Vent’anni e più di Cult Of Luna: Parte 2
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Nella prima parte di questa monografia, abbiamo visto come i Cult Of Luna abbiano contribuito ad affinare l’universo sonoro e concettuale legato al post-metal, mettendo l’Europa sulla mappa grazie a una serie impressionante di dischi pubblicati da Earache Records. Dopo un simile impegno concentrato in così pochi anni, per la band arriva un periodo di relativa pausa, con Persson e Kihlberg che si dedicano un po’ di più ai Khoma.
A cavallo tra anni ‘00 e ‘10, il post-metal e il post-rock sono ormai diventati mondi affermati, con decine di nuove band che ne esplorano le contaminazioni con il black metal, con l’elettronica, con l’ambient, con l’hardcore e così via. In quegli anni, i Cult Of Luna rimangono in relativo silenzio, con l’unica eccezione dell’insolito audiobook Eviga Riket (che riprende la storia alla base di Eternal Kingdom). Mentre non si parla più tanto del gruppo, quasi dal nulla, nel 2012 arriva la notizia dell’uscita di Klas Rydberg dal progetto, portando Johannes Persson a prendere anche il ruolo di vocalist principale nel disco che, come un lampo abbastanza inatteso, riporta i sette al centro di tutte le discussioni negli ambienti post-metal a inizio 2013: Vertikal.
ALLA SCOPERTA DELLA CITTÀ CON VERTIKAL

L’album raggiunge la sua forma finale attraverso un lungo processo di scrittura e registrazione tra la primavera 2011 e l’autunno 2012, segnando il primo risultato ufficiale del sodalizio tra i Cult Of Luna e l’etichetta norvegese Indie Recordings. Fin dal titolo, dalla copertina e dalla veste grafica dell’interno del libretto, è chiaro come la band abbia in mente un certo tipo di atmosfera per il suo ritorno in scena. L’oscurità e le sensazioni allucinate di Eternal Kingdom, ma anche il feeling rurale di Somewhere Along The Highway, lasciano qui spazio a un’ambientazione più urbana. L’estetica di Vertikal si ispira alle emanazioni più avanguardiste dell’art deco e del cinema espressionista degli anni ‘20 del Novecento (e non si tratta di uno specifico concept su Metropolis, come spesso è stato definito). Un manifesto, una nuova direzione per la band che si concretizza in maniera chiara anche in termini musicali.
Proprio quando tanti iniziano a pensare che i Cult Of Luna abbiano detto tutto quello che avevano da dire con una produzione dai ritmi sfiancanti negli anni ‘00, Vertikal dimostra che il collettivo ha solo iniziato a esplorare le sue apparentemente infinite possibilità. Con l’intro strumentale “The One”, il gruppo (ormai non più solo di Umeå da un pezzo) ci accompagna verso l’alto, dove avremo una visuale più completa sul mondo e sulla direzione da percorrere.
Un’ora abbondante di musica, in cui il possente attacco post-metal di “I: The Weapon” si intreccia presto con espansioni, riverberi e tastiere. Vertikal si rivela qualcosa di decisamente diverso dal passato, eppure assolutamente organico e coerente con il percorso del settetto svedese. Questa nuova incarnazione prende perfettamente forma in “Vicarious Redemption”, che ci accompagna partendo quasi dal trip-hop fino a divenire una solida cavalcata alla Cult Of Luna, i cui vari strati di suono si intersecano e fanno da sfondo alla voce narrante che chiama alla carica contro l’assoluto. Il crescendo nella seconda metà del brano ci eleva verso una redenzione che ricorda a tratti quella dei primissimi album, in cui non ci si affida a poteri divini, eppure la voce narrante lotta per muovere le montagne e aprire i mari: «No gods, no masters, no rulers, no kings». Oltre al ruolo cruciale dei sintetizzatori, che emerge soprattutto negli intermezzi e nelle introduzioni dal sapore fantascientifico (“Mute Departure”), un nome relativamente nuovo che può venire in mente ascoltando Vertikal è The Ocean Collective (in particolare in “Synchronicity”). Le urla di Persson illustrano lo scenario, delineato in particolare dalla parte conclusiva del disco fino a “Passing Through”: un futuro vicino, un’umanità in grande difficoltà, in qualche modo sopravvissuta ai disastri evocati in “The Sweep”.
Inizia così un’altra intensa stagione di performance dal vivo in giro per l’Europa (tra cui una signora esibizione al Brutal Assault 2013) e addirittura con un paio di date negli Stati Uniti, coinvolgendo altri grandi nomi come Amenra, Katatonia e The Ocean. A settembre, la band pubblica il rispettabile EP Vertikal II, chiudendo il cerchio della propria stagione art deco (con tanto di remix di “Vicarious Redemption” a opera dell’onnipresente Justin Broadrick).
Proprio in quelle settimane, approfittando anche dell’occasione di un ultimo show insieme all’ex vocalist Klas Rydberg a Londra, la band annuncia l’intenzione di prendersi una pausa dopo i vari festival, sollevando un gran polverone sulla stampa dell’ambiente e tra il pubblico. Qualche mese dopo, Persson e soci chiariscono che i Cult Of Luna non hanno intenzione di sciogliersi, ma nemmeno di pubblicare dischi ai ritmi serrati che li hanno caratterizzati nel decennio precedente. E vale decisamente la pena di attendere.
CON JULIE CHRISTMAS VERSO LO SPAZIO PROFONDO: MARINER
Dopo l’uscita di Vertikal II si chiude anche la collaborazione con Anders Teglund, mentre Erik Olofsson lascia la chitarra per dedicarsi alla parte visiva (di cui si occupa già fin dai tempi di Salvation); il collettivo si mette così alla ricerca di una nuova strada da percorrere. In questo periodo il tastierista Kristian Karlsson, già in forze alla band post-rock Pg.lost, entra in formazione riportando il numero dei componenti a sei.
Negli anni i Cult Of Luna sono entrati in contatto con tantissimi personaggi degli ambienti hardcore, post-, sludge e derivati sulle due rive dell’Atlantico. Tra i frutti più interessanti spicca l’ammirazione reciproca che si viene a creare con la cantante Julie Christmas, già voce di notevoli progetti del sottobosco come Battle Of Mice e Made Out Of Babies. Dopo un paio di tentativi di collaborazione sfumati per motivi logistici e di tempi, il collettivo riesce finalmente a cogliere l’occasione di lavorare con la cantante originaria dello stato di New York. La capacità di Christmas di muoversi in un raggio apparentemente infinito di stili vocali è uno dei motivi chiave dell’inizio di questo rapporto, aggiungendo ulteriori strati al già multiforme stile della band svedese.
Mariner è il risultato della sintesi assolutamente paritaria tra le parti strumentali create dai Cult Of Luna e i testi e l’interpretazione ideati da Christmas, attraverso mesi di lavoro a distanza in due studi tra Svezia e Stati Uniti. Curiosamente, infatti, i sette non si incontrano di persona durante quasi tutto il periodo di scrittura e registrazione dell’album, che viene pubblicato nell’aprile 2016 ancora da Indie Recordings (per saperne di più sul processo, consiglio il documentario sulla collaborazione). L’artwork minimale di Olofsson anticipa l’atmosfera cosmica che avvolge Mariner, un’esplorazione dello spazio dopo le riflessioni sulla metropoli degli anni precedenti.

L’album è composto da cinque brani giganteschi, giocati sugli equilibri tra le tante anime sonore e le voci in gioco. L’inizio di “A Greater Call” sembra infatti partire dallo scenario e dalle suggestioni atmosferiche di Vertikal, arrivando alla decisione di superare un mondo morente, con parole nette: «We leave, upward, toward new dreams. A new hope, an odyssey».
Le voci narranti (con il gioco a due tra Persson e Christmas) ci guidano attraverso le profondità dell’universo, tra decine di strati musicali sapientemente mescolati. L’unione tra Cult Of Luna e Julie Christmas è un organismo assolutamente vitale e capace di esplorare ogni tipo di antro dello spazio. In “Cygnus”, per esempio, riusciamo anche a percepire nella sezione ritmica di nuovo un po’ di quell’approccio hardcore che è da sempre alla base dello stile di entrambi i progetti.
Questa intensa avventura nello spazio va avanti tra mazzate assolute e sezioni più pacate, attraversando peripezie e trasformazioni, portandoci fino a quello che sembra il raggiungimento di una sorta di nuova consapevolezza, una conoscenza siderale, velatamente memore del finale di 2001: Odissea Nello Spazio. Per farla breve, Mariner è un disco talmente enorme da essere entrato senza alcuna obiezione nella nostra top 10 dei dischi post-metal del decennio.
Nel frattempo, i Cult Of Luna non si fanno mancare una storica performance al Roadburn 2016 per i dieci anni di Somewhere Along The Highway. Di lì a poco, vista l’accoglienza assolutamente positiva di Mariner, i sette riescono a portare finalmente l’album in tour tra autunno 2016 ed estate 2017, con risultati a dir poco devastanti, prima di chiudere con un’ultima data speciale al Roadburn 2018. Chissà che Julie Christmas e i Cult Of Luna non possano decidere di collaborare di nuovo in futuro.

L’ALBA DI UN’ERA OSCURA: A DAWN TO FEAR

Attraversando l’uscita dell’impressionante live Years In A Day nel 2017, arriviamo così all’ultima parte della nostra avventura attraverso vent’anni di carriera dei Cult Of Luna. In occasione dei lavori per il settimo album (ottavo contando anche Mariner) il sestetto passa su Metal Blade Records.
Dopo un album compatto, narrativo e diretto come il precedente, A Dawn To Fear rappresenta ancora un’altra trasformazione già a partire dalla grafica e dalla struttura. Olofsson ci accoglie infatti stavolta con litografie circolari in bianco e nero che sembrano una via di mezzo tra vinili e sezioni di tronchi, distribuite tra le pagine del libretto e sulle varie edizioni del disco, o meglio dei dischi.
A Dawn To Fear, infatti, è un lavoro colossale di quasi ottanta minuti, diviso in due dischi con quattro brani ciascuno. Dopo le riflessioni urbane prima e galattiche poi degli ultimi lavori, qui i Cult Of Luna sembrano tornare a scavare nella riflessione interiore più profonda, fino ai meandri più indecifrabili dell’umanità. A Dawn To Fear non ha un vero e proprio concept, a differenza della maggior parte dei dischi della band svedese, tuttavia è possibile percepire un fil rouge emotivo prima ancora che stilistico (ne parla bene lo stesso Persson in quest’intervista).
Il tono è tenebroso e, dalle prime battute con gli schiaffi di “The Silent Man” e “Lay Your Head To Rest”, si ha l’impressione che i Cult Of Luna abbiano deciso di colpire a tutta forza, lasciando relativamente in secondo piano gli elementi più atmosferici del proprio sound. Invece, proseguendo nell’ascolto e soprattutto tornando sull’album a più riprese, emergono man mano strati di suono e diverse chiavi atmosferiche. Spiccano in particolare i due brani centrali “Nightwalkers” e “Lights On The Hill”, con le loro molteplici sfaccettature, ma in generale in quest’album ce n’è un po’ per tutti i gusti. Persson ha infatti dichiarato che non è stato facile fare una selezione, preferendo quindi organizzare l’intera produzione come un lavoro unico, anziché spezzare tra disco e EP come era stato ai tempi di Vertikal.
A Dawn To Fear è ancora una volta un centro per i Cult Of Luna, un lavoro assolutamente consigliato che infatti è apparso in più di una lista di consigli di fine 2019 anche su Aristocrazia. Dopo due decenni così, non vediamo l’ora di scoprire cosa hanno in serbo gli svedesi per la prossima decade, sperando che “We Feel The End” sia da prendere solo come riflessione sulla fine della vita e non su quella dei Cult Of Luna.