Sapere quali sono i dischi migliori del 2020 è impossibile

Sapere quali sono i dischi migliori del 2020 è impossibile

Ogni anno, a dicembre, il buon metallaro sente che quel momento si avvicina. Il momento in cui tutte le ore spese ad ascoltare musica di merda acquistano un senso, in cui diventa legittimo bullarsi con gli amici (sia quelli genuinamente interessati che quelli cui non frega un cazzo) di quanto è stato appreso e scoperto negli ultimi dodici mesi, il momento in cui partono discussioni infinite su quale disco abbia meritato, quale no, e quale avrebbe meritato se. Il momento dei listoni di fine anno.

Da buona webzine, nei nostri undici anni passati ad ascoltare album atroci con indefesso autolesionismo non ci siamo mai sottratti alla compilazione della fantomatica lista delle uscite migliori dell’anno, e anzi, l’anno scorso, per celebrare la conclusione del decennio, ne abbiamo pubblicate addirittura sei diverse, che stanno qui. La ragione per cui, dopo tanti anni, abbiamo modificato il nostro format e l’abbiamo moltiplicato come Gesù coi pani e i pesci è perché ci sembrava che un unico elenco non potesse neanche lontanamente esaurire tutti i dischi meritevoli che abbiamo incrociato sul nostro cammino nei dodici mesi precedenti, figuriamoci in dieci anni. Ora che il momento si avvicina un’altra volta e che dobbiamo riordinare le idee su album e band del 2020, ci troviamo nuovamente impegolati e non sappiamo da che parte cominciare. Questo non soltanto perché a parte rarissimi casi abbiamo ascoltato tutti cose profondamente diverse l’uno dall’altro (più che normale e sacrosanto), ma anche e soprattutto perché nonostante la passione, nonostante le ore spese ad ascoltare musica, nonostante le recensioni, nonostante tutto, non abbiamo ascoltato che una piccola goccia nello sconfinato mare di produzioni pubblicate quest’anno.

In diverse occasioni negli ultimi mesi mi sono ripromesso di ascoltare questo o quel disco sulla base di consigli altrui, articoli trovati online e quant’altro, ma arrivato a dicembre mi sono accorto di non essere riuscito nel modo più assoluto a stare al passo, nemmeno con quel novero di band ed etichette che seguo più da vicino, tutto sommato esiguo rispetto al totale di produzioni disponibili. Questa consapevolezza mi ha portato ad alcune riflessioni, motivo per cui sto scrivendo tutto questo.

Prima di tutto, ormai un album è come il latte fresco: o lo ascolti entro tre giorni o diventa vecchio e lo devi buttare. La shelf life di un disco è più breve di quella delle buste di insalata già lavata al supermercato, quella che non sa di niente e se la apri con un giorno di ritardo puzza pure di plastica umida mista terriccio di bosco norvegese. È incredibile pensare alla velocità con cui l’attualità di un lavoro che all’artista è costato (di solito) anni di impegno, sudori e fatiche venga fagocitata dai ritmi contemporanei. Io per primo mi sono accorto di come un album ascoltato a gennaio, che mi ha colpito, mi è piaciuto e mi ha lasciato qualcosa, a volte non torni mai più in cuffia o nel mio giradischi per anni, perché semplicemente ho altro da ascoltare. Aggiungendo a questo la tristissima situazione dell’industria musicale, con sempre meno appassionati e sempre meno gente che la musica la compra, le etichette finiscono per fare di quasi tutti i propri titoli tirature risibili, da qualche centinaio di copie.

A cascata, se un album è valido e non lo ascolti entro le prime settimane dalla sua uscita, tu povero metallaro dedito alla causa rischi di non poterlo neanche più comprare, perché le 111 copie in vinile blu elettrico con filamenti dorati alla mozzarella di bufala sono finite due giorni dopo la data di uscita e ora su Discogs qualche imbecille collezionista vuole già provare a rifilartelo a 80€ più spedizioni dall’oblast’ di Novosibirsk. Arrivato a questo punto, non ti resta che aspettare e sperare che oltre a te ci siano altri metallari in cerca del disco, così che entro due o tre anni l’etichetta decida di stampare altre 111 copie in vinile dorato con filamenti blu elettrico al pistacchio. Nel frattempo però saranno usciti dieci o ventimila nuovi album, e ti sarai già scordato di perché quella volta stavi trattando con uno di Novosibirsk su Discogs.

E quindi cerchi di stare al passo, di ascoltare tutto, di metabolizzare un quantitativo enorme di musica alla velocità della luce, finendo per rendere il tuo passatempo preferito una folle corsa contro il tempo per riuscire ad ascoltare tutti i dischi di oggi prima che escano i dischi di domani. Si arriva così a un nodo cruciale: quanti album escono ogni anno? Ci sono due risposte a questa domanda, una breve e una più lunga e articolata. Partiamo da quella breve: decisamente troppi. La risposta più lunga e articolata invece richiede qualche dato e considerazione ulteriore, su tutte il fatto che nel 2020 registrare musica sia un processo piuttosto semplice e alla portata di tutti. Questo ovviamente comporta che chiunque sappia tenere in mano uno strumento possa prodigarsi nella realizzazione di un album (un EP, un demo o qualsiasi altro formato), e che il mercato venga inondato di pubblicazioni. Questo discorso è ovviamente valido in tutti i generi musicali, ma tanto per fare un discorso ristretto al solo metal, sono andato a recuperare un po’ di numeri sul sempre affidabile Metal Archives. Il database del sito riporta che nel 1990 uscirono la bellezza di 586 album in studio. Quindici anni dopo, nel 2005, le cifre furono ben diverse: 4158. Avanti veloce fino ai giorni nostri: nel 2019 gli album pubblicati sono stati 8244, e il 2020, nonostante il covid e tutto ciò che al virus ha fatto seguito, al momento in cui scrivo queste righe (non è ancora finito novembre) è a quota 7769, e 42 sono stati i full-length pubblicati soltanto il primo di gennaio.


A lato di questi numeri vale la pena di accennare al fatto che, mentre questa offerta cresceva continuamente, non è cresciuta la domanda, anzi: i metallari continuano ad essere pochi, ma iniziano anche ad essere tendenzialmente vecchi, perché di adolescenti infoiati per il death e il black e il doom ce n’è sempre meno, e le anagrafiche di chi acquista dai mailorder estremi online contemplano ben pochi nati dopo il 2000. Le ragioni sono tante, spesso ben più ampie del metal stesso, ed è proprio la musica a non essere più una passione così radicata nelle nuove generazioni come poteva esserlo fino a solo venti o trent’anni fa, perché oggi fruita in modo totalmente diverso quando non proprio soppiantata da altri interessi (un punto, questo, su cui si potrebbe discutere per ore). Il risultato di fondo è lo stesso: tutte queste band suonano per se stesse o poco più. Ma sto divagando.

Tornando al punto originale: anche riconoscendo che la gran parte delle cose che vengono rilasciate nel mondo metal sia totale monnezza (perché è così) e considerando che le pubblicazioni meritevoli non siano più del 10% del totale, significa che ogni anno abbiamo qualcosa come ottocento dischi da ascoltare che potrebbero rivelarsi almeno validi o interessanti. Ottocento. Dischi. All’anno. Più di due dischi nuovi ogni giorno, limitandosi ad una pubblicazione su dieci e buttando nel cesso in partenza le altre nove. Bellissimo, incredibile, affascinante, avere così tanta scelta è segnale di un sacco di cose belle, dice molto sulla vitalità dell’underground, di quanto i metallari siano appassionati di ciò che fanno, eccetera. Ma tutto questo è anche terribilmente dispersivo e frammentario, e spesso, troppo spesso, l’ascolto di un album è assolutamente privo di qualsiasi incisività. Ascolti, metti un voto su Rateyourmusic, salvi su Spotify, magari ti compri addirittura il cd o il vinile, e poi passi ad altro, perché è già uscito qualcosa di nuovo.

Qualche anno fa Angry Metal Guy lamentava la lunghezza eccessiva degli album, che senza arrivare agli eccessi degli Iron Maiden di The Book Of Souls ormai necessitano spesso di un doppio vinile per essere stampati, perché i musicisti non sono più in grado di fare editing e di frenare la propria diarrea compositiva. Alla luce delle impennate nei numeri delle uscite degli ultimi anni, mi sento di dire che il metallaro medio non solo deve accorciare gli album, ma potrebbe proprio pubblicarne qualcuno in meno, perché sono abbastanza certo che se anziché far uscire due dischi in meno di un anno i Gråt Strigoi ne avessero pubblicato uno solo con le idee migliori di entrambi ne avrebbero giovato tutti, soprattutto i Gråt Strigoi. Lo stesso vale per i Lifeless, o Despondent Moon, e tutto quel 90% di monnezza sparsa di cui poco sopra.

D’altronde così va il mondo dell’underground oggi, per certi versi meglio e per certi versi peggio di come andava nel 2005 o nel 1990. Io so solo che nei listoni di fine anno a ‘sto punto ancora non so che cazzo infilarci.