Dal Denver Sound alle cronache di Lupercalia: un viaggio nel mondo di Munly | Aristocrazia Webzine

Dal Denver Sound alle cronache di Lupercalia: un viaggio nel mondo di Munly

Questo articolo propone al lettore una breve antologia, per sua natura parziale, della produzione musicale di uno dei maggiori esponenti e pionieri dell’alternative folk americano, la quale prende il via negli anni ’90 e si sviluppa, lenta e silenziosa, fino ai giorni nostri. La figura in questione è quella di Jayson Thompson, noto con il nome d’arte di Jay Munly (o semplicemente Munly), musicista e cantante canadese naturalizzato americano, nato in Québec, cresciuto in Ohio e infine stabilitosi a Denver, in Colorado.

Entrato in contatto già in giovane età con il banjo di suo padre, un cimelio antico a cui accede di nascosto e con la condiscendenza della madre, sviluppa sin da subito una fascinazione per le sonorità tipiche del folk americano e per il mordente, estremamente rurale, della musica gospel. Un attaccamento tale che lo porterà a diventare una figura di spicco della scena musicale di Denver e del cosiddetto Denver Sound, tanto che il suo tocco e la sua voce sono rintracciabili in numerosi progetti, sia ideati da lui sia ai quali partecipa unendo le forze con personalità altrettanto importanti. Di grande valore sono in particolare la sua amicizia e le sue collaborazioni con Slim Cessna (sia nei Slim Cessna Auto Club che nei DBUK), altro rappresentante di spicco della scena alt-folk americana.

Per una lettura più approfondita sulla natura e sull’origine del Denver Sound, definibile sinteticamente come una formula particolarissima di folk, legato al gospel e al blues e intriso di atmosfere gotiche, rimando all’articolo di CPR Indie 2012.3 intitolato Yes, there is a ‘Denver Sound,’ and here’s a brief history. In questa sede prendo invece in analisi tre dischi appartenenti a tre distinti progetti di Jayson Thompson, cercando di definire le radici della sua idea di musica, delle tematiche affrontate e di esaltare la prolificità, oltre che la qualità, della sua arte.


Jay Munly – The Jimmy Carter Syndrome

(Smooch Records, 2002)

The Jimmy Carter Syndrome del 2002 è ad oggi l’ultimo disco del progetto solista di Thompson iniziato negli anni ’90, e raggiunge vette compositive mai toccate negli album precedenti. Progetto solista solo fino a un certo punto, visto il gran numero di collaboratori che contribuiscono a creare sfumature compositive molto profonde, sia dal punto di vista strumentale (con varie tipologie di percussioni e strumenti ad arco) che canoro. Basti pensare alla presenza di David E. Edwards, veterano dei 16 Horsepower e tutt’ora attivo con il suo progetto Wovenhand, e alla voce meravigliosa di Rebecca Vera, compagna di vita di Thompson e punto fermo di ogni sua creazione musicale.

The Jimmy Carter Syndrome è un disco che nella sua elevata lunghezza, che sfiora i settanta minuti, mette in luce due fondamentali punti di forza dello stile musicale di Thompson, che si ritrovano in ogni suo altro progetto: l’incredibile malleabilità della sua voce e una costruzione strumentale che sa essere evocativa e, allo stesso tempo, incredibilmente cruda. Analizzando proprio quest’ultimo aspetto, si nota come le solide radici country-folk vadano molto in profondità, sia nella presenza costante del banjo che nello stile canoro, colmo di espressioni colorite e cantilenanti. Allo stesso tempo, in particolare in alcune tracce (come “Chant Down Cap’n”), le atmosfere si fanno ciclicamente asfissianti, grazie all’uso di chitarre elettriche e tastiere. Un mix unico di oscurità e groove che dona momenti molto stimolanti e che traduce alla perfezione le storie racchiuse nei brani, tutte caratterizzate da una macabra e conturbante oscurità.

Una voce come quella di Munly è un unicum nella scena musicale attuale, un baritono che riesce però a muoversi agevolmente anche nelle tonalità più alte e squillanti. Uno stile peculiare e un ventaglio vocale di così grande portata (per gli intenditori di tecnica canora, un A1-F5) permette ai diversi personaggi dei suoi testi di prendere vita e di alternare i racconti e le emozioni da vari punti di vista. Questi ultimi si stagliano su paesaggi e atmosfere ambigue, in cui folklore e mondo reale si toccano spesso. Il boxer Gerry Cooney (“Cooney vs. Munly”), il giudice Ben B. Lindsey (“Circle Around My Bedside”), il fotografo Arthur “Weegee” Fellig (“Weegee_ The Uninvited_ Blues #2”), passando per personaggi puramente immaginari, immischiati in situazioni controverse, crude e, quasi sempre, velatamente fiabesche. Che siano gli anni ruggenti in cui Arthur Fellig divenne famoso per le sue foto delle scene del crimine o l’Ottocento americano intriso di ruralità e discriminazioni, essi vengono sublimati in una dimensione pregna di metafore e teatralità che conferisce loro una luce nuova e misteriosa.

Nel mondo narrativo di Munly spesso sono i bambini a essere protagonisti, attori inconsapevoli di inquietanti avvenimenti: il neonato che, avendo ucciso la madre con la sua nascita, viene visto come indemoniato e abbandonato nell’oceano all’interno di uno stivale (“The Denver Boot”), insieme al piccolo Sambo e ai suoi balli gioiosi, oramai inviso dai più e invitato a ritirarsi sulle stelle, lontano a Est (“My Darling Sambo”).

Nonostante una lunghezza considerevole e un’andatura spesso molto lineare, The Jimmy Carter Syndrome rimane uno dei momenti più interessanti del country-folk americano post-2000, proponendo una delle prime incarnazioni della formula compositiva di Thompson e del suo particolarissimo immaginario lirico.


Munly & The Lee Lewis Harlots – Munly & The Lee Lewis Harlots

(Alternative Tentacles, 2004)

Al 2004 risale il primo e unico disco scaturito da Munly & The Lee Lewis Harlots, che vede Thompson accompagnato da nuovi e vecchi collaboratori, come la già citata Rebecca Vera e da due membri dei The Czars, Jeff Linsenmaier e Elin Palmer. Pur riprendendo le atmosfere crude e grottesche di The Jimmy Carter Syndrome, in questa sede si amplia e migliora il lato compositivo, riuscendo a creare atmosfere ancora più viscerali ed elaborate. Già partendo dall’introduttiva “Amen Corner” ci si trova davanti a una batteria molto più rockeggiante e violini ispiratissimi su cui si staglia la voce spiritata di Thompson, un flusso mutevole di gorgheggi e suoni gutturali, alternati con un’andatura narrativa secca ed echeggiante. Anche nella successiva “Big Black Bull Comes Likes A Caesar” si rincontra la voce fatata di Rebecca Vera, le chitarre e i violini che intessono trame altisonanti e che fanno da sottofondo a una storia cruda e allo stesso tempo volutamente ermetica. I protagonisti sono due fratelli che sviluppano il loro rapporto intorno a eventi che alludono all’omosessualità e alla mascolinità tossica, con risvolti tragici e violenti non estranei alla visione conservatrice che l’America più rurale possiede, seppur in misura minore, ancora oggi.

La tragicità di brani come questo, così come di “Rajin’ Cajun” e “Goose Walking Over My Grave”, si alterna a momenti in cui a farla da padrona è la vena ironico-grottesca di Thompson e del suo universo narrativo. In brani quali “A Gentle Man’s Jihad” e “Cassius Castrato The She-Male Of The Men’s Prison” le atmosfere si fanno più distese, ma non meno intricate e ispirate. Partendo da quest’ultimo brano, si nota di nuovo l’estrema malleabilità vocale di Munly che questa volta si esibisce in un teatrale falsetto e che ci narra le disavventure di un carcerato che arriva ad auto-evirarsi pur di conquistare la sua libertà. “A Gentle Man’s Jihad”, colma di riferimenti alla Denver che Thompson ha vissuto per molti anni, risulta forse la più allegra e spensierata, con una sezione centrale che unisce un ritornello estremamente orecchiabile con una progressione tiratissima di banjo e batteria.

Se i concetti e lo stile lirico rimangono molto simili a quelli emersi nel suo predecessore, dal punto di vista strumentale il disco fa enormi passi in avanti, mantenendo una lunghezza complessiva parecchio elevata, con brani che molte volte raggiungono i sette minuti, e riuscendo a proporre invenzioni e atmosfere sempre nuove. La voce infernale di Munly ha trovato un’orchestra che riesce a controbilanciare la sua cupa e inquietante natura, facendone scaturire un connubio di bellezza, armonia, sangue e ribrezzo senza eguali nella scena contemporanea. A livello di testi, Munly & The Lee Lewis Harlots è ciò che più si avvicina a un pugno in pieno stomaco, con storie di stupri (“Big Black Bull Comes Like A Caesar”), aborti violenti (“Goose Walking Over My Grave”) e infanzie distrutte (“Jacob Dumb”). Un viaggio negli abissi più oscuri dell’America antica e rurale che riesce, nonostante la gravità e il tedio delle sue tappe, a far scaturire da ogni oscuro anfratto uno splendente senso poetico.


Munly & The Lupercalians – Petr & The Wulf

(Alternative Tentacles, 2010)

Il sodalizio con i Lupercalians rappresenta, allo stato attuale, l’ultimo progetto musicale incentrato sulla figura di Thompson. Una collaborazione che prende il via nel 2010 con Petr & The Wulf e che è tornata a far parlare di sé nel 2022 con il secondo disco, intitolato Kinnery Of Lupercalia: Undelivered Legion.

Il debutto getta le basi, sia musicali che tematiche, del suo successore. Questo progetto è infatti incentrato su un panorama narrativo ben distinto da quelli dei precedenti lavori: se le storie con cui Thompson ci ha deliziato — e straziato — precedentemente prendevano spunto da atmosfere crude e realistiche, in questo caso ci si trova di fronte a un connubio ben diverso e particolare. In Petr & The Wulf le vicende e i personaggi traggono ispirazione dall’omonima e iconica opera di Prokof’ev che ci narra le avventure di un giovane ragazzo alle prese con le ambivalenti forze della natura.; temi e personaggi che vengono ripresi da Thompson e trasportati in un universo letterario di sua invenzione. Tra il 2010 e il 2022, infatti, Munly pubblica due libri in cui si raccontano le origini e le disavventure della fantastica comunità di Lupercalia, in cui anche Petr e suo nonno ricoprono ruoli importanti. Una società che oscilla tra idillio e oscurità, in cui tutti gli esseri viventi sono ugualmente accettati e in cui le forze della natura assumono caratteri più vividi, agendo in prima persona nella storia della comunità.

Focalizzandosi su Petr & The Wulf e la sua essenza musicale, essa sembra imboccare una strada a ritroso: mentre i predecessori trovavano rifugio in sonorità care al classico country rock e alla sua strumentazione standard, qui i Lupercalians si addentrano in suoni e ritmiche dalla forte impronta tribale. La batteria lascia il posto a percussioni improvvisate e ipnotiche, le facce dei musicisti vengono coperte da maschere di tela care all’oscuro folklore occidentale e, all’improvviso, si viene trasportati in uno scenario rituale, in cui la Natura e i suoi sacerdoti detengono potere assoluto.

Riprendendo l’idea originale di Prokof’ev, ogni canzone del disco porta il nome di un personaggio diverso, così come differenti sono le atmosfere e le sfumature compositive che la contraddistinguono. L’esordio è presieduto da un narratore esterno, lo Scarewulf (che potrebbe essere tradotto come spaventa-lupi), un’entità astratta che ci anticipa numerosi personaggi che si incontreranno nel corso della narrazione, oltre che fornirci una visione tragica sul futuro della città di Lupercalia e di tutti i suoi abitanti. Una popolazione che spazia tra uomini (Petr e suo nonno), animali (l’uccello, il lupo, il gatto e l’anatra) ed entità sospese fra umano e divino (i Tre Cacciatori), che ci vengono presentati su un tessuto musicale tragico ed evocativo. Sin da subito la voce di Munly ritorna a fare scuola, sorretta dai cori ferini di Rebecca Vera, dal suo banjo spiritato e dalle tastiere, che spaziano tra sonorità squillanti e distensioni più cupe. Sono proprio le tastiere con le loro molteplici sonorità a donare ai brani una forte componente orchestrale, lasciando intatto l’aspetto sgangherato e rocambolesco proprio del country rock. Il folk dei Lupercalians si declina così verso atmosfere gotiche e struggenti (“Three Wise Hunters”), senza rinunciare al suo lato più allegro e melodico (“Duk”), né tantomeno a sferzate di groove dissacrante e oscuro (“Wulf”).

Questa ambivalenza compositiva si rispecchia perfettamente nella dimensione letteraria della fiaba, che per sua natura nasconde molto spesso, dietro una facciata spensierata e immediata, riflessioni intorno a tematiche macabre e antropologicamente fondamentali. Un dato di fatto che di certo non è sfuggito a Thompson, che riesce con leggerezza e serietà a intrecciare riflessioni intorno alla follia e al decadimento dei rapporti familiari con il canto degli uccelli e la goffaggine di un’anatra, la maestosità dei Tre Cacciatori con la rabbia graffiante del lupo. Ed è proprio quest’ultimo a concludere il disco, con la sua denuncia verso la violenza perpetrata dagli uomini nei suoi confronti e della loro stoltezza, che gli impedisce di vedere in loro stessi la causa delle proprie disgrazie.

Petr & The Wulf rappresenta probabilmente uno dei picchi massimi raggiunti dal folk negli anni 2000, mirabile e allo stesso tempo lontano dagli sguardi del grande pubblico. Pubblicato non a caso dalla Alternative Tentacles (etichetta fondata dall’icona del punk Jello Biafra), il disco di debutto di Munly & The Lupercalians rappresenta la manifestazione di una poetica fatta di figure e suoni familiari, ottenebrati da un linguaggio alle volte volutamente ermetico, ma che rimane, nella sua espressione, immediato ed emotivo.