Saturnus, il Paradiso vi appartiene
Non ci sono modi diversi per dirlo: o conosci il nome dei Saturnus perché senza doom non sai stare o sei finito su questa pagina per sbaglio. In uno dei sottogeneri più estremi del metal, nel quale le sfuriate e le accelerazioni sono sostituite da rallentamenti al limite della processione funebre, i danesi rappresentano una vera e propria icona, uno di quei nomi da conoscere per forza. Pur non avendo mai fatto veramente il botto commerciale come altre realtà, sono in giro dai primi anni ’90 più o meno senza soluzione di continuità, eppure in questi trent’anni hanno dato alle stampe appena quattro album, oltre a una manciata di uscite minori. La loro ultima opera, Saturn In Ascension, ormai è prossima a festeggiare il decennio di vita.
Il silenzio dei Saturnus, però, sta per finire: l’ingresso in studio non è un’esercitazione e, anzi, dà seguito alla notizia dello scorso ottobre di un nuovo accordo discografico firmato con Prophecy Productions. È da qui che nasce l’esigenza di scrivere questo articolo, uno speciale che vuole infiammare il cuore dei nostalgici che si ricordano di quando il signor :Of The Wand & The Moon: suonava le chitarre per i Saturnus, ma che spera anche di riuscire a preparare i novizi del (death-)doom all’arrivo di quella che sarà sicuramente una delle pubblicazioni di maggior rilievo del 2022. Tieniti forte, dunque, perché la strada per il paradiso è lunga e non è detto che il tuo cuore regga.

1991-2000: il Paradiso prima del Martirio
Gli anni Novanta sono iniziati da poco e un giovanissimo Thomas Akim Grønbæk Jensen si è messo alla ricerca di altre persone per mettere in piedi, indovina indovina, una band death metal. Il periodo è quello giusto, l’uscita di alcuni di quelli che tutt’oggi consideriamo capisaldi del genere è recente (Pestilence, Death, Vader, Carcass ed Entombed avevano già scritto pagine di storia) e l’incontro con Brian Hansen, il bassista storico del progetto, porta di lì a poco alla nascita degli Asesino. La primissima incarnazione del desiderio musicale di Jensen, però, ha vita breve. Dopo due anni, infatti, gli Asesino si tramutano in Saturnus e da quel magico ’93 l’ascesa del gruppo ha ufficialmente inizio.
Una manciata di mesi vola via, all’allegra combriccola si uniscono il batterista Jesper Saltoft, il chitarrista Mikkel Andersen e il tastierista Anders Nielsen: il quintetto è pronto a sfornare la sua prima demo. Promo Tape 1994 esce in formato cassetta, chiaramente autoprodotta, e ci consegna due brani: “Limbs Of Crystal Clear (To The Dreams)” e “Beware Of The Atheist”. L’influenza death metal è ancora preponderante, tanto negli arrangiamenti quanto nei testi (“Beware Of The Atheist” si commenta da solo), lascito della precedente incarnazione del progetto, ma l’ombra del doom è lì, in attesa: un seme ben piantato che aspetta solo di germogliare. Non bisogna attendere tanto per vedere i primi fiori del male di questo albero saturniano.
Il 1996 è dietro l’angolo e l’uscita della advanced tape di Paradise Belongs To You anticipa quello che sarà il debutto sulla lunga distanza del quintetto di Copenhagen. Un unico avvicendamento in quei due anni segna la band, con l’entrata di Kim Larsen al posto di Mikkel Andersen. La nuova cassetta firmata da Jansen e soci contiene, seppur in forma grezza, due solidissimi terzi della scaletta definitiva dell’album di debutto: un quantitativo di idee più che sufficiente per garantire ai Saturnus di ottenere un contratto con la Euphonious Records, una costola di Voices Of Wonder, che all’inizio del 1997 produce Paradise Belongs To You. Il primo album del gruppo deriva chiaramente da quanto contenuto nella demo del ’94, ma l’evoluzione è tanto lampante quanto profonda. Non sono solamente le ritmiche decisamente più lente e cadenzate che sostituiscono quelle più incalzanti tipiche del death a segnare una novità, quanto piuttosto l’attenzione posta dai cinque sul fronte della costruzione delle atmosfere: un esempio su tutti è l’eponimo “Paradise Belongs To You”, un brano oggi da manuale. I rallentamenti di batteria feriscono quasi più delle linee melodiche delle sei corde, il parlato che si alterna al growl cavernoso di Jensen è emblematico, i feedback iper-riverberati di chitarra saturano l’atmosfera senza comunque renderla opprimente, rivaleggiando con le tastiere per il dominio sul povero cuore di chi ascolta e il cinguettio di uccelli… quel maledetto cinguettio.

Il paradiso ti appartiene fa guadagnare al quintetto un discreto numero di riconoscimenti in breve tempo, tanto che i Nostri nel giugno dello stesso 1997 si esibiscono al Roskilde Festival in una delle loro performance più memorabili, mettendo su uno show destinato a essere ricordato, fosse anche solo per l’epica combo formata da “Christ Goodbye” e “The Rise Of Nakkiel (Nakkiel Has Fallen)” eseguita con un coro di otto voci diretto da Morten Skubbeltrang, che di lì a poco diventa il secondo chitarrista dei Saturnus. A un anno e mezzo dal successo di Paradise Belongs To You, il sestetto rilascia sempre in collaborazione con Euphonious l’EP For The Loveless Lonely Nights, una piccola raccolta di sei tracce che include la registrazione — effettuata da NRK Radiohus, una emittente radiofonica di Oslo — di “Christ Goodbye”-“The Rise Of Nakkiel (Nakkiel Has Fallen)” eseguita l’anno precedente al Roskilde assieme a una piccola manciata di brani. Tra questi spicca “Thou Art Free”, che successivamente sarà ripreso anche all’interno della scaletta del secondo album.
Martyre esce nel gennaio del 2000 dopo una serie di vicissitudini che a modo loro lasciano già presagire il futuro tumultuoso che attende la band. Prodotto dallo stesso Flemming Rasmussen che ha già messo le mani sui primi lavori dei Metallica, su Covenant dei Morbid Angel e su quel gioiellino che è Imaginations From The Other Side dei Blind Guardian, il disco infatti viene registrato tra l’aprile e il maggio del ’99, ma per una strana concatenazione di eventi non può vedere la luce prima dell’inizio del nuovo millennio. A modo suo, Martyre segna la fine del primo decennio di vita della creatura di Jensen e soci, una parabola fortemente in crescita, per il momento. Degno successore del debutto, non scende sotto l’ora di durata del suo predecessore e ne costituisce il perfetto continuo, stilistico, concettuale e — in toto — artistico. Death e doom si mescolano e si alternano senza mai rubare il primo piano alla vera caratteristica dominante del sound dei Saturnus: l’atmosfera. Altro album, altro piccolo cambio di line-up. Il disco viene registrato senza Skubbeltrang alle chitarre: al suo posto, a tenere compagnia al signor :OTWATM:, è Peter Poulsen, che collabora con i nostri amici saturniani fino al post-Veronika Decides To Die.
2001-2010: Veronika decide di morire
Il nuovo millennio si apre in maniera ambivalente per il death-doom in Europa. Da un lato, Aaron Stainthorpe e soci rilasciano The Dreadful Hours, i Paradise Lost pubblicano Believe In Nothing e i Katatonia proseguono il loro allontanamento dal metal estremo con Last Fair Deal Gone Down. Dall’altro, prima i Funeral danno alle stampe In Fields Of Pestilent Dreams nel 2001 e poi i Draconian di Anders Jacobson tirano fuori il loro primo album, il magnifico Where Lovers Mourn, nel 2003. In tutto questo, i Saturnus vivono un momento di stasi tutt’altro che privo di novità. La line-up viene scossa considerevolmente: Kim Larsen appende le distorsioni al chiodo e, sempre in quel magico 2001, pubblica il seguito di Nighttime Nightrhymes, l’iconico :Emptiness:Emptiness:Emptiness:. Abbandona la barca anche Jesper Saltoft, batterista dei Saturnus dai tempi della prima demo, e assieme a lui viene meno il bassista Brian Hansen, l’altro membro fondatore della band.
Probabilmente il buon Thomas Jensen non se l’è passata benissimo nei primi anni dei Duemila, ma armato di tantissima buona volontà — e di evidente voglia di riversare in musica tutto lo sconforto che la vita non manca di procurargli — non crolla e trova in Tais Pedersen, Lennart Jacobsen e Nicolaj Borg i degni sostituti dei membri defezionari, così nel 2004 iniziano a circolare le prime note suonate dalla nuova formazione saturnina: 45 minuti e titoli del calibro di “I Long”, “All Alone” e “Murky Waters”. Il lungo silenzio che ha segnato la prima metà degli anni ’10 dei danesi è rotto, e di lì a poco arriva l’album della svolta per i Saturnus.

Veronika Decides To Die viene registrato, prodotto e masterizzato nel 2005 da Flemming Rasmussen, lo stesso che ha contribuito al successo di Martyre in apertura di millennio. Il materiale attira l’attenzione della finlandese Firebox Records e così, nel giro di una manciata di mesi, il terzo album dei Saturnus vede ufficialmente la luce. Il disco trae profondamente ispirazione, come il titolo mostra chiaramente, dal romanzo omonimo del ‘98 di Paolo Coelho: una storia tragica, ricca di spunti e suggestioni perfette per un’opera di questo tipo. Jensen riesce a rendergli perfettamente giustizia, a partire già dalla veste grafica, la cui copertina viene realizzata da uno dei nomi più ripetuti in questi ambienti, ovvero Travis Smith. Sul fronte musicale, il lato doom della formula trova uno sviluppo fino a quel momento ineguagliato dal sestetto, che utilizza anche quintali di pianoforte, archi e cori. Eppure il death — sempre meno estremo e preponderante negli arrangiamenti — continua a non mancare mai, tanto che i momenti più concitati, ottimamente rappresentati da “Pretend”, non tradiscono minimamente lo spirito originale con cui, ormai quindici anni prima, Jensen ha messo insieme prima gli Asesino e poi i Saturnus. Veronika Decides To Die viene accolto benissimo dalla critica e consente ai nostri felicioni danesi di imbarcarsi in un tour europeo assieme a Thurisaz e Mar De Grises: la loro prima, lunga trasferta, a sottolineare ulteriormente il momento idilliaco vissuto. A coronare lo splendido periodo, nel 2010, ci pensa la Euphonious Records che, dopo aver ripubblicato in blocco i primi lavori, rende disponibile anche l’intera performance dei Saturnus al Roskilde Festival del ’97. Una porta sembra chiudersi alle spalle dei Nostri, e un portone aprirsi davanti, ma non va sempre tutto per il meglio nella vita, nonostante le più rosee prospettive.
2011-oggi: di Ascese e discese
Il secondo decennio dei Duemila si apre con una nuova esperienza in giro per il mondo. Il sestetto, infatti, oltre ad arrivare per la prima volta in Italia, attraversa mezza Europa e giunge fino all’Asia centrale, addirittura in Armenia e in Georgia. In tutto questo tram tram di viaggi e concerti, Jensen e company mettono giù un’altra mini demo che gli consente di accaparrarsi un contratto con Cyclone Empire; la stessa etichetta con cui hanno collaborato anche Count Raven, Isole e October Tide, per fare solo un paio di nomi.
Se la storia dei Saturnus è destinata a ripetersi, è lecito domandarsi chi sono gli e company di Jensen, a questo giro. Nuovo decennio, nuova formazione: ad affiancare il leader del progetto, dopo qualche anno di stop, torna l’ex partner e membro fondatore della cricca Brian Hansen che — al netto della brevissima parentesi dei The Loveless con Larsen e Saltoft — sembrava essersi allontanato dalla musica. Ricostituito il nucleo storico, i due lavorano al successore di Veronika Decides To Die assieme a Rune Stiassny e al redivivo Henrik Glass, sostituto di Saltoft alla batteria già durante il post-Martyre. Consolidata la formazione, stavolta a quattro, i Saturnus fanno ciò che sanno fare meglio: tornano in studio, sempre accompagnati dall’ormai fidato Flemming Rasmussen, e danno sfogo al loro animo sepolcrale.
Un po’ come era successo per il suo predecessore, Saturn In Ascension esce e viene rapidamente capito dalla critica, che giustamente lo inquadra come il degno successore di Veronika Decides To Die: l’eredità che il quarto album dei danesi raccoglie, però, non è semplicissima da gestire e infatti, come alcuni hanno notato, non è al 101% all’altezza dei prodigi passati, pur restando una chicca del death-doom. L’ascesa della creatura di Jensen e Hansen all’Olimpo del doom è lenta e densa di momenti che non fanno rimpiangere il passato più marcatamente death del progetto: la vista che si intravede raggiunta una certa altezza consente di osservare il superbo goticume che costella il panorama sottostante. “A Father’s Providence”, probabilmente su tutte, è la traccia che meglio rappresenta la band in questo preciso momento storico: una formazione solida che lavora come un meccanismo ben oleato, che sa dosare crescendo e rallentamenti, aperture atmosferiche e chiusure a riccio.
Il 2013 è l’anno delle celebrazioni. I Saturnus si imbarcano in un nuovo tour, un calendario fittissimo di date in giro per festival e club, destinato sia alla pubblicizzazione del loro ultimo lavoro, sia ai festeggiamenti del ventesimo anno di attività. Brutal Assault, Copenhell e Artmania sono soltanto alcune delle tappe toccate dai danesi in quei mesi, e il triennio ’14-’16 non è meno intenso. La line-up dei Saturnus, come i paragrafi precedenti hanno abbondantemente chiarito, parrebbe quasi avere una volontà propria e la presenza di Gert Lund, compagno di Stiassny alle chitarre, diventa tanto insopportabile che Jensen e Hansen sono costretti a licenziarlo… tutto questo a tour in corso.
La situazione, apparentemente insostenibile, viene salvata in calcio d’angolo da Martin Steene degli Iron Fire. Il danese, infatti, giunge in soccorso dei Saturnus e fa da turnista fino alla fine del tour. A quel punto, dopo aver contribuito a portare la band per la prima volta a Dubai, tra le altre cose, a Martin viene offerto un posto fisso tra le fila del gruppo e lui accetta. Questa sarebbe dovuta essere la formazione con cui chiudere gli anni ’10 e pubblicare il successore di Saturn In Ascension. Nel 2019 invece Stiassny e Steene si chiamano fuori, mentre Jensen, Hansen e Glass restano completamente in balia della sorte, a una manciata di mesi dall’inizio della pandemia ancora in corso.
L’avvenuta sostituzione dei due chitarristi, grazie all’entrata nella band di Indee Rehal-Sagoo (ex-Clouds ed ex-Eye Of Solitude) e di Julio Fernandez (Autumnal), consente poi ai Saturnus di ritrovare la stabilità perduta. L’annuncio del nuovo accordo con Prophecy giunge a ulteriore conferma della qualità del nuovo materiale composto dal quintetto. Il viaggio di questi titani dimenticati del death-doom è lungi dall’essere al termine, proprio come probabilmente non termineranno le sventure e i tiri mancini che la vita gli riserverà, ma una cosa è certa: all’annuncio di ogni loro nuovo lavoro, una nutrita schiera di appassionati drizzerà le orecchie e si preparerà alle lacrime. Perché l’esistenza è un martirio e l’ascesa al Paradiso che è la vita è tutt’altro che una passeggiata, ma in compagnia di artisti del genere va sempre tutto meglio.