ARCTURUS - La luce di una stella che esplode (pt. II)

ARCTURUS – La luce di una stella che esplode (pt. II)

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I FINTI SPECCHI

Sempre per citare l’opera dantesca, dobbiamo abbandonare ogni speranza al cospetto di The Sham Mirrors (2002, Ad Astra Enterprises). Dobbiamo, perché trovare un’interpretazione univoca al primo e forse ultimo disco metal (il suo predecessore lo aveva appena sfiorato) che pone al centro della sua speculazione il teatro dell’assurdo — partendo dal pre-surrealista Ubu Re di Alfred Jarry per arrivare al premio nobel Samuel Beckett — è semplicemente impossibile, sarebbe come arrampicarsi sugli specchi; e se poi questi specchi sono pure finti, beh.

Gli Arcturus, ancora inebriati dai fumi dell’assenzio de La Masquerade Infernale, registrano The Sham Mirrors nell’arco di due anni, partorendo un lavoro moderno, ambizioso e definitivamente folle a tutti i livelli; cominciando da quello musicale, che vede scemare le raffinatezze cameristiche in favore di un suono più denso e concentrato, saturo, a tratti: la chitarra di Valle diventa un tutt’uno col basso del nuovo entrato Dag. F. Gravem (Mingay stavolta si limita a fare da comparsa su un solo brano) e, insieme al tappeto di sintetizzatori di Sverd, prende corpo un album massiccio e talvolta impetuoso, in cui la batteria metronomica di Hellhammer funge quasi da ibrido umano-macchina. In questo contesto cibernetico i testi di Garm (qui sotto lo pseudonimo Trickster G. Rex) assumono la forma che d’ora in avanti caratterizzerà il suo stile di scrittura, improntato su un flusso di coscienza disseminato di paradossi e nonsense che risuona del già citato surrealismo, ma è pervaso soprattutto dal tardo modernismo tragicomico beckettiano.

Il disco che risulta da questa miscela di metallo e cultura — in antitesi solo all’apparenza — non si limita ad andare un po’ oltre i confini dell’immediatezza, è un vero e proprio salto nel buio, pur essendo la scena estrema nel pieno del suo vigore progressista: basti pensare che il duo norvegese Solefald aveva già pubblicato tre album in cui letteratura d’avanguardia, filosofia, black metal, jazz e psichedelia si fondevano senza soluzione di continuità.

La forza di The Sham Mirrors è dirompente già a cominciare da “Kinetic” e dal suo falsetto in apertura, dall’effettistica che l’attraversa come una continua interferenza («Welcome / This transmission / From a fallen star») e dalle sue parole che frantumano il tempo e lo spazio: «And if you are listening / Please tell us about the time / Where and when we exist / No more». In “Nightmare Heaven” l’elettronica sgomita e trova ancora più spazio, prima scansando virtuosismi di pianoforte per diventare ballabile, poi abbracciandoli per esplodere in un finale ossessivo che crea un legame con la seguente “Ad Absurdum” — l’alterazione psicofisica può accompagnare solo — e la schizofrenica “Collapse Generation”, il cui ritmo forsennato viene brevemente interrotto dalla voce di Garm, mai così tirata ed eccessiva. E mentre la classicheggiante “Star Crossed” ci riporta alla mente la teatralità de La Masquerade Infernale — qui impregnata di fatalismo lisergico — “Radical Cut”, con protagonista la voce lacerante di Ihsahn (ospite più che d’eccezione), ci mette alla prova con dei giochi di parole al limite del lipogramma (l’ispirazione per Garm in questo caso è Georges Perec, ma col filtro dal poeta canadese Christian Bök): il vizio del fumo viene scomposto, mostrando alla luce, ai limiti dell’atomismo, le sfaccettature di una psiche assuefatta. Le note sghembe di “For To End Yet Again” (il titolo è mutuato da uno dei Fizzles di Samuel Beckett) chiudono il cerchio con un po’ di sano (?) pessimismo, ornato dalla tromba di Mathias Eick (membro degli istrionici Jaga Jazzist fino al 2018) e dai deliri delle tastiere di Sverd, compositore ed esecutore ormai al vertice della maturità.

Gli ultimi versi di quest’altro capolavoro («We lost each other / We slide unnoticeably / In hallucinatory orbit / Around the sun / The black sun / Oh black sun») sembrano anticipare l’uscita dal gruppo di una delle sue colonne: Garm lascerà gli Arcturus nel 2003 per dedicarsi ancora più attivamente agli Ulver, non prima della pubblicazione nel 2002 di un doppio CD per Candlelight Records, che raccoglie Aspera Hiems Symfonia (remixato, rimasterizzato e con alcune sovraincisioni), My Angel, Constellation e due tracce inedite.


SINFONIE DA BARACCONE

L’uscita di Kristoffer Rygg dalla band lascia i fan abbastanza sgomenti e spinge gli Arcturus alla ricerca di una nuova voce, complice la voglia di calcare finalmente i palchi e suonare dal vivo. Øyvind Hægeland, cantante degli Spiral Architect (formazione di prog metal ultratecnico che coinvolge, fra gli altri, Asgeir Mickelson, il batterista dei Borknagar), assume il ruolo di frontman del gruppo dal 2003 al 2005, salvo essere poi rimpiazzato da una vecchia conoscenza: ICS Vortex.

Con la ricomparsa di Vortex, questa volta in pianta stabile e come cantante di ruolo, i ragazzi tornano in studio per registrare un disco che ha il difficilissimo compito di non far rimpiangere l’eccellenza dei suoi predecessori, nonché il timbro vocale e l’apporto artistico di Rygg, figura a dir poco ingombrante. Nel 2005 arriva la firma per la Season Of Mist e nel settembre dello stesso avviene l’uscita di Sideshow Symphonies, sulla cui copertina campeggiano due figure mascherate che si fondono in un unico corpo, nonché un elemento del diagramma presente sul Golden Record lanciato insieme alle due sonde Voyager nel 1977. Lo scopo del Voyager Golden Record era di portare tracce della cultura umana a ipotetiche forme di vita extraterrestre e agli stessi umani del futuro, quello degli Arcturus è di farci divertire col loro spettacolo da fenomeni da baraccone spaziali.

Alla compagnia, che nel frattempo ha visto il ritorno anche di Mingay al basso, si aggiunge il chitarrista di scuola heavy Tore Moren (accompagnerà Jørn Lande in due fasi comprese tra il 2001 e il 2015), che affiancando Knut Valle dà un’impronta decisamente più tradizionale al suono del gruppo.

Questo sound più formale, limpido, segna un discreto passo indietro almeno sul piano della ricerca sonora e crea una sorta di comfort zone entro cui riacclimatarsi dopo tanto istrionismo. Fare i conti col passato non è mai semplice, soprattutto con certo passato, ma gli Arcturus, gambe in spalla, ci provano. La più che vagamente polemica “Hibernation Sickness Complete” (i testi sono tutti di Vortex) prova a scrollarselo un po’ di dosso, questo passato, confidando che l’impegno porterà i suoi bei, singolari risultati («All I can find to bring peace of mind / Is that this bloodstained route / Will carry the strangest of fruits»); si riaffaccia alla finestra anche il demone ispiratore già invocato nella mascherata, qui chiamato a propiziare e a dipingere la nuova attività dal vivo del gruppo (“Daemonpainter”, giustamente sottotitolata “To Another Being”). Interessante, poi, il richiamo all’esordio alla voce di Vortex coi Borknagar, che su The Archaic Course si trovò a dover sostituire proprio Rygg: “Nocturnal Vision Revisited” sembra partire proprio da quella tappa della carriera di Hestnæs, da quel compito foriero tanto di soddisfazioni quanto di patemi esistenziali. La rincorsa al passato e la speranza di trovarvi la mappa per il futuro fa da sfondo al difficoltoso incedere di “Evacuation Code Deciphered” e alla navigazione notturna di “Moonshine Delirium”, che ci fa approdare su un pianeta abitato da figure spaventose, personaggi assurdi e allegorici (“White Noise Monster”); ma la cerca non trova pace, neppure dopo l’onirica e inerziale “Reflections”. Il finale è lasciato a un brano in norvegese, “Hufsa”, che concentra tutta la solitudine e il senso di smarrimento del personaggio cui si ispira, ovvero il Groke dei Mumin, creati dalla finlandese (di lingua svedese) Tove Jansson.


Sideshow Symphonies è supportato da un’intensa attività dal vivo, comprendente una tappa al Sonic Solstice Festival di Oslo immortalata sull’enorme (il concerto dura più di un’ora e mezza) e pregevole DVD Shipwrecked In Oslo (2006, Season Of Mist); qualcosa si rompe, però, e nel 2007 il gruppo annuncia lo scioglimento. La fine della band viene vissuta in maniera ambivalente dagli appassionati, perché mentre per alcuni la conclusione del sodalizio Johnsen-Rygg aveva segnato irrimediabilmente in negativo la carriera degli Arcturus, altri avevano intravisto nel nuovo corso delle potenzialità ancora inespresse.


UNA NUOVA SPERANZA

Passano gli anni ma già sul finire del 2010 si rincorrono voci di una possibile reunion; solo nel settembre del 2011, però, queste voci trovano conferma sul blog del neonato progetto Artisan, che vede coinvolti Vortex, Mickelson, Mustis (ex-Dimmu Borgir) e Jens Ryland (all’epoca ancora attivo nei Borknagar). I Nostri sono in studio, e sotto il coordinamento di Knut M. Valle, che si occuperà di missaggio, masterizzazione e altri aspetti tecnici, registreranno un nuovo album.

Se per molti versi Sideshow Symphonies ha rappresentato per gli Arcturus un ritorno al passato, Arcturian (2015, Prophecy Productions) — con un periodo di lavorazione di ben quattro anni — si pone l’obiettivo di aprire la porta su nuovi orizzonti con rinnovato entusiasmo. In parte ci riesce, ma non sapremo, se non sulla lunga distanza, se la nostra disposizione nei confronti di questo disco derivi più dalla mancanza, dalla nostalgia per le atmosfere che solo questi signori sono in grado di creare o dall’effettiva freschezza della musica che vi è contenuta. La sintesi di questo dubbio la rintracciamo in “Demon”: da un lato c’è un palese avvitamento attorno a temi e riflessioni che non possono che sembrarci stantii, dall’altro c’è tanta elettronica a fare da contraltare a episodi più conservatori: “Angst” puzza di naftalina, tanto ricorda i vecchi Borknagar, mentre la penultima “Archer” è la fiera dell’autoreferenzialità; belli i leitmotiv, belle le autocitazioni, ma anche meno. “Crashland” e “Game Over”, coi tratteggi onirici del violino del polacco Sebastian Grouchot, sono figlie dello stile de La Masquerade Infernale; “Warp”, invece, ci restituisce equilibrio fra vecchio e nuovo con dinamismo e linee vocali ardite quasi quanto la ballata semi-elettronica “The Journey”.

Qualcosa funziona, qualcosa meno, qualcosa non funziona affatto; un’idea grafica di tutto questo ce la possiamo fare osservando la copertina e la figura mascherata che la occupa quasi interamente: metà è fatta di spazio profondo, insondabile, l’altra è un buffone con un corno diabolico.

L’auspicio è che gli Arcturus si spingano nuovamente nel loro habitat naturale, quel vuoto, quel nero assoluto che solo la luce di una stella può rischiarare. Per l’intanto hanno annunciato ben tre date dal vivo in Italia, nelle quali porteranno in scena uno spettacolo a base di brani tratti da Aspera Hiems Symfonia e altri mai eseguiti su un palco.


Gli Arcturus saranno in Italia per tre date alla fine di marzo:

28/03 Largo Venue, Roma
29/03 Revolver Club, San Donà di Piave (VE)
30/03 Slaughter Club, Paderno Dugnano (MI)