Lycia: trentacinque anni tra deserto e gelo | Aristocrazia Webzine

Lycia: trentacinque anni tra deserto e gelo

Leggenda vuole che nel 1868 l’esploratore Phillip Duppa, una delle figure cardine dello sviluppo dello Stato dell’Arizona come lo conosciamo oggi, oltre a prendere parte alla fondazione della città di Phoenix, suggerì il nome per la vicina Tempe, appena più a est. Entrambi i nomi sono legati alla cultura Hohokam, l’antica popolazione che abitò il bacino di Phoenix dal quarto secolo dopo Cristo fino al 1500 circa: i nativi, la cui civiltà era prevalentemente legata all’agricoltura, nel corso dei secoli perfezionarono quella che secondo gli storici è la più complessa infrastruttura precolombiana di irrigazione, che contava oltre cinquecento miglia di canali. Un’opera mastodontica per l’epoca, che nel XIX secolo i pionieri riscoprirono e che ancora oggi viene usata come base per la gestione e l’approvvigionamento idrico di buona parte dell’Arizona centrale.
Da qui la toponomastica del luogo: Duppa vedeva la città di Phoenix come un insediamento pronto a rinascere dalle proprie ceneri — come la fenice — dopo oltre tre secoli di abbandono, e la zona al suo confine orientale come la valle di Tempe, valle celebrata dai poeti dell’antica Grecia appena a sud dell’Olimpo.

È proprio qui, in questa valle dai rimandi classici, che negli anni ‘80 un ragazzo schivo e riservato originario del Michigan dà vita a uno dei progetti più importanti e pionieristici dell’intero sottobosco darkwave. Mike VanPortfleet nella seconda metà di quel decennio è fresco di college e passa gran parte delle sue giornate a creare musica. Autodidatta, Mike arriva da una serie di esperienze sfortunate, gruppi in cui «cinque o sei persone facevano ciascuno la propria parte, cercando di cancellare gli altri». Esperienze frustranti, da cui Mike esce sviluppando una cosa sua, in cui riversare la propria personalità solitaria. Negli anni degli studi era molto appassionato di mitologia greca, e proprio dalla letteratura greca arriva il nome del progetto, Lycia, una regione dell’attuale Anatolia meridionale, in Turchia. «Col senno di poi, eravamo tutti un po’ pretenziosi al college, cercavamo di mostrare quanto fossimo intelligenti facendo vedere che conoscevamo la letteratura. Scelsi Lycia perché era una delle poche parole greche non complicate e difficili da pronunciare», dirà anni dopo.

Il primo parto di questa creatura è una cassetta stampata in appena cinquanta copie nel 1989, creata con la collaborazione di John Fair, amico di VanPortfleet fin dai tempi del college, che contiene sei canzoni. Già da queste poche tracce, registrate alla bell’e meglio e con una qualità che lascia a dir poco a desiderare, è chiaro che i riferimenti dei due musicisti sono vari e che la loro somma è qualcosa di personale e mai sentito: c’è il post-punk, con la ripetitività dei Joy Division, c’è il lato onirico e melodico dei Cure più recenti, quelli che si avvicinano a grandi passi alla pubblicazione di Disintegration, ma c’è anche qualcosa di più oscuro, di più profondo. L’inquietudine e il carattere ombroso di VanPortfleet si riversano in queste tracce, la sua voce roca e asciutta, litaniaca, che si sovrappone ai loop di chitarra e alla drum-machine secchissima di Fair, comunica un disagio e un’oscurità rari. È come se tutta l’insicurezza e il nichilismo di Ian Curtis e Peter Hook, tutti i timori e le immagini più fosche di Robert Smith attraversando l’Atlantico venissero gettate in un abisso gelido e senza fondo. «Everybody goes down there, everybody goes down, down there, down», tutti vanno giù, ripete allo sfinimento Mike a chiusura dell’EP.

Tanto basta per destare l’attenzione di Sam Rosenthal e della sua Projekt Records. Due o tre cose di musica cupa Sam le capisce, essendo padre e padrone dei Black Tape For A Blue Girl, ossia l’altra faccia della darkwave moderna. Dove i Lycia sono figli del post-punk e del rock, i BTFABG affondano le proprie radici nel mondo neoclassico, pop e ambient. Tra l’88 e l’89 Rosenthal esce dalle registrazioni di Mesmerized By The Sirens ed entra in quelle di Ashes In Brittle Air, ed è pronto ad accogliere in casa propria altre anime perse. Insieme, le due band daranno vita alla più interessante offerta di musica oscura alternativa (qualunque cosa questo significhi, d’altronde le etichette a VanPortfleet hanno sempre dato fastidio) a stelle e strisce per un decennio buono. Per i Lycia, la tappa successiva è il primo album vero e proprio: Ionia.

A questo punto i Lycia sono il solo e unico VanPortfleet, che si è separato da Fair e da qualunque altro collaboratore abbia orbitato attorno alla sua musica. Di nuovo un rimando greco, di nuovo una regione dell’attuale Turchia, di nuovo un viaggio nei meandri più reconditi dell’animo umano, che riparte proprio da dove “Down There” si era interrotta, al termine di Wake. “Ionia” è un’entità che perseguita il narratore, che lo trascina a fondo e non permette alcuna fuga, è una creatura che seduce, attira, e non lascia scampo. In numerose interviste i Lycia hanno dichiarato e ribadito, Mike in primis, che la principale ispirazione per la loro musica è da sempre data dall’ambiente circostante, ed ecco quindi nell’album “Desert”, con la sua melodia ossessiva e ammaliante, con la ricerca di espiazione e di catarsi che solo il deserto può dare, e i successivi due momenti di “Monsoon”. «Nel deserto, il monsone estivo è una cosa importante», dice il musicista, «sai, quando il temporale da oltre le colline porta un po’ di pioggia, è davvero una rinascita». Come le piogge estive, così i sintetizzatori di Ionia rinfrescano l’atmosfera, permettono al protagonista di rigenerarsi, di rinascere anche in mezzo al deserto dell’Arizona.

Passano altri due anni, è il 1993 e Ionia sembra aver avuto la meglio: Mike vive «una vita molto isolata, paranoide, alimentata ad alcol, nicotina e cocaina». Questo momento complicato è testimoniato da A Day In The Stark Corner, «più o meno una colonna sonora del sentiero di autodistruzione che avevo preso all’epoca». Tutto l’album è permeato da un senso di fine imminente, un’apocalisse ineluttabile che trascinerà con sé tutto e tutti. Il suono è stavolta più organico, più profondo e strutturato che in passato, e questo permette alle parti più industriali e metalliche dell’album di rendere le atmosfere ancora più opprimenti, come se Godflesh e Swans avessero deciso di nascondersi dietro linee di sintetizzatore trasognate e aggredire continuamente da sotto la superficie (“And Through The Smoke And Nails”). Ma è probabilmente la strumentale “Pygmallion” il più eloquente manifesto dei Lycia del 1993: di nuovo un rimando greco, il mito racconta di come lo scultore Pigmalione si innamori della sua stessa statua, Galatea, e chieda alla dea Afrodite di rendere la scultura un essere vivente, così da poter celebrare il proprio amore. Che, contestualizzando le parole di VanPortfleet, sembra la storia di un ragazzo spaesato e solo, che non ha occhi (né orecchie) altro che per la sua musica, in una vita isolata e solitaria.

In questo momento, il progetto è pronto ad allargarsi di nuovo. Mike vuole abbandonare la strada senza ritorno che sta percorrendo e, nella primavera del ‘93, inizia a collaborare con David Galas, multistrumentista anche lui originario del Michigan di una decina d’anni più giovane conosciuto qualche tempo prima. Mentre i due sono al lavoro su una caterva di nuova musica (in particolare quello che sarebbe diventato Vane, un album industrial che Projekt vuole pubblicare a nome Bleak), una ragazza con una fissa per i Lycia manda alla band alcuni suoi demo, e VanPortfleet, che da tempo coltiva l’idea di aggiungere una voce femminile al repertorio, la invita in Arizona a fare un giro in studio. Lei è Tara VanFlower, in Arizona ci va, e non se ne andrà mai più.

Il terzo disco in studio dei Lycia cresce a dismisura, alle prime sedici (!) canzoni continua ad aggiungersi materiale, e anziché frammentarlo su compilation, split e uscite minori da Projekt arriva il via libera per un doppio album: The Burning Circle And Then Dust. «In realtà mi sono un po’ pentito di aver fatto un doppio album», confesserà VanPortfleet poco tempo dopo, «perché i due dischi sono molto diversi tra loro. Il primo contiene il vero e proprio album originale. Avevamo poi delle altre canzoni sparse, “Nine Hours Later”, “The Facade Fades”, che ci piacevano molto e volevamo inserire nonostante i limiti di durata di un CD. A quel punto è arrivata Tara, ha cantato “Nimble” e “Surrender”, che avrebbero dovuto uscire su due compilation, ma sono uscite così bene che volevo inserire nell’album anche quelle. A quel punto il materiale era troppo per stare su un disco solo e Projekt ci ha suggerito di fare un doppio, così ho registrato qualche altra canzone un po’ più elettronica. Il primo disco si basa molto sulle chitarre, invece. Per me sono due album separati, hanno degli umori molto diversi tra loro».

Il 1995 è un anno fondamentale nella storia della band: The Burning Circle… è fresco di pubblicazione e il gruppo sta crescendo, tanto che Peter Steele vuole personalmente che i Lycia aprano ai suoi Type O Negative durante il tour previsto per l’autunno seguente. Il tour si fa, e l’esperienza è piuttosto logorante per certi versi e positivissima per altri. I metallari di metà anni ‘90 non erano abituati al fatto che una proposta completamente diversa e assolutamente non metal potesse aprire a una band come i TON, e i Lycia lo imparano a proprie spese: «È stato bello essere coinvolti, e a ripensarci oggi è stata un’esperienza fantastica. Ma all’epoca un paio di date particolarmente complicate mi colpirono molto. Ero viziato, i Lycia avevano tenuto una trentina di date da headliner nel ‘95, e non ero abituato alle critiche. La prima data del tour, a New London, fu pessima, con il pubblico che non la finiva di fischiare. Syracuse fu anche peggio. Mi sputarono addosso, e dovetti passare il concerto davanti alla mia pedaliera per evitare che venisse colpita da tutta la merda che ci tiravano addosso. Il fonico del locale mi disse che non aveva mai visto una platea più incazzata», avrebbe detto Mike vent’anni dopo a Vice, il ricordo di quell’esperienza ancora ben vivido nelle sue parole. Nonostante qualche avversità però «il supporto di Peter ci aprì molte porte, e l’interesse che viene dimostrato ancora oggi per noi ne è una diretta conseguenza».

Un altro passaggio pivotale di quest’anno è che il trio abbandona il deserto per il Midwest, perché dall’Arizona decide di andare a vivere tutti insieme in Ohio, per la precisione a Streetsboro, a mezza via tra Cleveland e Akron. Come già sottolineato a più riprese, la prima influenza per il gruppo è l’ambiente circostante, e il passaggio dall’estate quasi perenne alle tormente di neve nella Regione dei Grandi Laghi porta i tre musicisti a scrivere quello che è forse il loro capolavoro assoluto, Cold. VanPortfleet continua a comporre partendo dai sintetizzatori, come fatto per il materiale del secondo CD di The Burning Circle… e il materiale di Cold assume subito una corporeità diversa da tutto ciò che lo ha preceduto. Le strutture ora non poggiano più così rigidamente sulle chitarre, e le fondamenta delle nove canzoni sono più liquide che mai. Le atmosfere di Galas si sposano perfettamente con l’oscurità intrinseca di VanPortfleet e con la voce eterea di VanFlower e l’album è salutato da critica e pubblico come un tassello fondamentale di tutta la musica oscura degli ultimi trent’anni. Cold, pubblicato nell’ottobre 1996 sempre per Projekt, è un vero e proprio concept album sull’inverno, sulle sue atmosfere rarefatte e sui suoi paesaggi desolati, una sorta di controparte fredda del deserto che fino a questo punto ha informato la musica dei Lycia. Il connubio unico tra testi frammentati, atmosfere cupe e melodie sognanti, marchio di fabbrica della band, rimane il medesimo, ma è la consapevolezza a essere completamente diversa. I Lycia sono ormai nella piena maturità, in totale controllo delle proprie capacità espressive.

La scalata verso il successo però subisce un brutto arresto quando, in tour, VanPortfleet inizia ad avere problemi di salute. «Dopo un paio d’anni avanti e indietro scoprii che i miei problemi derivavano da un’insorgenza tardiva di diabete di tipo 1, che mi accompagna da allora. Il momentum dei Lycia stava crescendo, e quello fu il primo ostacolo che ci impedì di andare in tour. Questo fu un catalizzatore per il mio senso di smarrimento degli anni 2000 e per tutta la negatività che mi sono portato dentro. Sono stato inconsciamente arrabbiato molto tempo per questa cosa, perché mi ha rubato quella che sentivo poteva essere una buona carriera musicale». I lavori in seno alla band procedono, anche se un po’ a rilento, e nel 1998 arriva Estrella, secondo e ultimo tassello dell’esperienza in Ohio. Non solo la salute di Mike, ma anche l’interesse del pubblico, a questo punto, sembrano mettersi di traverso: «Nel 1998 i nostri dischi erano nelle listening station di Borders [una catena di negozi di libri e dischi molto forte negli anni ‘90 e, ironicamente, fallita nel 2011], l’anno dopo Borders non aveva nemmeno più i nostri dischi a catalogo», ricorderà nel 2015 intervistato da Pitchfork.

Estrella è un buon album, che pur non raggiungendo i picchi di tutti i suoi predecessori mostra una band in grado di cesellare musica di qualità a cadenza regolare, ma i cocci iniziano a sfaldarsi. Nel ‘99 i quattro fanno un ultimo tentativo di completare un nuovo album, ma la band si scioglie formalmente prima di terminare i lavori, e quei frammenti rimarranno nel cassetto per anni. A quelle sessioni di registrazione fa seguito un tentativo di provare qualcosa di nuovo in solitaria da parte di Tara e Mike, nel frattempo tornati in Arizona, e nasce il breve progetto Estraya, che inizia e finisce con appena due sessioni di registrazione. La prima diventa The Time Has Come And Gone (2000), la seconda Tripping Back Into The Broken Days (2002), che viene tra l’altro pubblicato direttamente a nome Lycia. Dice a riguardo lo stesso MVP sul sito di Projekt: «Estraya è il lato acustico di Mike VanPortfleet e Tara VanFlower. I suoi umori sono un’estensione dello stile inizialmente esplorato nelle canzoni “Everything Is Cold” e “Goddess Of The Green Fields”, dall’album del 1993 ‘A Day In The Stark Corner’. La cupa austerità che influenzò quell’album è molto presente in questi brani, che potrebbero essere visti come una sorta di suo prosieguo».

A questo punto tanto vale svuotare definitivamente i cassetti, e anche le sessioni incomplete del ‘99 vengono rilasciate come Empty Space, ma ormai è il 2003 e i Lycia hanno terminato il proprio percorso, o quantomeno la prima parte di esso. Gli anni passano, il mercato musicale muta profondamente e il catalogo della band assume sempre più uno status di culto, anche per responsabilità di Projekt, che con l’andare del tempo entra in una sorta di quiescenza, non preoccupandosi più di mantenere disponibili i propri titoli e di fatto defilandosi dalle scene.

Per leggere il resto di questo articolo dovrai pazientare un po’, lo troverai in forma completa all’interno del primo numero cartaceo di Aristocrazia.