LISTONI DI FINE ANNO 2020 #5 – Post-Metal
È arrivato anche per noi il momento di lanciarci nelle famigerate liste di fine anno per questo folle 2020. Prima di partire con l’elenco vero e proprio, un paio di note metodologiche. Innanzitutto, i titoli che seguono sono il risultato delle preferenze in semplice ordine alfabetico di tutto lo staff, e non di un singolo redattore, il che significa che i dischi che trovate qui dentro hanno fatto effetto su buona parte di noi. Secondariamente, come anticipato qualche giorno fa, non abbiamo l’ambizione di credere che le nostre scelte siano esaustive e/o definitive, perché la verità è che il grosso delle uscite del 2020 non l’abbiamo (ancora) ascoltato e chissà se riusciremo mai ad averne una reale e completa cognizione. Probabilmente no. Per cui, per farla breve, questi articoli vanno presi per quello che sono: semplici consigli legati a ciò che quest’anno ci è piaciuto, senza alcuna pretesa. Se riusciremo a far scoprire a qualcuno un bell’album, avremo raggiunto il nostro obiettivo.

POST-METAL
BAIT
Revelation Of The Pure
(Les Acteurs De L’Ombre)
Disco di debutto per il trio tedesco dei Bait e nientedimeno che su LADLO, che è garanzia di nomi e qualità di un certo livello: già questo è un ottimo motivo per rizzare le orecchie. La band propone un hardcore striato di black, sludge e post-metal e ci parla di fine del mondo, morte e distruzione, alla fine delle quali verrà rivelato ciò di più puro esista, ovvero il pianeta Terra senza le sue brutture, genere umano compreso. Se da una parte è vero che l’uomo è capace di svariate nefandezze e merdate, probabilmente ascoltare esponenti della razza umana che urlano di quanto dovremmo estinguerci e scomparire diventa una sorta di guilty pleasure. Il disco offre spunti e richiami riconducibili ai due EP precedenti (in qualche modo complementari tra loro e allo stesso debutto), dove quanto espresso in Revelations Of The Pure era presente in fase embrionale. Senz’altro un’ottima prima prova per una band che fa presagire cose buone e giuste e che vale dunque la pena tenere d’occhio.
CASPIAN
On Circles
(Triple Crown Records)
Il post-rock strumentale aveva vissuto un 2019 particolarmente affollato con le nuove uscite di pezzi da novanta come Russian Circles, Mono e Pelican, che avevano lasciato meno spazio ai dischi di band non di primissimo piano ma di tutto rispetto. Il 2020 è stato meno prolifico per quanto riguarda i grandi nomi, dando a On Circles, l’album dei Caspian arrivato a cinque anni dall’apprezzato Dust And Disquiet, la possibilità di emergere. La porta socchiusa in copertina ci invita a scoprire oltre quaranta minuti di post-rock riflessivo e a suo modo confortante. Le numerose chitarre a disposizione sono da sempre un marchio di fabbrica del sestetto del Massachusetts, e anche qui costruiscono layer su layer che si intersecano e interagiscono con la sezione ritmica (è anche il primo disco con il nuovo batterista Justin Forrest). Come nell’album precedente, i Caspian hanno infilato qualche sezione cantata (“Nostalgist”, con il cantante dei Pianos Become The Teeth, e la ballata conclusiva “Circles On Circles”) e qualche momento più possente (come “Collapser”). On Circles è abbondantemente una delle cose più solide uscite in ambito post-rock quest’anno, se per qualche motivo i Caspian non erano ancora entrati nel vostro radar, è un’ottima occasione per recuperare.
ENVY
The Fallen Crimson
(Temporary Residence; Pelagic Records; Sonzai Records)
Gli Envy sono sicuramente uno dei gruppi nipponici più importanti degli ultimi due decenni e The Fallen Crimson segna il loro ritorno sulla scena dopo più di cinque anni. Ancora prima di essere preso per le sue pregevoli qualità, questo disco va letto come la rinascita e il rinnovamento di un gruppo che negli ultimi anni è passato attraverso numerosi problemi, sia personali che artistici, e che sembrava sul punto di sgretolarsi sotto il loro peso. Invece è successo esattamente l’opposto. The Fallen Crimson, pubblicato nientemeno che dalla Pelagic Records dei The Ocean, è una piccola gemma post-hardcore dai tratti delicati e aggraziati, un viaggio emotivamente straziante fatto di ritmiche dissonanti e melodie struggenti. Il cantato totalmente in giapponese, grazie alla sua musicalità unica, non fa che esasperare quel senso di nostalgia e pace che, anche nelle sezioni più dirompenti, rappresenta il filo rosso che tiene unito tutto l’album. Sicuramente uno dei dischi hardcore del 2020 e una delle opere più commoventi che il genere abbia partorito nell’ultimo decennio.
INTRONAUT
Fluid Existential Inversions
(Metal Blade Records)
A distanza di cinque anni dall’ottimo The Direction Of Last Things e con un nuovo batterista (Alex Rüdinger), gli Intronaut ritornano sulla scena con un sesto full length in cui la sperimentazione e la ricerca sonora proseguono lungo il loro naturale corso, arricchendosi di nuove influenze. I poliritmi si susseguono senza troppo strafare, lasciando sempre più spazio a momenti più atmosferici in cui l’impronta jazz sa farsi sentire. I riff strizzano l’occhio al djent pur senza risultare monotoni e il lavoro del nuovo batterista dietro le pelli è semplicemente fantastico: basti ascoltare “Cubensis” per rendersene conto. L’unica pecca è probabilmente aver messo il basso in secondo piano rispetto alle uscite precedenti: considerando l’abilità tecnica e la creatività di Joe Lester. In conclusione, Fluid Existential Inversions è sicuramente uno dei migliori album metal del 2020 e l’ennesima prova di come gli Intronaut sappiano reinventarsi ad ogni uscita senza mai ripetersi.
JUPITERIAN
Protosapien
(Transcending Obscurity Records)
Protosapien, l’ultima fatica dei brasiliani Jupiterian, non è esattamente un disco post-metal nel senso stretto del termine, eppure abbiamo deciso di inserirlo in questa lista proprio per la sua natura inafferrabile. Il quartetto di San Paolo è cresciuto parecchio dai tempi dell’esordio, facendosi notare in particolare con il roccioso Terraforming nel 2017. Dopo tre anni, in Protosapien prende forma un lavoro compatto e riflessivo che esplora i meandri più sconosciuti della storia protoumana, persa tra titanico mito e oscura realtà. Echi funeral doom si mescolano a badilate death metal in un’atmosfera di smarrimento nei confronti dell’immensità dell’universo e di ciò che non conoscevamo e non conosciamo, con quella punta di Lovecraft che non guasta mai. Non mancano riferimenti allo sludge atmosferico dei pilastri del genere, che condiscono l’album con la giusta dose di fango primordiale. Un disco decisamente consigliato se siete alla ricerca di qualcosa di colossale ma che non duri dodici ore, con Protosapien gli Jupiterian si confermano una band da tenere d’occhio.
THE OCEAN
Phanerozoic II: Mesozoic | Cenozoic
(Metal Blade Records)
La parabola qualitativa ascendente che ha contraddistinto l’arco narrativo esplorato dai The Ocean a partire da Precambrian, nell’ormai lontano 2007, non è una scoperta di quest’anno. La chiusura del cerchio concettuale, Phanerozoic II: Mesozoic | Cenozoic, è stata dunque comprensibilmente oggetto di aspettative molto alte. Al netto di un’iniziale sensazione di straniamento derivante dall’apparente mancanza di quelle soluzioni terremotanti e immediate che hanno reso il predecessore un disco superlativo, il nuovo parto di Robin Staps e soci è cresciuto con gli ascolti, fino a rivelarsi per ciò che è: un album enorme, incredibilmente stratificato, ambizioso e di eccelsa qualità. Il consueto parallelismo tra le decadenze umane e il percorso geologico del nostro pianeta si snoda tra inclinazioni progressive, atmosfere sintetizzate, momenti di aggressività e sperimentazioni, il tutto saldamente ancorato a uno scheletro post- dai toni talvolta psichedelici. Il risultato finale è un quadro di genialità che conferma i The Ocean come un’istituzione per quanto concerne un certo modo di suonare musica estrema.
OLD MAN GLOOM
Seminar IX: Darkness Of Being, Seminar VIII: Light Of Meaning
(Profound Lore Records)
È ormai risaputo che gli Old Man Gloom siano una sorta di super-gruppo dell’ambiente post-metal e sludge statunitense; Seminar VIII e Seminar IX, usciti a circa due mesi di distanza l’uno dall’altro, non smentiscono certo la nomea del gruppo. L’aggettivo che viene in mente per descriverli è cervellotico: non tanto perché si tratti di dischi bizzarri in sè, ma perché al loro interno troviamo un’ampia gamma di episodi musicali che spaziano dal post-hardcore granitico a momenti che sembrano quasi cinematografici (la parte iniziale di “Calling For Home” e “Death Rhymes”, che calzerebbero a pennello come colonna sonora di un film indie ambientato in qualche deserto), passando per le sonorità massicce a cui Aaron Turner e compagni ci hanno abituati. A ciò si aggiunge anche una certa sensazione disturbante, dovuta agli intermezzi pseudo-rumoristici che i Nostri hanno infilato qua e là. Un disco da ascoltare mentre si riflette sulla vita, seduti sul bordo di un canyon.
PSYCHONAUT
Unfold The God Man
(Pelagic Records)
Quello di Unfold The God Man è un caso particolare, nonché un piccolo e innocente inganno per il listone post-metal del 2020. L’esordio sulla lunga distanza dei belgi Psychonaut, infatti, era stato pubblicato in via indipendente nel 2018, prima che l’onnipresente Pelagic Records decidesse di rimetterci mano e reimpacchettarlo per una distribuzione su scala molto più grande nel 2020. Il trio di Melechen mette insieme un ventaglio di influenze che includono le cose belle dei Tool, una spruzzata di The Ocean e un po’ dell’alone mistico degli immancabili Amenra, per costruire oltre un’ora di musica cervellotica e testi che investigano la natura della vita e l’origine della coscienza, alla ricerca di un piano superiore della comprensione dell’universo. Tanti ospiti e una grande varietà sonora dal sapore prog permettono al terzetto di esplorare le profondità dello spirito con soluzioni musicali anche molto diverse da brano a brano. È un piacere rivedere Unfold The God Man in una nuova veste e con una maggiore diffusione, dando la possibilità di scoprire questa perla seminascosta degli Psychonaut a più persone.
EMMA RUTH RUNDLE & THOU
May Our Chambers Be Full
(Sacred Bones Records)
Da quando Emma Ruth Rundle e quell’entità cangiante che sono i Thou hanno annunciato la loro collaborazione al Roadburn 2019, gli occhi di molti di noi sono diventati dei cuoricini. Lo sono diventati ancora di più quando quello sforzo collettivo si è concretizzato in May Our Chambers Be Full, uno splendido album che mette in luce tutto il meglio delle due parti coinvolte: non è una sorpresa che la voce intensa di Rundle si adatti bene a partiture altrettanto intense, ma lo sludge del combo della Louisiana era certamente territorio inesplorato. Esperimento riuscitissimo: le tre voci riescono a pennellare sensazioni diverse, specie quando Emma e Bryan Funck viaggiano all’unisono, e la carne al fuoco è davvero tanta, che si parli di post-metal, delle parti più sludgiose o della sempre bellissima infatuazione dei Thou per gli anni ‘90 e per il grunge, vivissimo in certi riff e linee vocali. May Our Chambers Be Full è un disco che è più della somma delle sue parti, che brilla nelle discografie degli artisti coinvolti e di cui si sentirà parlare ancora per un po’.
ULCERATE
Stare Into Death And Be Still
(Debemur Morti Productions)
Giunti ormai al loro sesto disco, gli Ulcerate sono da anni uno dei nomi di riferimento per quanto riguarda il death metal atmosferico e dissonante. La cosa più bella è che con Stare Into Death And Be Still la band neozelandese cambia direzione e si evolve, andando a declinare la parte abrasiva della sua proposta in una chiave più morbida e sognante, che verrebbe da definire quasi post-death metal. Non è un caso che protagonista sia la batteria del talentuoso James Saint Merat, con il suo tocco unico che fa sembrare leggeri come piume anche blast beat violentissimi. Il mood di inquietudine che permea l’intero lavoro è sottolineato anche dal tema lirico della riverenza della morte, che attinge all’esperienza personale dei musicisti nel sentirsi spettatori passivi della stessa. L’ultimo lavoro degli oceanici è dunque un album estremamente profondo, una conflagrazione alla ricerca di un melodismo atipico, che ci riconsegna l’ultimo stadio dell’evoluzione di una delle band più talentuose della musica estrema.