Dieci album per immergersi nelle profondità del Male
Nonostante ormai la scienza ci abbia fornito mille risposte sulle acque terrestri e sui misteri che circondano le forme di vita che le popolano, a ben pensarci l’elemento liquido, soprattutto nella sua forma marittima e oceanica, ha sempre costituito una fonte di ispirazione assai prolifica per ogni forma di espressione artistica, fra scrittori, poeti, pittori e musicisti. Non c’è da stupirsi, quindi, se il mondo marittimo e oceanico è arrivato a esercitare un’attrazione magnetica anche all’interno della Musica del Male; questo non vale solo per i gruppi che si sono ispirati a opere letterarie sull’argomento (ad esempio i Sulphur Aeon, che alla tematica marittima associano quella lovecraftiana), ma anche per quelli che hanno voluto esplorare le masse acquatiche come habitat naturale, percorso da varie creature che non fanno altro che aumentare l’alone misterioso dei mari: è questo il caso di Drown, che ci ha recentemente affascinati con il suo Subaqueous.
L’abbondanza di musicisti che hanno scelto di immergersi in questo mondo salmastro è davvero notevole e devo confessare che fare una cernita di titoli ha innescato dibattiti interiori feroci come il combattimento fra un’orca e una foca leopardo (una tra le specie di foca più grandi del pianeta, che vive in Antartide). Tuttavia, i dischi citati in questo articolo sono accomunati da una caratteristica particolare: una carica ipnotica che avvolge l’ascoltatore con una presa più salda dei tentacoli di un kraken e lo trascina ben oltre il livello dell’acqua.
The Ocean
Pelagial
(Metal Blade Records, 2013)
Non si può non aprire questa carrellata oceanica con Pelagial, il che, fra l’altro, può costituire un ottimo pretesto per rispolverare la discografia dei The Ocean in vista dell’uscita imminente del prossimo disco. Fondata nel 2000 dal chitarrista Robin Staps, la band tedesca ha vissuto una serie consistente di cambi di line-up e aggiustamenti, anche in virtù del fatto che si è sempre avvalsa di un certo numero di musicisti come supporto durante i live (ragione per cui è conosciuta anche come The Ocean Collective). Una delle caratteristiche più interessanti dei The Ocean è che ciascun album si concentra su un aspetto particolare delle scienze fisiche: il concept di Pelagial è legato proprio all’esplorazione dei mari, dallo strato più superficiale (“Epipelagic”) alle profondità più oscure degli abissi, descritte dall’ultima traccia, “Benthic”. Se inizialmente si solcano le onde del post-rock e post-metal nella declinazione più soave, man mano che si scende di livello nello scandagliare i fondali anche le sonorità si fanno sempre più pesanti e opprimenti, lasciando l’ascoltatore senza fiato. A mio avviso, uno degli album migliori che i The Ocean abbiano sfornato nel corso della loro carriera, nonché una delle raffigurazioni più suggestive del mondo sottomarino.
Giant Squid
The Ichthyologist
(Translation Loss Records, 2009)
Che dire, invece, delle creature che popolano i fondali sopracitati? A fornire qualche spiegazione ci pensano i Giant Squid, che già dal nome lasciano presagire come la loro musica sia una gigantesca seppia sonora i cui tentacoli si dimenano in moltissime direzioni, dallo stoner all’indie, toccando il post-rock e le atmosfere sognanti e quasi jazz generate dal sassofono. The Ichthyologist non è un titolo affibbiato a casaccio: l’opera è davvero un compendio di ittiologia, nel quale ogni traccia è dedicata a una creatura marina e ne porta addirittura il nome scientifico. Tuttavia, i contenuti scientifici sono filtrati da una prospettiva particolare: infatti il concept dell’album narra di un individuo che si trova in balia del mare e, per sopravvivere, è costretto a modificare la sua esistenza, cercando di adottare caratteristiche proprie delle creature marine. Per questo motivo, all’interno del disco troviamo pezzi come la pseudo-ballata “Emerald Bay (Prionace Glauca)” dedicata alla verdesca (o squalo azzurro), oppure “Blue Linckia (Linckia Laevigata)” che si riferisce a una particolare specie di stella marina. The Ichthyologist è una vivida esplorazione delle forme di vita che popolano i mari che non necessita di equipaggiamento da sub.
Ahab
The Call Of The Wretched Sea
(Napalm Records, 2006)
La presenza degli Ahab all’interno di questa lista susciterà un effetto sorpresa quasi quanto scoprire che l’acqua è bagnata, però sarebbe stato eticamente impossibile non riservare qualche riga a The Call Of The Wretched Sea, che nel lontano 2006 ha rappresentato il debutto ufficiale dei balenieri più famosi del doom. L’album spalanca le porte a una realtà oceanica decisamente sinistra e soffocante, ricreata da un glaciale funeral doom, attraverso il quale Daniel Droste e soci raccontano l’epopea del Capitano Achab e della sua caccia ossessiva al sanguinario capodoglio Moby Dick, che troneggia anche sulla copertina del disco, realizzata dalla talentuosa artista Kinuko Y. Craft. The Call Of The Wretched Sea esercita un’attrazione magnetica nel momento esatto in cui si inizia l’ascolto, scorrendo lento e mastodontico come farebbe un grosso cetaceo che fende lentamente le masse d’acqua, rendendo la narrazione molto vivida anche grazie ai momenti più atmosferici che fanno accapponare la pelle ogni volta. A mio parere, pezzi come “Below The Sun” e “The Hunt” dovrebbero avere un posto riservato in un’ipotetica Hall Of Fame del doom; se a questo aggiungiamo anche il fatto che la maggior parte dei testi è tratta direttamente dall’opera di Melville, sottolineando la fedeltà alla materia trattata, appare evidente come The Call Of The Wretched Sea possa essere considerato un vero e proprio capolavoro.
Mastodon
Leviathan
(Relapse Records, 2004)
Gli Ahab non sono stati gli unici ad affidare a Moby Dick le sorti della prima fase della loro carriera; il capodoglio più famoso della letteratura, infatti, emerge trionfale dall’oceano in agitazione anche sulla copertina di Leviathan, il secondo full length dei Mastodon. Se teniamo in considerazione ciò che la band statunitense è riuscita a creare in seguito (giusto per fare un esempio, Crack The Skye su tutti), Leviathan è un disco che suona comprensibilmente più acerbo, soprattutto in termini di capacità di fondere i vari elementi (sludge, hard rock e una giusta dose di prog) in maniera armonica; tuttavia dimostra che già nel 2004 i Mastodon possedevano il mordente necessario — ma senza strafare — per prendere il sopravvento sull’ascoltatore e creare una colonna sonora piacevole per i momenti in cui si cerca di annegare i propri demoni.
Dreadnought
A Wake In Sacred Waves
(Sailor Records, 2017)
I Dreadnought arrivano dal Colorado e si sono accaparrati come moniker il nome di una nave da guerra utilizzata dalla Marina Reale britannica durante la Prima Guerra Mondiale. Nonostante l’appellativo bellicoso, questo quartetto è fortemente influenzato dalla Natura, al punto da dedicare ogni album a uno dei suoi elementi. Ecco, dunque, che A Wake In Sacred Waves — chi l’avrebbe mai detto? — narra lo stretto rapporto che lega la vita stessa all’oceano (e all’acqua in generale), trasportandoci in una dimensione onirica e ovattata. Per compiere questo viaggio liquido, i Dreadnought propongono un sound che mescola in maniera incurante degli schemi una varietà di generi non indifferente: post-metal malinconico e suggestioni jazz lasciano spazio a passaggi decisamente più burrascosi, all’insegna del riffing tendente al black metal, costellato dallo scream rauco di Kelly Schilling, voce del gruppo insieme a Lauren Vieira. Questi affabili americani affermano di essere un punto di incontro tra Joni Mitchell e i Wolves In The Throne Room, ma aggiungerei che a questo rendez-vous di influenze partecipano senza dubbio anche i Messa e gli Opeth da Ghost Reveries in su. Insomma, i Dreadnought non parleranno direttamente di cetacei o altre creature marine, ma ascoltarli equivale sicuramente a un tuffo in fondali semi-sconosciuti.
Deluge
Æther
(Les Acteurs De L’Ombre Productions, 2015)
Più che un oceano, quello tratteggiato dai francesi Deluge è una specie di tsunami post-hardcore che travolge una malinconica scogliera sferzata da un gelido vento black metal atmosferico, di quelli proprio glaciali. Æther porta sulle spalle cinque anni di vita, ma a ogni ascolto rivela caratteristiche nuove e affascinanti, testimoniando appieno la sua validità, dietro la quale c’è lo zampino di due personaggi come Cristophe Edrich e Joey Sturgis (che hanno lavorato rispettivamente con The Ocean e Born Of Osiris, per citarne un paio). Il disco è imperniato sul rincorrersi e cozzare tra loro di un post-hardcore viscerale e maligno e quelle sonorità atmosferiche e un po’ malinconiche che fanno spesso venire in mente Les Discrets, Alcest e compagnia triste (non a caso, Neige è uno degli ospiti del disco, su “Melas/Khole”, che dava il titolo anche alla precedente demo del 2014); in questo modo, i Deluge creano dei veri e propri canti di disperazione che solo un naufrago perso tra le onde potrebbe intonare. Per averne un assaggio infinitesimale e al tempo stesso molto eloquente basta ascoltare “Vide”, e il desiderio di solcare le onde inferocite a bordo di una bagnarola sarà quasi istantaneo.
Drautran
Throne Of The Depths
(Lupus Lounge, 2007)
Battuto dal grigio Mar Baltico e sferzato dai freddi venti del Nord, lo Schleswig-Holstein è lo stato federato più settentrionale della Germania; proprio questa terra dal clima non esattamente godibile e ospitale (per essere precisi la città di Kiel) è il luogo d’origine dei Drautran, che nel 2007 hanno esordito con un concentrato gelido e salmastro di black metal abissale intitolato Throne Of The Depths, al momento (purtroppo) il loro primo e unico full length. Percorrendo il sentiero glaciale tracciato dai primi Emperor ed Enslaved, i Drautran propongono nove tracce dal DNA profondamente radicato nella tradizione (anche concettuale) nordica, che plasmano però un gelo più che altro esistenziale e universale, trascinando in profondità da cui è impossibile riemergere. Tra i vari pregi di quest’opera, è da notare come la band alterni testi in tedesco, norvegese e inglese (la lingua franca musicale per eccellenza), come se volesse ribadire da un lato le origini sanguigne e musicali, dall’altro il fatto che l’abisso senza fine attanaglia chiunque; non a caso, uno dei momenti più epici è “Dusk Of The Fimbulwinter”, che si conclude con una citazione dal film Il Posto Delle Fragole (Smultronstället) di Ingmar Bergman.
Eternal Storm
Come The Tide
(Transcending Obscurity Records, 2019)
Come si vede dal lido sulfureo raffigurato sulla copertina di Come The Tide, i madrileni Eternal Storm non temono le onde e le tempeste, nemmeno quando le perturbazioni di cui si parla sono anche interiori, oltre che meteorologiche. Il quartetto spagnolo suona un death melodico che fa pensare a una versione cupa e atmosferica dei primi Dark Tranquillity, a cui si aggiungono dei momenti più melodici e rarefatti che portano alla mente gli Anathema più recenti e alcune soluzioni che risultano piuttosto creative all’interno di un disco che sulla carta dovrebbe essere prettamente death; ne è un esempio il sassofono di “Through The Wall Of Light Pt. II”. Non mancano inoltre alcune citazioni letterarie, come “Of Winter And Treason” che trae ispirazione dal romanzo La Mano Sinistra Delle Tenebre di Ursula K. Le Guin. In generale, possiamo dire che Come The Tide è un album ricco di un pathos mai stucchevole o eccessivo; al contrario, gli Eternal Storm sanno come bilanciare la furia e la calma, proprio come fanno le tempeste che si abbattono sui litorali.
Legend Of The Seagullmen
Legend Of The Seagullmen
(Dine Alone Records, 2018)
Cosa succede quando Danny Carey dei Tool e Jimmy Hayward (regista e sceneggiatore di titoli come Jonah Hex e il film d’animazione Free Birds) si incontrano a una grigliata? Chiamano a raccolta altri soggetti quali Brent Hinds dei Mastodon e Peter Griffin degli Zappa Meets Zappa e fondano una band battezzata Legend Of The Seagullmen. I suddetti uomini-gabbiano, quindi, provvedono a scrivere un disco che parla di epici naufragi e seppie mutanti, con un rock’n’roll psichedelico che potrebbe non dispiacere a Tarantino, se mai decidesse di girare un film con ambientazione nautica. Contrariamente a quanto ci si potrebbe aspettare da una line-up del genere, non serve a nulla attendere virtuosismi o complicazioni: l’omonimo album firmato Legend Of The Seagullmen garantisce una vivace e variopinta rappresentazione di un mondo nautico ai limiti del fantascientifico e per quanto non suoni particolarmente ruvido o pesante rivela la giusta scorrevolezza, garantendo di trascorrere una manciata di minuti (nemmeno quaranta) in maniera godereccia, divertendosi e accantonando qualsiasi pretesa cervellotica.
High Tide
Sea Shanties
(Liberty Records, 1969)
Dopo aver percorso in profondità le fredde acque del Male, per chiudere in bellezza è il caso di fare un tuffo nel passato (pun intended), tornando a galla nientemeno che nel 1969, anno in cui gli High Tide hanno pubblicato Sea Shanties, opera che prende il nome dai canti intonati dai marinai durante la navigazione. A dispetto del titolo, non dobbiamo immaginarci divagazioni piratesche da precursori degli Alestorm; davanti a noi, infatti, si allarga a vista d’occhio una distesa di hard rock dalle sfumature prog ruvido e guizzante, che procede lungo una rotta decisamente tendente all’heavy arcaico, un po’ come se i Black Sabbath avessero deciso di fare una puntatina all’isola di Tortuga e di sperperare fior di quattrini bevendo rum e giocando a carte con Davy Jones in persona. A questo aggiungiamo un’ulteriore nota di merito, data dal fatto che gli High Tide sono stati tra i primi gruppi a utilizzare il violino elettrico all’interno di un album assimilabile al proto-metal. Oggi come allora, un disco accattivante, da ascoltare mentre ci si avvia verso la propria taverna di fiducia.