppato con una sensibilità quasi soprannaturale, che scava a fondo in quell’abisso di invincibile dolore che attanaglia un po’ chiunque: questo sentimento è ben esemplificato dai versi di Charles Bukowski, reinterpretati in “The Plague Of Our Lamentations”, unico pezzo contenente tracce vocali in un album altrimenti quasi del tutto strumentale. Al netto della sua enorme carica emotiva, Tremors To Signal The End è un disco tutt’altro che indigesto o difficile da metabolizzare, che colpisce sin dal primo ascolto, rendendo un po’ più sopportabile un ennesimo giorno trascorso respirando ancora.


TORTUGA
Deities
(Autoprodotto)
Pochi scrittori hanno influenzato il mondo del metal come Lovecraft, le cui creazioni letterarie hanno ispirato un numero infinito di dischi e gruppi. Tra gli innumerevoli musicisti che hanno interpretato in qualche modo gli orrori cosmici del maestro di Providence ci sono i Tortuga, il cui secondo lavoro, Deities, è senza dubbio degno di essere citato tra i più interessanti di quest’anno. Solido stoner psichedelico, fuzz a palate, tonnellate di riff ciccioni e lisergiche atmosfere da jam session sono ingredienti di una ricetta ben conosciuta, ma che non stanca mai. Dal culto egizio di Nyarlathotep (“Black Pharaoh II”) alle nefandezze degli adoratori di Dagon (“Esoteric Order”), passando per un improbabile ed esilarante confronto tra Yig e Godzilla (“For Elizard”), il quartetto polacco esplora a modo suo gli incubi innominabili del famoso autore, confezionando un’ora scarsa di musica che rappresenta un anello di congiunzione ideale tra i miti di Cthulhu e gli allucinogeni.