Indigenous black metal: calumet della guerra e decolonizzazione in Nord America | Aristocrazia Webzine

Indigenous black metal: calumet della guerra e decolonizzazione in Nord America

La storia umana è costellata di stermini di portata gigantesca e le nazioni del cosiddetto occidente sviluppato hanno giocato spesso il ruolo del carnefice spietato e civilizzatore. Fra i più grandi genocidi annoveriamo quello ai danni dei Nativi Americani, oggi confinati nei territori delle riserve.

Il mondo dell’heavy metal aveva solidarizzato con gli indigeni americani già negli anni ’80, basta pensare ad alcuni pezzi divenuti iconici quali “Run To The Hills” degli Iron Maiden e “Indians” degli Anthrax, o qualche anno dopo ai Manowar di “Spirit Horse Of The Cherokee”. Chuck Billy dei Testament invece è stato il primo a offrire un punto di vista interno alla comunità nativa, rivendicando da sempre con orgoglio il proprio sangue Pomo (popolazione del nord della California), come ricordano anche brani quali “Trail Of Tears”, “Allegiance” e “Native Blood”. Spostandoci verso il Sudamerica, l’esempio più clamoroso e celebre di compenetrazione fra musica estrema e popolazioni indios è rappresentato da Roots dei Sepultura (1996), per il quale Cavalera’s e soci vissero a stretto contatto con la tribù degli Xavante.

Da allora le contaminazioni etniche e tribali non sono più state un tabù e sono comparse anche band interamente composte da membri di origine indigena, come i maori Alien Weaponry in Nuova Zelanda o i guerrieri aztechi Cemican in Messico. Lo stesso fenomeno è avvenuto anche in campo black metal a varie latitudini: in Canada i Gyibaaw hanno rievocato miti e cultura del popolo Tsimshian, stanziato fra British Columbia canadese e Alaska meridionale in Ancestral War Hymns (disco autoprodotto del 2009), utilizzando la lingua Sm’àlgyax, elementi tradizionali e death metal; in West Virginia i Nechochwen, di discendenza Shawnee, si dedicano alla cultura dei nativi americani dal 2005 a suon di «apalači folk metal»; in Messico gli Xibalba (oggi Xibalba Itzaes) sono attivi addirittura dai primi anni ’90 trattando la cosmologia Maya, mentre gli Yaotl Mictlan (ora stanziati nello Utah) sono arrivati qualche anno dopo.

Negli ultimi anni questo fenomeno si è intensificato sul suolo nordamericano, tanto da arrivare a parlare più di frequente di indigenous black metal vero e proprio, un filone giovane ancora in formazione ma piuttosto sfaccettato e ricco di band interessanti. Il suo tratto distintivo riguarda la volontà di trasmettere il patrimonio culturale e storico delle popolazioni native nei propri testi, riprendendo così la tradizionale orale tipica degli antenati, allo scopo di decolonizzare le identità assimilate dal modello di vita occidentale e riappropriarsi delle proprie origini. In questo approfondimento mi sono concentrato sui progetti, spesso one man band, che sono riusciti a spiccare dall’underground più profondo e a trovare spazio e diffusione maggiori del mero circolo locale.


Guerra e solidarietà: Pan-Amerikan Native Front

L’artista più interessante e con la visione più articolata e coerente è certamente Kurator Of War, la mente dietro Pan-Amerikan Native Front. Alan è nato in Messico, vive in Illinois ed è discendente dei nativi nordamericani, forse di origine Algonquian, ma non ho trovato notizie certe a riguardo. Nel 2015 ha messo in piede il suo progetto ispirato dalla visione panamericana di Tecumseh, il leggendario capo degli Shawnee che passò alla storia riunendo in una confederazione le tribù nord-occidentali per combattere l’espansione statunitense. Per Kurator Of War le popolazioni native del nord, centro e sud America condividono una medesima identità e una identica storia fatta di violenze subìte e sacrifici, per questa ragione parla della sua musica come di «native black metal warfare in solidarity with all indigenous nations».

In particolare, concentra la sua attenzione sulle vicende militari e le guerre, avvenimenti dalla portata prorompente per atrocità, dimensioni e sconvolgimenti che si sposano alla perfezione con il black metal. Il suo stile è viscerale e di stampo tradizionale, ma possiede un carattere fortemente narrativo espresso dal punto di vista indigeno-centrico, con lo scopo di diffondere le esperienze e la storia dei nativi come una sorta di insegnamento.

La furia martellante e primitiva del war metal e del black-death, innestata spesso su tempi medi, è uno dei cardini della proposta, difatti gli Archgoat sono una delle band preferite da Kurator Of War e un punto di riferimento. In base alle esigenze narrative compaiono però sezioni più marziali, linee melodiche quasi epiche in evidenza (i Sargeist sono un’altra influenza rivelata in sede di intervista), qualche campionamento e momenti più introspettivi. Inoltre lo studio della lingua indigena ha portato nel tempo a un aumento del suo utilizzo nelle parti cantate, rientrando nell’ottica già esposta del percorso di (ri)scoperta della propria identità.

Il primo album di Pan-Amerikan Native Front, intitolato Tecumseh’s War, è un elogio alla figura che più di tutte ha ispirato Kurator Of War e ne racconta anche la morte avvenuta nel corso della battaglia del Thames (1813), quando la coalizione composta da Britannici e nativi fu sconfitta. Inoltre ci fa conoscere Tenskwatawa, noto anche come il Profeta degli Shawnee, e i nomi dei popoli riuniti nella Confederazione, vale a dire Shawnee, Potawatomi, Wyandot, Lenape, Sauk, Fox e Odowa.

Nel successivo Little Turtle’s War (uscito il 5 febbraio scorso) invece il focus si sposta sulla storica vittoria ottenuta dalla Confederazione nella battaglia di Wabash (1791) sotto la guida di Michikiniqua e al contempo sul più grosso smacco subito dall’esercito dello Zio Sam nella sua storia (tasso di perdite record al 96%).

Il messaggio decolonizzatore lanciato da Kurator Of War, devoto all’inclusione e alla solidarietà verso tutti i popoli nativi oppressi del continente americano, ha una natura moderna che supera le differenze locali e il tribalismo per tendere a un ideale superiore. Il suo corrispettivo musicale invece è ancorato a elementi classici del black metal, tuttavia la maggiore profondità delle atmosfere e la migliore definizione sonora dell’ultimo disco testimoniano la volontà di ricercare una via personale altrettanto degna di nota, all’interno di un percorso fondato sullo studio e la conoscenza.

Da ultimo segnalo anche che Alan ha collaborato con Ifernach e Kommodus realizzando due split, è attivo anche sul fronte dei live e raccoglie fondi per sostenere le comunità native americane.


Ifernach: un punk fra i Miq’maw

Ifernach offre una prospettiva diversa sia a livello geografico che ideologico. Ci spostiamo più a nord, in un paesino di nemmeno 8000 abitanti affacciato sull’Atlantico chiamato Chandler, in Québec; siamo nella Penisola Gaspé, territorio dei Miq’maw, una delle First Nation canadesi, i popoli autoctoni né Inuit né meticci. Qui vive Finian Patraic, deus ex machina di Ifernach, one man band nata nel 2014 dalla folgorazione ricevuta dall’ascolto di Bathory e dall’opera di recupero delle proprie radici e dei propri luoghi messa in atto dallo stesso Quorthon.

Finian Patraic è un personaggio per nulla convenzionale e davvero estremo, autore di dichiarazioni che fanno discutere e che ha deciso di sfruttare la sua formazione musicale classica per realizzare black metal a getto continuo, nella comodità del proprio studio domestico. Da qualche tempo ha abbandonato Facebook per protesta contro le politiche del social network e ora potete trovarlo solo su Bandcamp. Fra le sue attività preferite c’è la caccia, intesa come un vero e proprio rituale sacro familiare. Lo potremmo definire quindi un cane sciolto, un punk, un anarchico, o meglio un lupo solitario. Il suo progetto è guidato sin dal principio da un odio viscerale contro tutto ciò che omologa il modello di vita dei nativi a quello occidentale. La sua aspirazione al recupero delle proprie radici e alla decolonizzazione-decontaminazione identitaria è di tipo individuale, una spinta ideale che deve nascere dentro ogni persona in cui scorre sangue indigeno. La foresta incontaminata rappresenta invece lo snodo fisico fondamentale in cui si svolge la vita di Ifernach: il luogo in cui ritrovare l’armonia con gli elementi naturali, la sede in cui celebrare i miti degli antenati e ambientare i racconti narrati nei suoi dischi; ma è anche il territorio profanato dai colonizzatori e quindi in un certo modo da ripulire.

Finian Patraic definisce il proprio stile «métal sauvage gaspésien» (titolo di un brano manifesto dell’ep Gaqtaqaiaq), quindi un black metal di ispirazione norvegese in cui trovano spazio anche gli Akitsa (un punto di riferimento per il black metal canadese), la sfrontatezza del punk-hardcore e influenze del panorama Métal Noir Québécois, in particolare un approccio atmosferico sulla scia dei Forteresse del periodo ambient. Questa vicinanza ideale al Québec, nel solco dell’antica alleanza che vide combattere fianco a fianco franco-canadesi e alcuni popoli delle First Nation, si ritrova in molteplici aspetti: nelle esperienze live vissute insieme a Forteresse e Monarque; nel medesimo sentire fatto di malinconia dirompente, voglia di vendetta, amore per i paesaggi invernali e celebrazione degli antenati e dei loro miti; nell’utilizzo del francese in alternanza all’inglese (lingua madre di Finnian Patraic, per metà di origini irlandesi) nei testi delle canzoni.

Orientarsi all’interno dell’ampia discografia di Ifernach non è per nulla semplice, considerando che negli ultimi cinque anni ha prodotto qualcosa come tredici opere fra album, split ed ep. E non aiuta nemmeno il fatto che Finian Patraic spazi liberamente fra mini pubblicazioni monodirezionali e altre che mischiano di più i vari approcci. Fra le uscite del primo tipo ci sono lo split insieme agli Invunche e il tributo ai Samhain (intitolato Skitekmujuia’timk) che virano sul versante punk-hardcore, mentre il breve ep Murder Chaos Crematoria è devoto a un black metal selvaggio in stile primi Mayhem. Gli ep più corposi e gli album invece appartengono alla seconda categoria: Skin Stone Blood Bone (Tour De Garde e GoatowaRex, 2019) suona cupo e opprimente nelle parti rallentate che comprimono la rabbia, mentre quando alza i giri del motore parla il linguaggio dei Darkthrone, e non si fa mancare nemmeno passaggi atmosferici, parti acustiche e piccole incursioni elettroniche; The Green Enchanted Forest Of The Druid Wizard (stesse etichette, 2020) mostra invece il lato più atmosferico di sempre, con lunghe parti strumentali, richiami a Burzum e strumenti tradizionali, come se finalmente per un momento Finian Patraic avesse trovato un minimo di pace interiore.


Navajo black metal Nation: i Mutilated Tyrant

La Navajo Nation è la più grande riserva nativa degli Stati Uniti, si estende su una superficie pari a quasi tre volte la Lombardia, situata fra Arizona, New Mexico e Utah, e conta una popolazione di oltre 300.000 abitanti, pari a quella del Molise. In questo contesto così particolare il metal ha attecchito fra i giovani come una catarsi, uno strumento di riscatto e un modo per trasformare la negatività in qualcosa di positivo per qualcuno. Per altri è diventato un tentativo di esorcizzare i demoni interiori e sfogare la rabbia derivata da una vita di isolamento in una comunità che soffre gravi problemi di povertà, disoccupazione, violenza domestica e tassi di suicidio altissimi fra i più giovani. Il rez metal (rez è il gergo per reservation, cioè la riserva) si è sviluppato nella migliore tradizione do it yourself, facendo di necessità virtù, e ha attirato parecchie attenzioni: Revolver Magazine ha prodotto l’interessante cortometraggio Metal From The Dirt; Flemming Rasmussen, storico produttore dei primi Metallica, ha lavorato all’album di debutto degli I Don’t Konform e poi realizzato il documentario Rez Metal; il New York Times ha dedicato spazio a Edmund Yazzle, rappresentante politico dei Navajo e batterista dei Testify in cui suona anche il figlio Darius.

In campo black metal lo scorso anno si sono messi in evidenza i Mutilated Tyrant, giovane trio fondato nel 2014 a Ganado (Arizona) che nel 2017 aveva realizzato il demo Dark Sign Of The Baphomet e aperto per Marduk e Incantation a Phoenix. Ho’dichiih Dóó’ Sáji’ è un ep di quattro tracce realizzato in maniera professionale (compreso un videoclip) che riecheggia del black metal di Judas Iscariot e Nargaroth, ma è attento anche alla componente atmosferica. Per i ragazzi della band il facepainting non è un mero richiamo alla morte quanto al bianco e al nero delle yee naaldlooshii (note anche come skin-walker), streghe mutaforma della tradizione navajo che hanno imbracciato la magia nera e sono in grado di assumere le sembianze animali a proprio piacimento.

Insieme ai Mutilated Tyrant si muove un sottobosco di band che vanno dagli ormai fermi Ashtaroth ai recenti Morbithory (che si definiscono «diné black metal», dove diné è il termine utilizzato dai Navajo per riferirsi alla propria gente) e Zurg (emblematico il titolo del loro demo: Decolonizing Black Metal). Non manca nemmeno chi sostiene questi gruppi e ne agevola la diffusione, come The Metal Cave Zine, che si occupa di promuovere l’underground metal indigeno dalla base operativa di Albuquerque in New Mexico.


Ixachitlan: dalla galassia di Night Of The Palemoon

Il sud della California, precisamente la zona dell’attuale Los Angeles, era il territorio in cui vivevano i Tongva. Ed è anche la regione di origine di Ixachitlan, l’ultimo progetto in ordine di tempo messo in piedi da Eduardo Mora, l’attivissimo fondatore di Night Of The Palemoon. Questa etichetta collabora con alcuni gruppi esterni, ma è soprattutto il contenitore che racchiude tutte le sue diverse incarnazioni musicali. Mäleficentt è la band più longeva e dedita a un black metal tradizionale. Yohualli abbraccia un lato più atmosferico con tematiche legate al misticismo cosmico. Metztli si è dedicato alla dea delle bellezza, della fertilità e del potere sessuale Ahuiani, protettrice delle giovani madri, nella compilation Ahuiani – Xochiquetzal: Xochiquetzal. Viento si muove nel solco del depressive-suicidal black metal.

Anche Eduardo vuole includere la cultura indigena dentro il black metal come modo per valorizzarla. Eagle, Quetzal, And Condor, prima uscita di Ixachitlan, lancia un messaggio di fratellanza per tutto il continente americano, come evidente dal titolo dell’ultimo pezzo “This Land Belongs To Us”, che ha molto in comune con Pan-Amerikan Native Front. In questo ep però la forma musicale è diversa, a causa dell’inserimento di parti folcloristiche (percussioni e strumenti a fiato tradizionali) e di inaspettate influenze post-punk, goth rock e deathrock nel suono delle chitarre. Ne scaturisce così una atmosfera trascendente, sospesa fra sogno e incubo, fra le melodie agrodolci delle chitarre e lo scream sgraziato di Eduardo. La formula è piuttosto omogenea per tutti i 21 minuti, ma vincente, forse da rivalutare su durate superiori.

Chi ama scavare nell’underground black metal troverà tanta passione e buona qualità in tutte le uscite targate Night Of The Palemoon.


Black Twilight Circle: il collettivo nero di Eduardo Ramirez e compari

Se l’accoppiata composta da black metal e identità indigena non fosse un tema già sufficientemente accattivante ai nostri occhi, col Black Twilight Circle aggiungiamo un ulteriore tocco di mistero. Parliamo infatti di un enigmatico circolo, un collettivo di band (una ventina) strettamente legate fra loro che operano nel sud della California e della loro etichetta Crepúsculo Negro, nata nell’ottobre 2008. La maggior parte di questi gruppi sono originari del Messico e del Guatemala e hanno trovato nella comune discendenza indigena un propulsore, un elemento aggregante che ne ha rafforzato i legami di fratellanza. Il Black Twilight Circle celebra così le culture pre-ispaniche, le loro sofferenze, lo sciamanesimo e i suoi rituali. La musica resta però un elemento assolutamente centrale e non accessorio, come dimostrano gli split-compilation realizzati con un forte spirito di collaborazione (Tliltic Tlapoyauak racchiude addirittura sedici formazioni), la buona produttività di alcune band e i concerti in giro per il mondo, Europa compresa.

Eduardo Ramirez, portavoce del Black Twilight Circle

Reperire informazioni di prima mano sul Black Twilight Circle non è semplice e non esistono (più) contatti ufficiali online, quindi le interviste rilasciate dal portavoce Eduardo Ramirez (mente dei longevi Volahn e membro di numerosi gruppi) sono state le mie fonti più preziose per dare vita a questa breve panoramica; interessanti al riguardo i riferimenti al passato da galeotti di alcuni membri e l’aneddoto su quando misero in fuga alcuni neonazisti che stavano partecipando a un corteo xenofobo.

Stando allo stesso Ramirez, Les Légiones Noires sono una delle varie influenze del circolo, che non si riduce a proporre esclusivamente raw black metal cacofonico, insieme alla Norvegia anni ’90, al Brasile, alla scena polacca, greca, al Southern Tyrants Circle australiano, al BlazeBirth Hall russo e tutto il black-death occulto degli anni ’80-’90. I già citati Volahn sono il gruppo di spicco del circolo, con due album all’attivo e numerose uscite minori, e uno stile crudo e occulto con un pizzico di melodia. Gli Arizmenda si muovono sul versante depressive-suicidal, mentre gli Axeman hanno influssi crust-punk, gli Haunting Presence invece toccano anche il death metal.

Recuperare una delle rare cassette, formato preferito del Black Twilight Circle, sarà un’impresa pressoché disperata, ma su Youtube avrete modo di farvi un’idea sulle qualità musicali di questo circolo segreto.