Meteore, certezze, culto: 9 album per (ri)scoprire il black metal sinfonico
Se è vero che ultimamente il death metal sta dando nuove e interessanti soddisfazioni, il black metal sta vivendo un po’ di rendita e di ritorni di fiamma, con stili o filoni che ciclicamente si ripresentano alla porta. Il black melodico, soprattutto di stampo svedese e soprattutto per mano di Avantgarde Music, sta tornando con prepotenza: basti citare i vari Moonlight Sorcery, Escumergamënt, Ancient Wisdom, o versioni più raw come i Bad Manor (comunque meno canonici) e The Gloomy Radiance Of The Moon.
Ma il black melodico, se non è fratello, è perlomeno cugino di quello sinfonico. Un ramo che non nasce in Norvegia ma che soprattutto nel paese scandinavo trova linfa ed energia per diventare un vero e proprio fenomeno. Questo articolo prende come riferimento il cosiddetto periodo d’oro del genere, a cavallo tra la fine degli anni ’90 e i primi 2000, con una puntata alle origini e una al presente. Come al solito non c’è l’intenzione di essere esaustivi, per ragioni di spazio e di tempo, ma di dare una panoramica che tenga conto di più peculiarità possibili, anche all’interno di un sottogenere abbastanza normato.
Come vedremo ci sono dei temi ricorrenti, il primo e più ovvio è il fantasy, argomento propulsivo anche del power sinfonico: sword and sorcery, e quindi eroi più o meno muscolati capaci di imprese epiche, ma pure elfi e signori malvagi, a quanto pare, fungono da ispirazione per scrivere musica che tende all’esagerazione, carica e, talvolta, pacchiana. Ci sono però anche altri casi, in cui tematiche legate all’occulto, al male e in generale all’immaginario più tipicamente black metal ben si inseriscono in un discorso musicale magniloquente.
Nove album, come gli anelli toccati in sorte agli uomini mortali, perché questo siamo. Nove album non necessariamente bellissimi o fondamentali, come sarebbe scontato pensare, perché là fuori c’è anche tanta cacca che contribuisce a formare la storiografia della musica che ascoltiamo ed è giusto parlarne.
Bal-Sagoth – Starfire Burning Upon The Ice-Veiled Throne Of Ultima Thule
(Cacophonous Records, 1996)
Confesso, non sono mai stato un estimatore dei Bal-Sagoth. La loro idea di black metal sinfonico non collima con la mia, ma prescindendo dai miei gusti la loro rilevanza nel genere è fuori discussione. Va detto che, nel corso di una carriera non lunghissima (sei album tra il 1995 e il 2006), la loro formula non è cambiata granché, così come lo zoccolo di fan duri e puri che li ha accompagnati finché sono stati in attività.
Gobelini, cobboldi, elfi, eoni, fate, tastiere e tastierine, batteria di gomma e prossima all’effetto frullatore. Sicuramente non ce li ricorderemo per la loro sobrietà, ma per la lunghezza dei titoli magari sì, e questo Starfire Burning Upon The Ice-Veiled Throne Of Ultima Thule ne ha di eterni. Titoli che sono indicativi della tendenza alla narrazione dei Bal-Sagoth, saldamente in mano a Byron Roberts, fondatore del gruppo nonché autore dei testi e, in ambito extra-musicale, anche di romanzi.
Una dimensione narrativa che si riflette non solo nei testi, ma investe con prepotenza anche la musica dei britannici, estremamente colorata e melodica. Un approccio al genere non distante dal power metal, non solo per l’esuberanza delle tastiere, ma anche e soprattutto per le cavalcate a doppia cassa spianata: “The Splendour Of A Thousand Swords Gleaming Beneath The Blazon Of The Hyperborean Empire” (minchia) potrebbe uscire dall’album di una qualsiasi band power di scuola Limb Schnoor. A dispetto di una musica assemblata in maniera quasi meccanica e talvolta intercambiabile, però, i Bal-Sagoth potevano godere dei testi immaginifici di Byron e del suo peculiare stile vocale: uno scream che non si compie mai del tutto, che a volte diventa growl e spesso diventa una sorta di parlato demoniaco.
Un album perfetto per movimentare una serata a base di ruolismo hardcore, buono anche per ispirare un dungeon master a corto di idee.
Master’s Hammer – Jilemnický Okultista
(Autoprodotto, 1992)
Un concept album pensato come un’operetta in tre atti, cantato in lingua ceca e con personaggi dai nomi pazzeschi: Clement Bombastus von Satrapold e Kalamaria su tutti. Le premesse perché Jilemnický Okultista sia un disco della madonna ci sono tutte, ma i Master’s Hammer aggiungono nuovi livelli di difficoltà e nel 1992 decidono che si può dare più spazio agli arrangiamenti sinfonici, che già avevano fatto timide e rarefatte apparizioni sul precedente Ritual.
Il risultato è, appunto, un album meraviglioso e per certi versi rivoluzionario. I cechi giocano con l’heavy metal maligno di King Diamond e lo modellano in qualcosa di ancora più diabolico fino a trasformarlo, di fatto, in black metal. A questa miscela aggiungono una dose coraggiosa di tastiere, sintetizzatori e timpani (!), oltre alla caratteristica voce malaticcia di František “Franta” Štorm, che condisce il tutto tossendo spesso e volentieri.
“Ouverture” ci porta dritti nel 1913 a Jilemnice, Boemia, insieme al protagonista Atrament, un occultista interessato ad approfondire gli studi nella cittadina controllata dal capitano Satrapold e abitata, tra gli altri, dalla bella Kalamaria. Un po’ operetta ma anche un po’ feuilleton, la storia di Jilemnický Okultista ruota attorno all’innamoramento di Atrament per Kalamaria, e al rapimento di lei da parte del presunto Satrapold, che solo poi si scoprirà essere stato imprigionato dal suo assistente Poebeldorf che ne ha assunto l’identità.
Ingarbugliamenti letterari a parte, la musica dei Master’s Hammer è coinvolgente tanto se non più delle vicende raccontate da Franta. Una formula che non solo non è morta con loro ma che tutt’ora funziona e raccoglie consensi (citofonare Bad Manor), fatta di dinamismo e arrangiamenti apparentemente stramboidi. Ma poi, la copertina l’avete vista?
Sirius – Aeons Of Magick
(Nocturnal Art Productions, 2000)
Dei norvegesi mancati prima, dei norvegesi quasi di fatto poi, la storia dei Sirius è ai limiti del colonialismo musicale. Formatisi a Lisbona, la loro inclinazione per il black sinfonico ha fatto sì che venissero inquadrati dal faro della Nocturnal Art Productions, l’etichetta fondata da Samoth nel 1994. Entrambi i loro album, quindi, sono passati tra le mani dell’illustre biondo signore e del suo entourage.
Aeons Of Magick, il primo dei due, è stato prodotto da Samoth in persona, con l’ingegneria di Thorbjørn Akkerhaugen e la masterizzazione di Tom Kvålsvall. Manco a farlo apposta suona come un disco norvegese in tutto e per tutto, non c’è spazio, infatti, per inflessioni lusitane né nel cantato né nella batteria. Autore della sontuosa prova dietro le pelli è Vukodlak (al secolo Daniel Cardoso), un tipino che non ha nulla da invidiare a gente come Trym o Hellhammer, e che molti anni dopo è finito a suonare con gli Anathema e a condividere un progetto estemporaneo con Garm (Head Control System).
Tastieroni e orchestrazioni belle spinte sono la base su cui i Sirius fondano la loro musica. Aeons Of Magick è densissimo di soluzioni elettroniche volte a imitare questo o quello strumento classico, e si pone al limite, senza a mio avviso superarlo mai per davvero, del pacchiano. Troviamo ben due pezzi di soli synth, “The Stargate” e la conclusiva “Beyond The Scarlet Horizon”, che ricordano da vicino “Opus A Satana”, la versione orchestrale del più noto “Inno…”. È presente però anche molto black metal di scuola Imperiale, tanto che si fatica a individuare dove inizi e dove finisca la personalità dei portoghesi.
Il risultato è, ovviamente, derivativo, ma di un derivativo convincente. In primis perché i Sirius hanno una padronanza tecnica non comune, in secundis perché qualche colpo lo mettono a segno: su tutti “Sidereal Mirror” che è una bombetta e come brano d’apertura funziona molto bene, e poi l’attacco in medias res di “Aeons Of Magick” suona come lo Snowpiercer che ti arriva sui denti.
The Gloomy Radiance Of The Moon – When The Nameless Stars Serenade Your Ravenous Usurpation Of The Blackness
(New Era Productions, 2022)
Quando ti chiedono che canzone stai ascoltando con le cuffie ma il player non scorre e non puoi leggerne il titolo, perché anche il solo nome della band è lungo due pagine. Problemi che possono capitare a noi metallari, almeno finché c’è gente come l’olandese J.M.K.P. a piede libero. È lui, infatti, l’unica mente dietro The Gloomy Radiance Of The Moon, recentissima leva del black sinfonico, stavolta declinato in chiave raw.
L’orizzonte di riferimento è sempre la Norvegia degli anni ’90, solo con una cura dei suoni non troppo dissimile da quella delle demo di quei tempi e con una drum machine essenziale ma equilibrata. Due aggettivi che si potrebbero applicare a tutto When The Nameless Stars Serenade Your Ravenous Usurpation Of The Blackness (minchia), un lavoretto prêt-à-écouter facile facile, che si gioca le sue carte in maniera impeccabile, sfruttando un po’ quel revivalismo per il black melodico che sta facendo tornare a galla una realtà musicale finita in una nicchia per passatisti.
Non aspettatevi arrangiamenti usciti dalla penna di Vivaldi o la qualità degli Emperor, le trovate orchestrali di TGROTM sono assai più basic e hanno cose in comune perfino col black atmosferico e ambientoso in salsa Vinterriket–Paysage D’Hiver. Un minutaggio più ristretto, però, unito a una forma canzone più agile e catchy rende quest’album un piacevole excursus tra conifere innevate e lune non piene ma pienissime, nonché una delle uscite più divertenti di questo 2022, almeno per chi scrive.
Nazgûl – De Expugnatione Elfmuth
(Elegy Music, 2002)
Titoli e testi in latino ma a tema fantasy, sprazzi di clavicembalo e neoclassicismi sparsi, black metal epicheggiante e, in mezzo a tutto questo, la voce insensata di Zakrathor. Siccome noi italiani non siamo secondi a nessuno e possiamo vantare una storia musicale da far spostare chicchessia, i Nazgûl decidono di comporre e pubblicare il bellissimo De Expugnatione Elfmuth.
Se volete atmosfera a vagoni, tastieroni e trombette, ma anche una voce che sembra arrivare dalle segrete di qualche fortezza piena di orchi, questo è il disco che fa per voi. Dopo un “Proemium” sinfonico arriva “Hult-Garth (Qui Inferorum Animas Excitat)”, ed è subito negromanzia, ma di quella brutta davvero, volta ad annientare elfi e umani in egual misura. De Expugnatione Elfmuth è un continuo susseguirsi di sferzate epiche e intermezzi orchestrali non lontani dalla dungeon synth e dello stile dei Summoning versione asciutta.
Il bello della musica dei Nazgûl è che, nonostante la magniloquenza a cui ambiscono e alle atmosfere fiabesche che sono capaci di evocare, rimane maligna, di una cattiveria inestirpabile. Ascoltare “Impetus Quartae Lunae Novae” o ancora meglio “Legio Draconorum Orkian”, che ha i flautini, sì, ma si porta appresso tutta la devastazione del caso.
Una carriera breve e circoscritta, la loro, che a parte una demo e questo gioiellino nero non ha ancora saputo regalarci altro. Dico ancora perché, in teoria, i Nazgûl sono tornati attivi nel 2019, ma un degno seguito di De Expugnatione Elfmuth tarda ad arrivare. Peccato, perché visto come si muove il mercato e come tornano le mode, anche tra metallari, la proposta dei siciliani potrebbe funzionare.
Apotheosis – Farthest From The Sun
(Nocturnal Art Productions, 2002)
Se escludiamo Choronzon e Wynjara (entrambi floridiani), Apotheosis è il nome più a sud del mondo tra quelli finiti nel roster della Nocturnal Art. La one man band maltese era un dominio di tal Sauron, personaggio meteora che, a giudicare da quello che posta su Facebook, è diventato un complottista contro il fascismo degli anti-fascisti in stile Fusaro.
Farthest From The Sun, più che la realtà un sogno, considerata la latitudine, è un disco abbastanza strambo e tra quelli di questa lista sicuramente il più eterogeneo. A livello di cambi di passo, svolte improvvise, oltre che di sintetizzatori plasticosi siamo dalle parti dei Bal-Sagoth. Ma mentre i britannici strizzavano l’occhio al power metal, Apotheosis volge lo sguardo al thrash e alle sue trame chitarristiche.
Dopo un’intro orchestrale di ben sei minuti e rotti sbuca il black sinfonico di “The Maimed God”, brano che, insieme al successivo, aveva già fatto la sua comparsa sulla demo Promo 97 e che evidentemente aveva stuzzicato l’appetito di Samoth. Suonare tipo gli Emperor ma con una batteria programmata e degli stacchi di synth da videogioco anni ’90: missione compiuta. Poi arriva “Raise The Dragon Banner”, e stiamo ascoltando un disco thrash in mezzo al quale capitano flautini e pianoforte, per un effetto straniante che di sicuro non aiuta a capire dove Sauron voglia andare a parare.
La chiusura affidata ai sedici minuti della strumentale “Kingdom” non chiarisce alcun dubbio e ci catapulta in un affresco impressionista, un po’ romantico, con schizzi di neoclassicismo qua e là. Molte idee e confuse, proprio come le pubblicazioni post-2000 della Nocturnal Art.
Obtained Enslavement – Witchcraft
(Wounded Love Records, 1997)
Un caso relativamente strano quello dei norvegesi Obtained Enslavement. Se escludiamo Pest e l’aggiunta di Morrigan, rispettivamente attivi con Gorgoroth e Aeturnus, nessun altro di loro si è legato ad altri gruppi di quei tempi, ma strano anche perché nell’arco di quattro album la band ha cambiato pelle più volte. Esordiscono nel ‘94 suonando death metal col buonissimo Centuries Of Sorrow e concludono nel 2000 col discreto ma non indimenticabile black melodico di The Shepherd And The Hounds Of Hell. In mezzo la parte che mi interessa, proprio quel Witchcraft uscito nel ’97 per Wounded Love Records, all’epoca una sotto-etichetta di Avantgarde Music.
Parliamo di un lavoro sontuoso, molto lontano dal suo predecessore per spirito e stile. Evidentemente trainato dal fascino poco discreto dei dischi di altri colleghi — su tutti Limbonic Art, Emperor ma anche Satyricon — l’allora quintetto di Stord confeziona un disco articolato, pieno di sfaccettature, perfettamente all’altezza dei signori appena citati ma con un tocco di bestialità in più. A dispetto del genere, infatti, gli Obtained Enslavement manterranno sempre un certo grado di cattiveria non levigata. Quindi nonostante le tastiere, un pianoforte svolazzante e l’uso non così sporadico dei timpani la musica contenuta in Witchcraft suona davvero come una nera stregoneria, che alterna momenti epici come la solenne “From Times In Kingdoms…” a sferzate malvagissime come “Warlock” o “Carnal Lust”.
Withcraft è una gemma da recuperare, come altri titoli Wounded Love finiti nel catalogo della Peaceville, anche per rendersi conto che al di fuori del solito giro c’era un sottobosco bello ricco di male sinfonico.
Odium – The Sad Realm Of The Stars
(Nocturnal Art Productions, 1998)
Ancora Nocturnal Art, ma stavolta siamo in Norvegia per davvero. Considerati i nomi coinvolti, anche a livello di produzione e di artwork (che è opera di Morfeus dei Limbonic Art), ma soprattutto il fatto che resti l’unico album mai partorito dagli Odium, non sorprende che The Sad Realm Of The Stars abbia vissuto sostanzialmente di culto per molti anni, fino alla ristampa targata Blood Music del 2013 poi rinnovata nel 2018.
Un disco NAP che però non suona come una copia degli Emperor e tutto sommato neppure dei Limbonic Art, The Sad Realm Of The Stars risulta bello ancora oggi grazie a una produzione non troppo leccata e a un songwriting che sembra più istintivo che studiato a tavolino. La band di Secthdamon (poi Myrkskog, Zyklon, nonché turnista live per gli Emperor) suona principalmente black metal, e non ha l’ambizione di fondere un’orchestra al gran completo tra scream e blast beat. Il black sinfonico degli Odium è molto più basic, le chitarre giocano un ruolo massiccio e la batteria è anni luce più credibile di quelle diffuse mediamente nel genere, col suo rullante scordato e la compressione limitata alla doppia cassa, pure abbastanza discreta.
I titoli sono quello che sono, e di sicuro non ci ricorderemo del combo norvegese per l’ispirazione tematica, ma tutto il resto gira che è un piacere. Talmente bene che mi risulta difficile segnalare un brano piuttosto che un altro, se non pescando in base ai miei gusti: per cui butto lì “Towards The Forest Horizon”, la title track e “The Brightness Of The Weeping Kingdom”, pezzo perfetto anche per allenarsi sotto la pioggia.
La conclusiva “Riding The Starwinds” è forse l’episodio meno riuscito e più simile alla produzione degli Arcturus dei tempi di Aspera Hiems Symfonia o dei Borknagar di The Olden Domain. In generale, però, The Sad Realm Of The Stars suona sufficientemente personale da meritare di finire in rotazione almeno una, se non più volte, in un anno.
Obsidian Gate – The Nightspectral Voyage
(Skaldic Art Productions, 1999)
Altri figli illegittimi dei Limbonic Art, gli Obsidian Gate hanno avuto il grosso merito di debuttare davvero col miglior materiale che potessero radunare ai tempi, e di farlo in una fase di massima espansione del fenomeno black sinfonico.
The Nightspectral Voyage mantiene le promesse del titolo e si conferma un viaggio micidiale nello spazio profondo, tra costellazioni cangianti e spiritismo rinascimentale. La musica dei tedeschi è importante non solo per la durata di certi brani (arriviamo a diciotto minuti), ma in particolare per la ricercatezza del songwriting e delle roboanti strutture orchestrali: Marco B. e Daniela P. sono entrambi tastieristi di ruolo.
L’album si apre, come altri nel genere, con un antipastino sinfonico più o meno riuscito, ma il bello arriva quasi subito con “When Death Unchains The Spectre” e la sua prepotente iniezione di velocità. A dispetto della lunghezza media, i pezzi del duo di Düsseldorf non annoiano mai e l’ascolto procede senza mezzo sbadiglio. Merito di un’ispirazione irripetibile che, pure sulla lunghissima “The Obsidian Eternity And Anguish”, non perde un colpo e infila pause e sfuriate dove serve. Anche gli episodi più normie come “From The Infinite Forge Of Time” convincono, sebbene piazzati a metà disco. L’unico neo che ho sempre percepito con vago fastidio è la voce di Markus Z., sempre troppo debole e monocromatica per incidere su un lavoro così complesso e ricercato.
Gli Obsidian Gate non sembravano una copia in tutto e per tutto dei maestri norvegesi ma, purtroppo, dopo questo esordio scintillante non hanno saputo ripetersi, forse neppure avvicinarsi a certe vette qualitative. Quasi una meteora in un cielo già abbastanza luminoso, sono stati, tra l’altro, gli unici insieme ai Vindsval a suonare black sinfonico nel roster della Skaldic Art di Vratyas Vakyas.