Vent’anni e più di Cult Of Luna: Parte 1
Non c’è bisogno di un motivo specifico per ripassare la storia di uno dei progetti più influenti della storia del post-metal. Se proprio ne serve uno, diciamo che con questa monografia in due parti vogliamo rendere omaggio ai Cult Of Luna a circa vent’anni dalla loro prima uscita ufficiale.
DAGLI ECLIPSE AI CULT OF LUNA

Dal punto di vista storico, il collettivo che oggi conosciamo come Cult Of Luna muove i primi passi nel corso del 1998, quando l’esperienza di una band hardcore di Umeå, gli Eclipse, si interrompe lasciando i giovani Johannes Persson, Klas Rydberg e Fredrik Renström in cerca di una nuova strada. In quel periodo, i tre fanno la conoscenza del percussionista Magnus Lindberg (all’epoca diciassettenne), originario di Skellefteå, cittadina a circa 130 km di distanza da Umeå. Lindberg introduce ai tre anche il chitarrista Erik Olofsson, suo concittadino. Dopo alcuni mesi passati tra e-mail, autobus e giornate in sala prove, nel gennaio 1999 i cinque riescono a mettere insieme un demo di due tracce, già molto diverso da quanto sentito negli Eclipse: la storia musicale dei Cult Of Luna inizia qui. Molto presto, però, Renström lascia la band per dedicarsi ad altro ed è in quel periodo che il batterista Marco Hildén e il bassista Axel Stattin entrano a far parte del progetto, abbracciando una formazione a sei relativamente insolita negli ambienti metal del tempo.
La prima emanazione ufficiale dei Cult Of Luna in questo formato è lo split con gli Switchblade, band sludge-drone di Stoccolma, che esce nel 2000 e mostra al mondo (o meglio, a quei 500 folli che prendono il disco all’epoca e ai loro vicini di casa e conoscenti) quella mazzata che è “Beyond Fate”. Le radici hardcore sono evidenti e rivisitate in chiave sludge, con un orecchio teso verso ciò che gente come i Neurosis ha combinato dall’altra parte dell’Atlantico nel corso del decennio precedente. La giovane band svedese, con le sue tre chitarre, inizia a lavorare sulla stratificazione sonora che la caratterizzerà nell’arco dei vent’anni successivi.
I sei pubblicano l’esordio Cult Of Luna nel 2001 attraverso la piccola etichetta inglese Rage Of Achilles e si fanno notare subito. “Beyond Fate” diventa qui un tassello organico all’interno di un’ora di musica viscerale che ribolle attraverso atmosfere doom metal (“Dark Side Of The Sun”) e sfuriate sludge-hardcore (“Hollow”), tra cui si districano le urla di Rydberg e Persson, fino alla stupenda “Sleep”, che fornisce un interessante sguardo verso la futura direzione della band. È a quel punto che l’occhio della britannica Earache Records cade sugli svedesi, tra i primi in Europa a reinterpretare quel delicatissimo marasma sonoro a cui ci si inizia a riferire come post-metal.
OLTRE LA SALVEZZA
La fase Earache è ricca di sfide per la band di Umeå, tra cui l’ingresso del bassista Andreas Johansson al posto di Stattin. Nel mentre l’etichetta di Nottingham ristampa l’esordio del sestetto, apprestandosi a lanciare l’atteso seguito nel 2003: The Beyond. Qui i Cult Of Luna cominciano a osare un po’ di più, pur restando riconoscibilmente all’interno del solco tracciato dall’esordio. Abbiamo a che fare con un disco lungo (oltre settanta minuti, forse troppo) e ambizioso, in cui si cimentano con maggiore frequenza con atmosfere e influenze post-, cercando di costruirsi una più chiara identità che possa farli emergere nel mare dello sludge di ispirazione neurosisiana.
The Beyond è strutturato come una sorta di concept album con un filo conduttore, le voci narranti si trovano infatti a riflettere su guerra, coercizione e potere. La descrizione è tutt’altro che eroica o gloriosa, da quello che sembra essere un possibile futuro si guarda indietro e si vedono massacri (addirittura quello di Sabra e Shatila del 1982 viene citato esplicitamente in “Circles”), potenti imperi militari (il Fort Meade dell’introduzione è la sede della National Security Agency, in Maryland), controllo (“The Watchtower”) e una lunga storia di sofferenza umana. L’immagine che emerge è quella di un conflitto ancora in atto, un mondo trascinato in una spirale di violenza, ma nel quale c’è ancora chi lotta per andare avanti (“Deliverance”). Mentre la voce narrante in “Further” si dissolve nell’Oltre, sembra che sull’umanità stia per calare il sipario. Alla fine, il campionamento di un discorso di Noam Chomsky ci ricorda che oltre metà delle entità più ricche del mondo sono corporation, che non hanno alcun interesse verso il benessere umano o la vita, e che questa cosa bisogna tenerla bene a mente.

A questo punto c’è grande attesa per le mosse successive della band svedese che diventa sempre più un collettivo, con l’arrivo del tastierista Anders Teglund e quello del batterista Thomas Hedlund in sostituzione di Hildén. Nel 2004, a distanza di un anno e mezzo da The Beyond, i Cult Of Luna pubblicano Salvation ed entrano nella cerchia dei maggiori progetti post-metal del mondo. Uno stile visivo totalmente diverso, una tensione concettuale qui rivolta al tema della salvezza, con l’immagine dell’Oltre che torna di nuovo come parte di un orizzonte metafisico per l’umanità, ma non strettamente religioso.
La band, ormai sparpagliata per la Svezia, riversa in Salvation un processo creativo collettivo che si concretizza in un altro disco lungo e complesso (anche qui oltre i settanta minuti), ma stavolta più stratificato e fluido. Già dal primo brano “Echoes” ci si rende conto del salto di qualità nella strutturazione generale del suono, con un certo approccio post-rock che si inserisce nella pozione del settetto svedese (vedere la parte centrale di “Vague Illusion” o l’inizio di “Waiting For You”), senza per questo intaccarne lo spirito sludge-hardcore, come dimostrano le mazzate della successiva “Leave Me Here”.
La grande varietà di Salvation fa capire al mondo del metal che i Cult Of Luna non sono una meteora e, soprattutto, che non sono interessati a seguire semplicemente i canoni di uno specifico filone. Curiosamente, sono anche gli anni in cui inizia a emergere un altro progetto europeo di estrazione sludge e affascinato da iconografia e concetti di tipo metafisico-religioso, gli Amenra, ma questa è un’altra storia.
DA QUALCHE PARTE NELLA STORIA

Nel frattempo, Persson dà vita al progetto prog-alternative Khoma, insieme a Jan Jämte e Fredrik Kihlberg; proprio quest’ultimo si unisce ai Cult Of Luna in vista del disco successivo. Il collettivo conta a questo punto otto membri (anche se dal vivo in genere si esibisce in sette) e una quantità di potenziali soluzioni sonore praticamente infinita, dalla doppia batteria all’interazione tra diverse voci, dalle tre chitarre a più o meno qualunque cosa possa venire in mente tra tastiere ed effetti vari.
Il sodalizio con Earache continua praticamente senza sosta tra dischi e tour, ed ecco che nella primavera 2006 arriva Somewhere Along The Highway. In un certo senso, quello che qualche anno prima per gli Isis sono stati Oceanic e — soprattutto — Panopticon: il biglietto dei Cult Of Luna per la storia.
Una produzione molto meno piena (per motivi di budget) è l’occasione per gli otto di dare risalto a tutti i singoli elementi musicali, insieme alla scelta di limitarsi a poco più di un’ora di durata complessiva. Il suono non si sviluppa solo tra crescendo e precipizi come spesso capitato nei lavori precedenti, ma raggiunge ogni possibile angolo della nostra percezione come se si muovesse anche orizzontalmente nello spazio. Le trame delle chitarre (“Thirtyfour”), la solida presenza delle percussioni e le voci che esplorano più registri (“And With Her Came The Birds”) sono tutti elementi fondamentali nell’universo creativo del collettivo svedese, e in questo disco lo sentiamo quasi sulla pelle. Pur essendo un’opera meno pesante delle precedenti dal punto di vista sonoro, Somewhere Along The Highway è insomma più pervasiva, in grado di raggiungerci nel profondo.
Oltre alle riflessioni sulla morte e sulla memoria, emerge il filo conduttore della solitudine maschile, affrontato anche con una certa delicatezza — prima che diventi uno dei modi preferiti da svariati fenomeni da baraccone per buttare in caciara qualunque discussione sui rapporti di potere all’interno della società. Tuttavia, è principalmente con la musica che i Cult Of Luna lasciano un segno indelebile sul post-metal degli anni ‘00, ritagliandosi uno spazio che fino a quel momento sembra quasi riservato a nomi provenienti dagli Stati Uniti. Da allora, pezzi come “Dark City, Dead Man” e naturalmente l’immancabile “Finland” ispirano decine di band europee e non, restando fino a oggi elementi chiave del repertorio di Persson, Lindberg e soci.
Con la stessa formazione, il collettivo continua il serratissimo ciclo di attività live e di registrazione, dando alle stampe il successivo Eternal Kingdom nel 2008. I Cult Of Luna spiazzano tutti con un disco denso, oscuro e meticoloso, relativamente compatto (giusto un’ora, come l’esordio) e decisamente più metal di Salvation o Somewhere Along The Highway, eppure pieno di tutti gli elementi che hanno reso speciale la band fino a quel momento, che trovano spazio soprattutto negli intermezzi.

Per il concept del disco la band afferma di essersi ispirata al ritrovamento del diario di un certo Holger Nilsson, internato in ospedale psichiatrico per l’uccisione di sua moglie (nell’area in cui sarebbe poi sorto l’edificio della sala prove in cui gli otto si incontrano per la scrittura del disco). Nei brani si susseguono quindi inquietanti pensieri e improbabili personaggi fantastici come l’uomo-gufo della copertina. Ciononostante, la storia (come l’esistenza stessa di Nilsson) è una totale invenzione che i Cult Of Luna buttano lì quasi nella speranza che la stampa musicale si interroghi sulla sua veridicità, una sorta di esperimento sociale all’alba dell’era dei social media e del proliferare di portali internet su qualunque cosa.
A parte la questione concettuale, Eternal Kingdom è un disco molto solido (spicca in particolare “Ghost Trail”) che probabilmente sarebbe un enorme successo per un’altra band, ma per il collettivo è solo l’ottima prova con cui chiudere l’esperienza con Earache Records. L’etichetta celebra quest’epoca di successi con il DVD Live At The Scala nel 2010.
Dopo cinque album concentrati in pochi anni e una caterva di concerti dal vivo, gli otto sentono il bisogno di dedicarsi anche ad altro. Negli anni successivi Persson e Kihlberg tornano per esempio all’opera con i Khoma, mentre lo storico vocalist Klas Rydberg lascia la band nel 2012.
Nella seconda parte di questa monografia ripercorreremo la parte più recente della carriera dei Cult Of Luna, che hanno ancora ben più di una sorpresa in serbo.