DARK TRANQUILLITY – Monografia
Icona del metal “underground” e formazione dal successo planetario da un lato, gruppo di amici che alle soglie della pubertà imbracciava gli strumenti per sfuggire al vuoto dei freddi pomeriggi invernali nel garage del quartiere dall’altro. I Dark Tranquillity hanno alle spalle ormai venticinque anni di carriera, anni durante i quali hanno inanellato enormi successi di pubblico e critica, partecipando, con In Flames e At The Gates, alla creazione del sound tipicamente svedese (anzi, tipicamente di Göteborg) degli anni ’90 prima, sviluppando una corrente melodica del tutto personale e inconfondibile poi.
Tagliato il traguardo del decimo album in studio e del quarto di secolo di attività con un nuovo cambio grafico (quella qui sopra è la terza e più recente incarnazione del logo della formazione), tentiamo di ripercorrere il tragitto di Mikael Stanne, Niklas Sundin, Anders Jivarp, Martin Henriksson e Martin Brändström, dando uno sguardo d’insieme a una delle storie più influenti del death metal.
SCALDARSI IN UN CAPANNO
Correva l’anno 1989, quando a Billdal, una ventina di chilometri a sud di Göteborg, cinque giovincelli di belle speranze, per impegnare i pomeriggi dopo la scuola, “prima ancora di saper suonare gli strumenti” fondarono un gruppo thrash come tanti se ne sentivano all’epoca: i Septic Broiler.
La sala prove era niente altro che un garage privo di qualsiasi comodità, riscaldamento incluso, e i ragazzi si ritrovarono a tappezzare le pareti di tappeti nel tentativo di insonorizzare la stanza, poiché come ricorda Stanne “i vicini non erano appassionati di metal estremo quanto lo eravamo noi”. All’interno del capanno le dita ghiacciavano sul manico della chitarra prima ancora di poter suonare una nota; forse anche per questo i ragazzi cercavano di suonare il più velocemente possibile, in modo da riuscire a scaldarsi un po’.
Una volta stampate centocinquanta copie del primo demo tape, Enfeebled Earth (1990, autoprodotto), Anders Fridén (voce), Mikael Stanne (chitarra), Niklas Sundin (chitarra), Martin Henriksson (basso) e Anders Jivarp (batteria) cambiarono il nome della loro creatura artistica, dando ufficialmente vita a una band che negli anni a venire avrebbe fondato, sviluppato e portato ai massimi vertici, insieme a un’altra manciata di formazioni, un intero genere: il death metal melodico. Era il 1991, ed erano nati i Dark Tranquillity.
SKYDANCER, LAMPO D’ORO SFAVILLANTE, UNA GALLERIA A METÀ STRADA VERSO L’INFINITO E L’OCCHIO DELLA MENTE: IL PRIMO TRITTICO
Dopo due EP dalla limitatissima tiratura in cassetta e 7″ per etichette minori tra il ’91 e il ’92, fu la volta del primo vero lavoro completo. Skydancer (Spinefarm Records) vide la luce nel 1993 e fin dai primi secondi le capacità del quintetto si dimostrano superiori alla media, nonostante la giovane età. Per quanto la produzione sia tutto meno che curata, per quanto il suono risulti acerbo, per quanto i musicisti siano inesperti, la strada dell’innovazione è ormai intrapresa. Fridén, che all’epoca sapeva ancora cantare, si rende protagonista di un’interpretazione personalissima, dal tratto a volte lacerante, tanto sfrutta le sue corde vocali. Sundin e Stanne, alle sei corde, si fanno portatori di melodie decisamente più tranquille e avvicinabili rispetto alle veloci sfuriate cui la nascente scena svedese, con lavori come Left Hand Path e Like An Everflowing Stream, stava abituando i suoi ascoltatori. Gli stilemi originali del death metal sono ancora presenti, e il retaggio è quello di un’evoluzione partita dal thrash più classico e poi sviluppatasi, negli anni, attraverso il lavoro di formazioni come i Merciless di The Treasures Within, o i già citati Entombed e prima ancora i Nihilist. Rispetto agli illustrissimi colleghi, tuttavia, i DT lambivano territori molto diversi, più intimi e personali, a partire dall’approccio grafico e lirico: laddove a Stoccolma le spettacolari illustrazioni di Dan Seagrave corredano brani che sguazzano tra satanismo, brutali omicidi, smembramenti e perversità di ogni sorta, a Göteborg il centro della scena è occupato dagli spazi della mente, dalla natura, dal misticismo e dall’introspezione, perfettamente rappresentati dalla eloquente fotografia di Kenneth Johansson in copertina. Questa ricerca dal punto di vista testuale, fin dagli esordi, sarà uno dei marchi di fabbrica dei Dark Tranquillity.
Allo stesso modo, i brani di Skydancer non fanno uso smodato di blast-beat né di violenza chitarristica, anzi, i mid-tempo sono piuttosto frequenti e i fraseggi di sei corde sono la quintessenza stessa del concetto di death metal melodico. Sebbene i ragazzi non siano ancora dei virtuosi dello strumento, insomma, è già ampiamente prospettabile una deriva particolare e indipendente rispetto a quanto l’underground svedese ha offerto fino a questo punto.
Nonostante Stanne e Sundin, per una serie di vicissitudini, si fossero trovati proprio in quel periodo ad aiutare l’amico Oscar Dronjak nella scrittura di materiale e nelle prime esibizioni della band che sarebbe poi passata alla storia come Hammerfall, mantennero come loro impegno principale sempre e comunque i Dark Tranquillity. Così, accantonata la parentesi power metal, la band registra il mini-cd Of Chaos And Eternal Night (1995, Spinefarm Records). Tre nuovi brani che segnano un altro importante passo nel percorso dei Nostri: la prima sessione di registrazioni negli studi Fredman, punto di riferimento per i successivi dieci anni e oltre.
Tuttavia il salto di qualità vero e proprio, il lavoro che annovererà la band tra i nomi di culto del metal, si ha con il primo prodotto targato Osmose Productions, il mai abbastanza lodato The Gallery (1995), tra le altre cose forte della magistrale, psichedelica illustrazione di Kristian “Necrolord” Wåhlin.
I cambi di formazione, con Stanne alla voce (a sostituire Fridén che decise di concentrarsi sui soli In Flames) e la conseguente entrata di Fredrik Johansson come secondo chitarrista, portano il gruppo a esprimersi in modo decisamente più completo, e dal punto di vista dell’interpretazione, e dal punto di vista della composizione. La scrittura questa volta risulta molto più articolata e varia rispetto al passato, abbiamo così un’apertura schiacciante come “Punish My Heaven” (classico del gruppo e inarrestabile carta da giocare in sede live), dal testo evocativo e dalle immagini poetiche, seguita da un brano breve e cadenzato come “Silence, And The Firmament Withdrew”, che spiana la pista a una nuova furiosa cavalcata, “Edenspring”, questa volta incentrata sulla tematica dell’alcolismo, trattata in un ibrido tra sensazioni personali e mitologia. Il disco procede, tra un picco e un vertice, fornendo uno dei più validi manifesti del death di scuola svedese, completo di tutto ciò che si troverà da lì in poi nel 90% della produzione affine, interludio strumentale (“Mine Is The Grandeur…”) compreso.
Ormai attestatisi tra gli esponenti più validi e influenti del genere, i Dark Tranquillity si trovano al varco del fatidico terzo album. Durante le sessioni vengono registrate quindici tracce, di cui solo dodici finiscono sul disco. Le rimanenti tre e il primo estratto dell’album, “Zodijackyl Light”, andranno infatti a formare l’interessante ep Enter Suicidal Angels (1996, Osmose Productions), apripista del full, degno di nota soprattutto per la presenza di un brano totalmente atipico quale “Archetype”, la traccia conclusiva, che viene descritta dallo stesso gruppo con due parole: “techno, actually”. La formazione non ha mai fatto mistero della propria bramosia di sperimentazione, così come non va dimenticato che dal 1996 in poi il death metal conobbe un’enorme fase di declino, tanto che la stessa Earache, storica etichetta precorritrice se ce n’è una in ambito death, in quegli anni iniziò a pubblicare lavori di elettronica estrema, spostando il proprio baricentro verso suoni lontani dal metal.
La personalità e l’ispirazione non mancano comunque ai ragazzi di Göteborg, e la boa del terzo lavoro viene brillantemente superata dando alle stampe The Mind’s I (1997, Osmose Productions, con la grafica di nuovo brillantemente elaborata da Kenneth Johansson), disco dai molteplici livelli di lettura a partire dal titolo, che gioca con l’omofonia tra “eye” (occhio”) e I (“io”). L’album presenta già in potenza tutto ciò che sarà più compiutamente espresso negli anni a seguire. Si ha a che fare infatti con i primi vagiti di commistione elettronica che successivamente diverranno marchio di fabbrica del gruppo svedese, seppur in questa sede siano presenti in fase poco più che embrionale e assolutamente lontani rispetto a quanto sentito nell’ep. Il sound nella sua completezza è difatti ancora completamente iscrivibile ai canoni classici, che però grazie alla personalissima rielaborazione operata dal quintetto risultano molto meno limitanti e più vari. Ecco così un brano dai numerosi e graduali cambi di tempo quale “Hedon”, una delicata introduzione acustica con tanto di voce femminile prima del corpo del brano vero e proprio nel caso di “Insanity’s Crescendo”, una conclusiva outro strumentale in cui le chitarre si mescolano a soluzioni elettroniche per quanto riguarda il pezzo che porta il titolo del disco. Ancora, il cammino di Stanne in qualità di paroliere compie ulteriori passi avanti, spostandosi verso un registro sempre maggiormente complesso e strutturato, pian piano allontanandosi sempre più dalla diretta espressività dei suoi primi testi, in favore di immagini ermetiche ed estremamente personali. Spesso sottovalutato, questo terzo album è in realtà un anello fondamentale nella catena evolutiva dei Dark Tranquillity; è il definitivo abbandono dei binari da loro stessi creati verso nuovi lidi.
LA FINE DEL SECOLO: IL PUNTO DI SVOLTA E L’INAUGURAZIONE DI UN NUOVO CORSO
Il 1999 è foriero di diversi cambiamenti, a cominciare dalle rivoluzioni “interne” al gruppo: la seconda chitarra è lasciata da Fredrik Johansson a Martin Henriksson, che al basso viene sostituito da Michael Nicklasson, e Niklas Sundin inizia a occuparsi regolarmente delle copertine e della parte grafica degli album, cosa che lancerà definitivamente la sua carriera di disegnatore/grafico. Contestualmente si ha anche il passaggio del gruppo alla celebre Century Media, etichetta che supporta gli sforzi degli Svedesi a tutt’oggi. Il lavoro che inaugura questa collaborazione è un unicum tanto nella produzione del gruppo quanto nella scena musicale, risultando di impossibile etichettatura. Projector è infatti il “disco strano”, il risultato che non ti aspetti, la deviazione da una strada già di per sé piuttosto tortuosa: il growl passa in secondo piano fin quasi a scomparire a favore di un’interpretazione pulita in cui Mikael sfrutta appieno tutto il suo spettro vocale, e la distorsione delle sei corde tutto rimembra fuorché il death metal. Quanto ci si trova davanti, a conti fatti, è un album piuttosto lineare nelle strutture, ma estremamente complesso negli arrangiamenti; ben più immediato dei suoi predecessori, estremamente più malinconico di qualsiasi cosa i cinque abbiano mai partorito e nonostante strizzi l’occhio a lidi che il metallaro medio solitamente rifugge, il nuovo lavoro riesce a non cadere mai nel banale, anzi mette sul piatto una serie di soluzioni diverse e assolutamente organiche. Ci troviamo davanti la splendida “ThereIn”, dualistico tormento emotivo che dieci anni dopo ancora scalda i cuori degli appassionati sotto i palchi di tutto il globo, o la seguente “Undo Control”, nuovo duetto vocale col gentil sesso. Ogni traccia ha un suo diverso perché, dalla toccante “Nether Novas” alla più lanciata “Dobermann”; il filo conduttore è ben evidente e il disco, nella sua campana di vetro, è omogeneo e tanto inaspettato quanto perfettamente integrato all’interno della discografia dei Nostri. Con Projector, la band di Göteborg si è spinta nuovamente “oltre”.
Passa solo un anno, ma la necessità di sfogo artistico sembra non avere fine, e il gruppo si ritrova in studio a registrare Haven (2000, Century Media Records); la più grande novità è il passaggio a sestetto, con l’aggiunta di Martin Brändström alle tastiere e agli inserti elettronici. Com’è prevedibile, il risultato muta per l’ennesima volta: ecco che ci troviamo dinanzi un disco semplice, diretto, molto più improntato alla struttura canzone senza fronzoli rispetto al recente passato, ben prodotto e in cui poco o nulla è lasciato al caso. La sensazione è di trovarsi ad ascoltare un lavoro preparato a tavolino, e purtroppo o per fortuna è la sensazione che dall’entrata del nuovo millennio accompagna tutto ciò che viene targato Dark Tranquillity. La stessa band ha confermato, in diverse interviste dell’epoca, di aver lavorato a lungo sulla resa finale dei brani, alle volte addirittura cambiandone radicalmente l’approccio, prima di essere soddisfatta dal risultato ottenuto. Il sound, forte ora di una prorompente compresenza elettronica e degli elaborati arrangiamenti dello stesso Brändström, è decisamente dirottato verso la facile presa dell’ambiente live, piuttosto che verso l’ascolto intimo e singolo. Pezzi come “Wonders At Your Feet”, “Indifferent Suns” o la stessa “Haven” sono veloci, brevi e compatti, e sul palco non temono confronti. Tutto questo, come detto, a discapito della profondità e della molteplicità dei livelli d’ascolto di cui potevano rendersi protagonisti dischi come The Gallery o The Mind’s I. Non è cambiata invece la propensione di Stanne a incentrare i testi sull’esperienza soggettiva, alla non-archetipizzazione delle esperienze comuni.
IL NUOVO MILLENNIO: LA DEFINITIVA CONSACRAZIONE…
Questo è il corso che i musicisti di Göteborg hanno intrapreso e coerentemente portato avanti nel nuovo millennio, prendere o lasciare. Il definitivo consolidamento di questo modo di esprimersi arriva con Damage Done (2002, Century Media Records), album creato durante un intenso anno e mezzo di continui lavori: per la prima volta dalla loro fondazione, i Dark Tranquillity non si rinnovano, non aggiungono nuovi tasselli al mosaico, ma si “limitano” a portare avanti il discorso iniziato in precedenza. Gli angoli vengono smussati, la superficialità di alcuni momenti viene rafforzata, la carica viene rinvigorita e l’elettronica spadroneggia un po’ meno. Il lavoro è certamente la migliore incarnazione di questa ultima versione della band: tutto ciò che sarebbe potuto essere migliorato è stato migliorato, e il disco parte in quarta con l’indimenticabile assalto di “Final Resistance”, solo per continuare con la monolitica “Hours Passed In Exile”. Dall’inizio alla fine il full non conosce un momento di stanca, anzi continua a sorprendere data la peculiarità di ciascuna traccia rispetto alle altre, dalla melodia di “The Enemy” alla furia di “White Noise / Black Silence”, trascinando l’ascoltatore in quello che è uno dei pochi punti di riferimento davvero validi nel calderone del melodic death propriamente detto.
Visto il successo di critica e pubblico, la decisione pare ovvia: è il momento giusto per la prima registrazione live. Ecco quindi che prendono forma Live Damage (2003, Century Media), dvd basato sulla registrazione dello show a Cracovia durante il tour promozionale di Damage Done, ed Exposures: In Retrospect And Denial (2004, Century Media Records), pubblicazione contenente lo stesso live in versione cd e un secondo disco in cui vengono finalmente inserite compiutamente tutte le composizioni originali del gruppo escluse dalle scalette dei full per un motivo o per l’altro; trattasi quindi di tutte le b-sides e dei quattro pezzi incisi sui primi due demo. Il concerto di per sé non è nulla di pretenzioso, ma fornisce un perfetto spaccato di quella che è l’attività della band sul palco, senza manie di grandezza eppure di grande personalità e professionalità.
Rientrati in Svezia, è tempo di tornare a comporre, e il primo assaggio di ciò che sarà viene dato giusto pochi mesi prima dell’uscita del lavoro completo (sebbene questo sia già pronto da diversi mesi), ed è l’ep Lost To Apathy (2004, Century Media Records), composto da quattro pezzi. Una volta presa la decisione di confermare la collaborazione con la storica Century Media per la pubblicazione di ulteriori lavori, la traccia che porta il titolo dell’ep, di facilissima presa e dall’enorme carica, diviene anche il biglietto da visita e singolo apripista di “Character” (2005, Century Media Records), versione ancora più riveduta e corretta di Damage Done, quindi terzo lavoro in studio a seguire le stesse coordinate. L’album, registrato quasi un anno prima e tenuto in caldo dal gruppo fino alla stipulazione del nuovo contratto, vede anche in questo caso diverse tracce d’effetto: dall’apertura “The New Build” (perfetto parallelo di “Final Resistance”, eppure dal riffing veloce e “cattivo” come non si sentiva da tempo in casa DT) a “Senses Tied” (parente prossima di “White Noise / Black Silence”), fino ad arrivare a “My Negation”, canzone di oltre sei minuti che chiude il disco con un tocco di malinconia e riporta una certa varietà nella composizione. Anche questa volta l’impegno profuso nella promozione del disco è enorme e porta la band a suonare sui palchi di tutta Europa e America per più di un anno, secondo formula ormai consolidata.
Senza modificare la routine degli ultimi sette anni, ecco che a metà 2007 esce Fiction (Century Media Records), largamente anticipato e atteso dalle schiere di fan. Anche in questo caso, un assaggio del disco era stato dato dall’ep “Focus Shift”, promosso esclusivamente durante alcuni concerti, e nuovamente il prodotto finito non sorprende. Il discorso iniziato con Haven continua ancora, ma questa volta è stata lasciata da parte almeno per un momento l’omogeneità a favore di una maggiore varietà di espedienti. Fiction è infatti summa di tutto ciò che è stato fatto nei precedenti tre lavori, con in più qualche reminiscenza precedente. Ecco quindi che ci troviamo davanti la classica apertura (“Nothing To No One”), il brano “di presentazione” (“Terminus”), quelli di facile presa (“The Lesser Faith”, “Focus Shift”) e, a sorpresa, parti vocali femminili e in pulito dallo stesso Stanne in chiusura (“The Mundane And The Magic”, nonostante contenga più di un richiamo alla già citata “My Negation”), così come un pezzo dalla lunga parte introduttiva e del cui testo si è occupato, per la prima volta in quindici anni, Niklas Sundin (“Inside The Particle Storm”). In seguito alla pubblicazione del disco, la band ha salutato Michael Nicklasson, che dopo dieci anni ha abbandonato le quattro corde per “ragioni personali”, cedendo il posto all’attuale Dimension Zero ed ex-Soilwork Daniel Antonsson.
Una volta di più il tour conseguente ha coperto le terre emerse in lungo e in largo, diffondendo il verbo di Göteborg sui palchi di mezzo mondo, fino a giungere, un anno e mezzo dopo l’uscita del disco, alla registrazione di un secondo live proprio in Italia, a Milano, da cui è stato tratto il doppio dvd Where Death Is Most Alive. Un’esibizione impareggiabile, di livello assoluto. Per quanto riguarda invece il prodotto finale, oltre al dvd del concerto, il consueto disco che racchiude i contenuti speciali mostra un completo spaccato della vita passata del gruppo, illustrata dai membri stessi che raccontano storie vissute, andando a infilarsi addirittura proprio nel garage dove, ormai più di vent’anni fa, i Septic Broiler lanciavano i loro primi vagiti.
… E L’ASSESTAMENTO (DEFINITIVO?)
Di nuovo ai giorni nostri, nel 2009 i Dark Tranquillity conoscono un po’ di pausa: Martin Brändström è diventato tastierista live per i connazionali Tiamat di Johan Edlund e Sundin si è concentrato sulla stesura del secondo full lenght del suo side project, i Laethora; vedono inoltre la luce Yesterworlds, raccolta dei brani precedenti a Skydancer, e il suddetto dvd Where Death Is Most Alive.
Il 2010 è invece l’anno di We Are The Void, registrato come d’abitudine in buona parte nei Rogue Music Studios di Brändström e rilasciato sotto Century Media. L’album viene presentato a un evento cui sono disponibili copie della compilation “The Dying Fragments”, oggetto di culto contenente brani live di repertorio mai rilasciati in precedenza. La nona prova degli Svedesi non rimarrà negli annali, continuando l’ormai decennale percorso intrapreso all’insegna di tastiere sempre presenti, riffing con il marchio di fabbrica di Sundin ed Henriksson, testi immaginifici e profondamente esistenziali, senza tuttavia aggiungere nulla di nuovo al repertorio. Non mancano i buoni momenti, dal singolo anticipatore “Dream Oblivion” all’inno da live “The Fatalist”, alle hit “Shadow In Our Blood” e “Surface The Infinite”, ma il grosso difetto del disco, sempre che tale si possa definire, è quello di seguire un copione ormai rodato, mancando totalmente di sorprese e arrivando alle volte a scendere a patti con brani riempitivi (“I Am The Void”); né il cantato pulito di Stanne (“Her Silent Language”) né la reiterata prova compositiva solista di Sundin (“Arkhangelsk”) riescono a dare quella sferzata necessaria ad irrobustire il lavoro. È bello vedere tuttavia come Daniel Antonnson si sia ambientato senza problemi nella famiglia: nonostante si tratti del suo primo album in studio, sono suoi un paio di assoli di chitarra lungo il disco e diversi contributi compositivi.
Nessun problema per i fan, va da sé che con We Are The Void trovano pane per i loro denti e nulla da rimpiangere, l’impressione però è che la band non viva il proprio miglior momento di urgenza compositiva. Impressione purtroppo ribadita dall’uscita digitale del 2012, l’ep Zero Distance, allegato originariamente all’edizione di We Are The Void acquistabile nelle prime date del tour dedicato e contenente una manciata di tracce, tutte estratte dalle sessioni dell’album principale. Per la seconda volta, un prodotto per i fan, che comunque non possono certo rimanerne delusi.
Pochi mesi e giunge notizia dell’abbandono di Daniel Antonsson: il desiderio di concentrarsi su progetti propri e sul suo strumento primario, la chitarra, ha portato l’ex-Dimension Zero a prendere questa decisione estrema, lasciando i Dark Tranquillity, per la prima volta in quasi quindici anni, con una formazione a cinque (attualmente mantenuta anche dal vivo, utilizzando linee di basso registrate).
Questo non ha però fermato gli Svedesi, che con l’ormai consueta cadenza poco meno che triennale pubblicano Construct (2013, Century Media Records), un ulteriore esercizio di stile che se da un lato dà prova della buona salute della band, dall’altro ne ribadisce la scarsa vena di sperimentazione e un certo qual adagiamento su un tracciato ormai conosciuto e “comodo”. Certo, la considerazione che che questa strada i Nostri se la sono costruita da soli ha un peso non indifferente, tuttavia l’ultima fatica in studio della formazione scandinava è una sorta di “disco di mezza età”, che ripete al meglio una lezione ormai consolidata e assimilata, seppur (nelle parole dello stesso Henriksson) in vena meno heavy e più atmosferica. Nonostante lo stesso Stanne parli di un processo di composizione estremamente nervoso e sfibrante, dovuto alla pressione conseguente alle critiche negative verso We Are The Void e alla voglia del gruppo di fare questa volta qualcosa di nuovo e migliore, il risultato non esce dal seminato. “Apathetic”, brano più veloce del lotto, è la carta da giocare dal vivo, come nel 2010 fu “The Fatalist”, mentre qua e là spuntano pezzi che non potranno deludere gli appassionati, poiché provenienti dalla stessa matrice inaugurata con Haven, ma che allo stesso tempo non reggono il confronto con i lavori della decade precedente. Un unicum è invece rappresentato da “State Of Trust”, componimento che, pur non premendo mai realmente sull’acceleratore, dimostra una spiccata personalità rispetto a tutto il resto: la voce, vera padrona della canzone, fa pochissimo uso di growl, lasciando al cantato pulito la possibilità di mettersi in luce su un riffing dal tipico “stop-and-go” scandinavo e, soprattutto, su un tappeto di tastiere ora melodico e un attimo dopo cupo e di reminiscenze industriali. Insomma, pur nel tenore “ordinario”, i Nostri riescono a piazzare il colpo di gran classe anche in Construct.
Dopo la solita routine fatta di tour su tour per promuovere l’album nei successivi due anni dalla sua uscita, a inizio 2016 il quintetto — che nel frattempo non ha ancora trovato un bassista — si ritrova una brutta gatta da pelare: Martin Henriksson, chitarrista, prima bassista e soprattutto membro fondatore, decide di abbandonare la musica. Fermo sulle sue posizioni, lo Svedese sente di non avere perso la passione di cui necessita la band, e dopo ventisei anni si accomiata amichevolmente dal resto del gruppo, pur mantenendo un ruolo gestionale all’interno dell’economia della sua creatura: Henriksson è diventato a tutti gli effetti il manager dei Dark Tranquillity, occupandosi di tutto ciò che concerne gli aspetti non-musicali della formazione, dall’organizzazione dei tour alla promozione. Pur rimanendo indissolubilmente legato alla sua seconda famiglia, l’ex-chitarrista ha messo i suoi compagni davanti a una serie di domande, di cui Stanne non ha mai fatto mistero durante le interviste di quel periodo: come andare avanti? Se Martin ha perso l’ispirazione, cosa stiamo facendo noi realmente? Abbiamo ancora qualche cosa da dire, e possiamo dirla senza di lui? Tutti questi dubbi hanno portato ad Atoma. Col senno di poi, rivedendo i credits di scrittura delle canzoni di Construct ci si accorge che Henriksson aveva partecipato alla stesura di appena due dei suoi dieci brani, ma fa un po’ impressione aprire il libretto di Atoma e non trovare il suo nome da nessuna parte. Sundin, a sua volta, è alle prese con la paternità, e per quanto due pezzi portino esclusivamente la sua firma, il grosso del lavoro è stato realizzato da Jivarp e Brändström, il che — come è stato fatto notare su diverse testate specializzate — è una stranezza non di poco conto. Una band death metal dove i chitarristi partecipano poco alla scrittura del materiale, che viene lasciata ad appannaggio di batterista e tastierista.
Nonostante le chitarre assumano effettivamente un ruolo più contenuto, tuttavia, Atoma è un ottimo lavoro, inevitabilmente molto diverso da tutti i suoi predecessori. Per quanto il sound e gli umori siano ancora Dark Tranquillity al 100%, è evidente come le soluzioni siano più orientate alla scoperta e alla novità, che non al solito up-tempo da cantare a squarciagola che aveva fatto la fortuna del trittico Damage Done –Character – Fiction. Più che melodeath, l’undicesimo lavoro in studio degli uomini di Göteborg è un album atmosferico, scritto da uomini adulti e alle prese con le preoccupazioni della mezza età. La titletrack stessa, la canzone più veloce e nostalgica del lotto, fa del suo ritornello un inno al tenere i piedi per terra, la testa alta e andare avanti con fermezza, mentre “Force Of Hand” è una riflessione sulle parabole discendenti e su come affrontare i dubbi e le insicurezze. Non a caso, nel tour che segue l’uscita di Atoma, “Force Of Hand” è stabilmente il brano di apertura della scaletta, quasi una presa di posizione: Sundin si è preso una pausa dai tour per stare con la sua famiglia (e riprendere le attività di Cabin Fever Media, da qualche tempo sopite), Henriksson formalmente non è più nemmeno parte integrante della band, ma i Dark Tranquillity sono ancora qui. Sono diversi, stanno affrontando un momento di evidente transizione, tuttavia sono ancora in controllo della situazione, tanto da arrivare ad accogliere come nuovo bassista l’amico di lunga data Anders Iwers, uno dei fondatori di In Flames (di cui il più celebre fratello Peter è stato membro per quasi vent’anni) e Ceremonial Oath, nonché bassista dei Tiamat.
Siamo così al giorno d’oggi, i Dark Tranquillity hanno solcato indelebilmente la scena del metal estremo, riuscendo ad aprire uno squarcio di fruibilità prima impensabile in ambito death scandinavo, europeo e mondiale (gli In Flames non contano, la loro è una storia ben diversa e forse un giorno cercheremo di ricostruirla) e donando ai posteri alcuni dei dischi più entusiasmanti, profondi e sfaccettati della storia del genere, senza mai abbassare il livello qualitativo o scendere a compromessi. Lo stesso nucleo forte mantenuto intatto per un quarto di secolo di carriera è stato un chiaro segnale di come questa, più che una band, sia una vera e propria famiglia, e per quanto le vicissitudini che ne hanno contraddistinto gli ultimi anni potrebbero far pensare al peggio, per ora gli Svedesi non danno segno di volersi arrendere. Forse si tratta di una situazione temporanea, forse sono davvero segnali che il gruppo sta per cedere, ma noi continueremo a seguirli devotamente qualsiasi cosa succeda.
Fonti:
- Blabbermouth
- Chronicles Of Chaos
- Metalitalia
- “Out Of Nothing – The DT Documentary” [disco bonus del dvd “Where Death Is Most Alive DVD”, 2009)
- Sito web ufficiale Dark Tranquillity
- The Monolith
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