VOIVOD: tra sangue e distopia (pt. II)
Dimension Hatröss (1988)
Loud echoes from the end /Nothing but a flat lie / All I need is a new world / Create my universe
(da “Experiment”)
Il quarto capitolo della saga del Voivod ha inizio in un laboratorio, all’ombra di macchinari inconcepibili da una mente umana. Da Killing Technology deve essere passato parecchio tempo nella vita del nostro protagonista, ora annoiato e disilluso sulla sorte dell’universo e delle civiltà che lo popolano. Tutto ciò che sente sono «forti echi provenienti dalla Fine» e la realtà gli appare oramai come una «piatta bugia». Ciò di cui ha bisogno è un nuovo universo che riesca a offrire ai suoi occhi spettacoli ed esperienze a lui sconosciute: e cosa, se non una dimensione parallela, potrebbe spalancargli orizzonti così vasti? Tramite un processo sospeso tra fantascienza e alchimia, Egli sembra aver finalmente realizzato il suo desiderio.
The four basic forces / Are ready and fixed / All set to prove myself / It really exists […] I have enough of my land / Putting myself in this project / Within a space that’s still secret / Am I to blame for future fate ? / A ball of energy / Vortex around me / I have to realize / My theory is wise!
(da “Experiment”)
Introdotto magistralmente da giri di chitarra ipnotici e da ritmiche cadenzate, l’esperimento si avvia alla sua fase cruciale: i macchinari sibilano ed emettono suoni frenetici, i protoni vengono sparati a velocità luce contro gli anti-protoni e dalla loro collisione scaturisce l’energia sufficiente per de-materializzare il Voivod. Affinché possa sopravvivere a questo pionieristico esperimento, il nostro protagonista deve però rinunciare alla sua forma materiale ed essere catapultato verso la Dimensione Hatröss sotto forma di entità puramente psichica. L’esperimento ha successo e l’arrivo del Voivod sulla superficie di questo pianeta sconosciuto è fulmineo e inaspettato. Giunto come un lampo nella notte, Egli stabilisce il primo contatto con le forme di vita autoctone. Radunati intorno a un grande fuoco, un nutrito gruppo di uomini appare dedito a strane danze e a rituali orgiastici, inebriato da bevande alcoliche e ritmi tribali.
I’ve just arrived / Like a flash in the dark / My life has been / Lit up like a spark / They turn around the big fire / They sing a song to get higher / I’ve just got here / To find underbrains / I’ll watch their voodoo / That starts the rain
(da “Tribal Convinction”)
Essi vengono distolti dalle loro pratiche da una forte esplosione nel cielo e da un boato assordante, che li riduce al silenzio e a una quiete reverenziale. Il Voivod appare ai loro occhi come un essere incorporeo, quasi ineffabile, ma minacciosamente presente. Non avendo mai assistito a un avvenimento così monumentale, e non avendo mai incontrato un’entità di tal specie, i primitivi sembrano, in un primo momento, molto confusi. La sola risposta che la loro mente limitata riesce a formulare è naturale, per nulla dissimile da quella partorita millenni fa dai nostri lontani antenati, estasiati e intimoriti da terremoti e fulmini.
We’ve never seen… that before / It’s what we’ve been…waiting for / It just arrived / To save our lives / The flying lord / The God of all time / Have no idea… what it thinks / But have no fear… we trust it / It is the leader / Of our sacred wars / Came from the sky / It rules so far!
(da “Tribal Convinction”)
Sconvolti ed estasiati, gli indigeni finiscono per riconoscere nel Voivod nientemeno che una divinità, la più alta e nobile di tutte, giunta tra loro per condurli vittoriosi nelle loro guerre. Un verdetto che lascia attonito e quasi sorpreso il nostro protagonista, che dall’alto della sua conoscenza e nella profondità del suo spirito è ben consapevole della sua natura tutt’altro che divina. Ciò su cui si basavano le sue convinzioni originarie, all’epoca degli spargimenti di sangue e delle scorribande su Morgoth, è ormai stato annichilito da una incessante evoluzione e da una ricerca insaziabile, che barcolla continuamente tra scienza ed esperienza. Viaggiare tra i pianeti (prima) e tra le dimensioni (poi) gli ha aperto gli occhi sulla conflittualità e sull’ineluttabile caos che domina tutto ciò che è. Quanto ha visto al di fuori di Morgoth lo ha intimamente cambiato e lo ha portato a prendere coscienza della complessità della sua stessa natura. Se in War And Pain si presentò al mondo come «dio pazzo» e «cane feroce», ora che è giunto nella Dimensione Hatröss la domanda che ricorre incessante nella sua mente, quasi come una schizofrenica cantilena, è: «Who’s god?… Who’s dog? / Who’s god?… Who’s dog? / Who’s god?… Who’s dog? / Who’s god?… Who’s dog?» (da “Tribal Convinctions”).
Dopo aver preso coscienza di questa sua profonda ambiguità e abbandonati i primitivi alle loro euforiche danze, il Voivod entra nella parte centrale di questa dimensione, tutt’altro che retrograda e barbarica. Ciò in cui si imbatte sono strani esseri difficili da definire con accuratezza, inseriti in una sorta di mente-alveare che ne controlla senza sosta i movimenti e i pensieri. Quella che definiremmo come una società distopica — di scuola orwelliana, probabilmente — al nostro protagonista appare incredibilmente concreta, tanto da esserne subito assorbito e controllato.
It seems like I’m one of them / A kind of people I can’t describe / They got a number between their eyes / Identity has been commanded / Subconscious has recorded / The orders from the big head / I’m now a part of this machine / Supervised by the telescreen
(da “Technocratic Manipulators”)

Una società centralizzata e totalitaria, però, non è mai priva di nemici, interni o esterni che siano, e questa non fa eccezione. In questa rete quasi indistruttibile si muovono, evasivi e letali, degli strani individui identificabili come assassini o semplici terroristi: questi figuri, conosciuti come Chaosmongers, si dedicano ad atti di sabotaggio e di guerriglia rivolti contro il sistema, cercando di infrangere la rete di controllo delle coscienze. Azioni che, inevitabilmente, causano numerose vittime tra i civili innocenti.
Setting bombs anywhere / Terrorists everywhere […] The chaosmöngers / Prefer to get away / When people fall down
But they killed the wrong ones
(da “Chaosmongers”)
Una guerra che si manifesta come giusta e necessaria, ma che mostra, come tutte le guerre, le sue sfaccettature più spietate e fatali. Vite umane offerte come sacrificio sull’altare della libertà: un’attività che anche noi terrestri abbiamo avuto modo di praticare lungo tutta la nostra volgare evoluzione. L’anelito per la libertà adesso sfiora anche il Voivod: nonostante la sua conoscenza e la sua forza, finisce intrappolato nella rete di scansione mentale, senza un’apparente via d’uscita. Eppure, anche se nascosta quasi perfettamente, esiste una via d’uscita percorribile. Lungi dall’essere rivelata da atti di concreta rivolta (come quelli dei Chaosmongers), essa si cela nei meandri della mente e del suo inconscio, rintracciabile unicamente dopo un lungo conflitto con se stessi e con i propri pensieri. Superiore agli innumerevoli schiavi del Grande Fratello made in Dimension Hatröss, il Voivod riesce a compiere questa pericolosa impresa, addentrandosi nei meandri della sua interiorità e facendo prevalere la sua disumana volontà di potere e di libertà. Dopo una lunga lotta, egli riesce ad accecare gli occhi che instancabilmente scrutavano dentro di lui e a scacciare le voci che lo assillavano.
How could I stop the entrance / Over the stress / I have to find the weakness / Involve a quest / Between my mind and myself […] / Inverse the strike to take the lead / Then following what I believe […] / I’m now able / To push those spirits outside / My thought is free / And forever lives in me / Psychic transfer / I’ve stolen their unique power
(da “Psychic Vacuum”)
Come abbiamo già avuto modo di vedere, la natura del Voivod è fondata su una costante evoluzione e sull’assimilazione di ciò che lo circonda. Anche questa volta, portato a confrontarsi con qualcosa che era apparentemente al di là delle sue forze, esce dallo scontro più forte di prima, e in grado di padroneggiare lo stesso immenso potere che lo legava alla Dimensione Hatröss. Il Voivod è riuscito a cogliere la vera essenza del suo avversario, finendo per utilizzare contro di lui la sua stessa arma; tutto ciò che poteva essere appreso viene barbaricamente assorbito, lasciando questa dimensione parallela priva di qualsiasi interesse per il nostro protagonista. Forte dei suoi nuovi poteri mentali, il Voivod innesca una catena di eventi catastrofici che, raggiunto il loro zenit, portano alla distruzione dell’intera realtà, la realtà che lui stesso aveva creato. Dopo essersi mostrato dubbioso ed essere stato succube di poteri al di sopra dei suoi, si rivela nuovamente nella sua forma spietata e fredda: indifferente rispetto a tutto, è pronto ad abbandonare la Dimensione, lasciando dietro di sé nient’altro che il Nulla.
My mind’s mutation / With my psychic power / Imploring the quasar […] / The quasar is coming / Ordered by my mind / Spreading X-rays / Making the system blind […] / Comets flying / Emanating a gas / Intoxicating every form of life / Setting the machine / Awaiting to leave / My bones and my soul / On my way back home / Have a look behind / Nothing more to find…
(da “Cosmic Drama”)
Dimension Hatröss rappresenta senza ombra di dubbio il capitolo più denso di avvenimenti e di contenuti della saga del Voivod. Il disco dipinge magistralmente l’insaziabile fame di sapere e di potenza che caratterizza questo essere misterioso, capace di portare alla luce un’intera dimensione dal nulla e di rispedirla in quel nulla nel giro di pochi istanti, mostrando un pragmatismo così perfetto da apparire inquietante. Questa assoluta perfezione del Voivod si rispecchia nella musica che ne è messaggera, risultato di un miscuglio di sonorità a dir poco uniche nel loro genere.
Con Dimension Hatröss i Voivod entrano ufficialmente nella storia della musica estrema, forgiando un progressive thrash che rimarrà d’esempio per tutte le successive generazioni di musicisti. Sulla dimensione tecnica e stilistica, ahimè, ci sarebbero fin troppe parole da scrivere e troppe sorprese da rovinare, compiti che, come già accennato in precedenza, non intendo intraprendere in questa sede. Basti sapere che con questo quarto capitolo i Voivod raggiungono un equilibrio perfetto tra thrash metal e progressive, mantenendo l’esplosività del primo e la ricerca tecnica del secondo su piatti perfettamente allineati. E anche i capitoli successivi non accenneranno ad arrestare l’evoluzione, spingendo ancora più oltre questa corsa disumana verso la perfezione.
Nothingface (1989)
La vetta di questo irrefrenabile processo evolutivo è raggiunta, innegabilmente, nel quinto lavoro in studio: Nothingface, del 1989. Esattamente un anno dopo Dimension Hatröss, un nuovo capitolo della saga del Voivod viene rivelato al mondo e il suo contenuto si dimostra, fin dal primo ascolto, sconvolgente. Nati dal fango dell’hardcore e del thrash metal meno di dieci anni prima, questi giovani canadesi si stagliano ormai prossimi alle vette olimpiche del prog. Un’evoluzione che mostra la profonda influenza di gruppi come Rush e Pink Floyd nella formazione musicale di tutto il quartetto e che lascia ora segni evidenti nel loro nuovo sound. Su Nothingface si assiste a una pulizia sistematica della sonorità, a partire dalla voce di Snake, che abbandona qualsiasi tipo di scream, fino alle sonorità del basso di Blacky che ammiccano esplicitamente a quelle dei maestri del prog anni ’70 (in primis a quelle dei connazionali Rush). Insomma, ciò che i Voivod hanno fatto con Nothingface è stato scagliarsi senza remore contro l’ormai esile muro che li separava dagli anni ’90 dietro l’angolo, portando con sé un messaggio carico di voglia di sperimentazione e di esplorazione artistica; messaggio che è stato ricevuto e diffuso da numerosissimi artisti che resero gli anni ’90 musicalmente indimenticabili: basti pensare che gruppi come i Neurosis e i Death presero esplicitamente come modello l’indole evolutiva dei Voivod, impiantandola su terreni sonori differenti.
Nelle sue trame, Nothingface offre un esile filo rosso, capace di disvelare un nucleo concettuale comune agli altri album, sebbene meno evidente rispetto a Dimension Hatröss o Killing Tecnology; la natura stessa di Nothingface, che abbandona la sostanziale linearità dei lavori precedenti, rende la narrazione discontinua e più difficile da collegare in un’unica rete concettuale.
Indizi importanti vengono rivelati nel primo brano, “The Unknown Knows”, che dimostra già a livello metrico i cambiamenti rispetto ai precedenti capitoli. Il cantato e la sua andatura si fanno più astratti e criptici, abbandonando la consequenzialità e la prosaicità dei testi del passato; parallelamente anche le tematiche diventano più profonde, ma sempre legate al peculiare background spaziale e fantascientifico della band.
Things come and go / This world is droll / All that I know / The Unknown knows […] / Talk to me you flying shadows / Wandering into the ozone stew / Keep your myths from the embryos […] / Stop… wait / I wish I knew the one who knows / Yesterday will come / With tomorrow’s sun
(da “The Unknown Knows”)

Da questo primo assaggio si evince lo slittamento delle riflessioni del Voivod verso un più alto grado di astrazione, tendente al filosofico. Dal testo, così come dalla musica che lo accompagna, emerge chiaramente la frenesia inarrestabile del cosmo, composto da materie effimere e caduche, destinate a compiere azioni al di là del proprio potere e, nel caso degli esseri senzienti, al di là della loro comprensione. Questo Caos primordiale, già più volte incontrato in altri capitoli della saga, viene accostato a una figura sconosciuta, immensamente superiore a tutti gli esseri esistenti: soltanto essa, sembra essere a conoscenza delle cause e soprattutto degli scopi di tutti gli avvenimenti del mondo. Appare molto chiaramente l’apertura di un orizzonte di ricerca che allude a dilemmi di natura teologica, gli stessi che tormentano l’umanità sin dagli albori della civiltà e che rimarranno miseramente irrisolti.
Altro limite invalicabile, sia da un punto di vista filosofico che biologico, è rappresentato dalla coscienza e dal suo legame con la mente. Lungi dal poter viaggiare libera e abbandonata in un etereo flusso di pensieri e di idee, la mente umana è legata indissolubilmente al corpo e ai suoi ristretti limiti. Nel secondo brano il messaggio si fa ancora più criptico, quasi difficile da enunciare; è possibile cogliere soltanto alcuni indizi, forse riferiti a un nuovo esperimento del Voivod, ancora più ardito e complicato di quello compiuto nella creazione della dimensione parallela Hatröss. Come si osserva nella copertina del disco, sembra che il nostro protagonista sia riuscito a isolare la propria coscienza, attaccandosi a sofisticati macchinari, rilasciandola al di fuori dei circuiti e degli schermi e abbandonando dietro di sé solo un involucro privo di lineamenti.
May I? May I? / Valves plugs pump to erase / Rictus from my face / Lapse of time / Synchro freeze / Loop rewind / Forward speed […] / I hope, I need / I want to dream / Cold choke, choke cold / I float unseen / Outside the screen […] / A wish, extreme / Awaiting the stream
(da “Nothingface”)
Scavando a fondo, il tema più importante dell’intero disco, su cui si strutturano riflessioni di diversa natura, è ancora una volta uno degli argomenti che più affascina e tormenta la mente di molti di noi: la natura dell’uomo. Lungi dall’essere espresso in modo univoco, questo tema mostra facce differenti durante l’ascolto: in un primo momento assume la sua connotazione più demoralizzante, descrivendo la presa di coscienza da parte dell’uomo della casualità e della mera materialità del suo io, definito da un incrocio di geni incontrollabile e sterilmente immanente; raggiunto il punto più profondo della nostra mente, ci rendiamo conto di essere nient’altro che un’immagine riflessa dei nostri geni, dei nostri cromosomi e di quelli dei nostri antenati, e stentiamo a cogliere anche solo una scintilla di autentica e assoluta identità. D’altra parte, la nostra assoluta immanenza nella materia ci rende un ingranaggio perfettamente oleato del motore del mondo, connesso a tutte le parti che lo circondano. Un sentimento accomunabile alla visione panteistica della divinità, in cui Dio, lontano dall’essere un’entità unica e personale, si identifica con uno spirito che pervade tutta la materia; ed è questa visione che rende l’essere umano essenzialmente compatibile con il cosmo in cui si ritrova.
All am I, I am all / Fluorescent light / Pellucid mineral / Essential dogma
(da “Inner Combustion”)
Ad accompagnare queste tematiche vi è il riferimento ricorrente alla follia, strettamente legata alla sfera della coscienza umana. L’esplorazione dei meandri della nostra mente è costantemente sabotata dai limiti della nostra natura mortale che, a differenza di quella del Voivod, sfocia spesso in comportamenti e sensazioni di incontrollabile autodistruzione. Una condanna inalienabile, ma costantemente messa in discussione dall’intrinseca libertà dell’uomo che tende senza sosta alla conoscenza di sé e del suo mondo, spingendo sempre più lontano i suoi limiti. Nothingface porta con sé, quindi, uno spostamento tematico molto netto verso le frontiere dell’astratto e dell’assurdo, e si focalizza sul tema della coscienza e della mente, due delle componenti fondamentali di tutti gli esseri umani. Questo approfondimento si ritrova sospeso tra un pessimismo cosmico e una forte valorizzazione dell’umano dal punto di vista delle sue potenzialità recondite. Tutto ciò viene narrato lasciando la figura del Voivod in una penombra che ne illumina il suo lato puramente metaforico: Egli rappresenta la massima realizzazione delle grandi potenzialità dell’essere umano, le quali trovano però un ostacolo insormontabile nelle inespugnabili mura dell’io. Almeno finché non si spalancheranno del tutto le porte della scoperta tecnologica, svelando mezzi e tecniche a noi sconosciuti, ma già acquisiti e utilizzati dal nostro protagonista.
Da questo discorso si intuiscono la pregnanza e la completezza, sia musicale che tematica, di Nothingface, culmine dell’evoluzione del Voivod e dei suoi adepti, l’uscita dall’autostrada della storia e l’avventura su sentieri ancora più oscuri e inaccessibili, al di fuori dello spazio e del tempo. Come ogni evoluzione, però, non è immune da stravolgimenti e regressioni, oggetto di analisi del prossimo e ultimo capitolo, il quale rappresenta sotto molti punti di vista un’involuzione onnilaterale, sia a livello musicale che narrativo. Con Phobos si apre un punto di vista su un ramo diverso di questa incessante evoluzione, un ramo che per avvenimenti storici fu inizialmente sradicato dalla sua naturale posizione e che riapparirà in seguito mostrandosi, per questo, anacronistico ma non meno memorabile.
Phobos (1997)
Nei primi anni ’90 i Voivod subiscono importanti mutamenti. Per varie ragioni sia Blacky che Snake lasciano la band, anche se solo momentaneamente, e vengono rimpiazzati da Eric Forrest alla voce e al basso. Questo cambio di formazione si accompagna a un cambio netto di sonorità e stile compositivo, che porta alla luce suoni di inedita pesantezza e distruttività. Dei due album composti insieme a Forrest, Negatron e Phobos, quest’ultimo brilla di una luce molto particolare: oltre a essere un ottimo disco già di per sé, se viene osservato e collocato nella linea evolutiva del progetto Voivod, rivela con ancor più stupore le sue originali sfaccettature.
Partendo proprio dai suoi aspetti tecnici, si nota sin dal primo ascolto un enorme stravolgimento sonoro: le chitarre di Piggy degenerano in profondità e distorsioni tendenti quasi al death metal, abbandonandosi a riff incisivi come denti di una sega a nastro e ulteriormente esasperati da una ciclicità ipnotica. Basta arrivare al terzo brano del disco, “Mercury”, per rendersi conto di questa prima grande differenza rispetto agli eleganti e aggraziati riff presenti su Nothingface. Poi c’è la title track, a mio parere una delle perle compositive più originali del disco (se non una delle più memorabili dell’intera discografia dei Voivod): il riff iniziale, con il suo andamento ridondante e meccanico, simula alla perfezione il suono di una sirena d’allarme, un segnale che avverte di un pericolo imminente: il brano, così come l’intero album, è colmo di fatalità e disperazione, frutto dell’arrivo di un’entità misteriosa in prossimità del pianeta Terra.
Reborn / In need of energy / Reform to bring on anarchy […] / Return of the forgetten race / Tonight there is no time to waste […] / Vital demon / Spirit of zoth / Toxic vapor / Leader of souls / You will be / You will see / Anark! / Transmute / Become the moon
(da “Mercury”)
A quanto pare il Voivod, sfinito dal complicato processo di auto-coscienza intrapreso su Nothingface, ha deciso di uscire dal suo antro, nascosto al di fuori dello spazio-tempo, per nutrirsi e per ricordare all’intera galassia la sua esistenza e il suo illimitato potere. Sotto forma di nebulosa dalle inquietanti sfumature rossastre appare Anark, il quale deicide di fondersi con la luna del pianeta per poter gettare la sua tremenda luce sugli sventurati abitanti della Terra. Il suo potere si manifesta come sospeso tra magia nera e tecnologia irrefrenabile, concentrato su una misteriosa torre situata sul pianeta, dall’origine sconosciuta e dall’aspetto imponente. Dalla sommità di questa torre Anark espande un’aura di controllo mentale sull’umanità, grazie al suono di una sorta di campana dai poteri irresistibili.
Questa atmosfera tetra e opprimente si accompagna, come già accennato, a sonorità spesso estremamente pesanti e seriali che non degenerano mai, però, in pura distruttività senza criterio. Ancora una volta, a fare da collante tra le diverse componenti sonore è la chitarra di Piggy, che mantiene viva la natura sperimentatrice di Nothingface anche in mezzo a questo mare di suoni oscuri e disorientanti. Parallelamente, sul piano narrativo, Anark non può essere inquadrato e descritto semplicemente considerando la sua furia dominatrice. Ciò a cui si fa più volte riferimento è un miscuglio di pratiche psichiche e tecnologie di controllo planetario, una sorta di prodotto ottenuto dall’unione della «spider web over the atmosphere» descritta su Killing Tecnology e lo «psychic vacuum» ottenuto dal Voivod su Dimension Hatröss.
Complete world control / Design the signal / Log on / Spy wed satellite / Network spider site / Digital neurons / Dta system on
(da “Phobos”)
Oltre a questi aspetti comuni alle sue precedenti incarnazioni, il Voivod mostra nuovi poteri e nuovi macchinari al limite dell’assurdo, così distanti dalla nostra idea di scienza da apparire come magia pura e semplice, scaturita e alimentata da un’energia talmente inconcepibile da non poter essere compresa appieno dai poteri della tecnologia. Il controllo di Anark sugli abitanti del pianeta è tale da sfociare in atti di necromanzia, che manifestano in modo sconcertante il suo totale dominio: nemmeno la morte può liberare le vittime dalla sua egida.
Verso la fine del disco la narrazione si fa più intricata, mostrando dinamiche inedite. Dopo aver trattato i poteri e gli oscuri intenti di Anark, ecco una rivelazione sulla sua natura e sulla sua genesi. A quanto pare questa entità, che ha la forma di una nebulosa impossessatasi della Luna, nasce come un essere antropomorfo che, dopo aver intrapreso un viaggio nello spazio per salvare il pianeta natale, si ritrova solo e abbandonato su quest’altro corpo celeste (presumibilmente lo stesso che è ora da lui governato). Sperduto su un mondo sconosciuto, deve fronteggiare una lotta per la sopravvivenza contro il pianeta e contro la sua stessa psiche.
Now I’ve come back / Crusing the day my maker took / My strength away / Planet control / To save my world […] / I fight alone / Me with my selves / Battling ghosts / Part of this hell […] / Lost in this world / Feeling forlorn […] / Anark my given name / Close my eyes / Fade away…
(da “Forlorn”)
Dopo la sconfitta subita dall’ambiente impietoso, questo individuo — che con molta probabilità è identificabile con il Voivod fermo a uno stato evolutivo inferiore rispetto a quelli esaminati nei due capitoli precedenti — finisce per abbandonarsi e chiudere gli occhi, cercando nella morte un sollievo in grado di risanare le sue ferite. Ciò che accade subito dopo è a noi sconosciuto, ma da quel che ci viene raccontato nei primi brani del disco (sopratutto nel secondo, “Rise”) sembra che Anark, una volta morto (realmente o simbolicamente), sia mutato. Le sue spoglie mortali sono rimaste sul pianeta, ma il suo spirito ha preso la forma di una nebulosa pulsante di energia, finalmente pronta a prendere il sopravvento su quello stesso mondo che sancì la sconfitta del suo io precedente.

Se paragonato a Dimension Hatröss e a Nothingface, Phobos appare sicuramente meno intrigante per chi ha ormai assaporato le vere capacità dei Voivod. Ciò non toglie però che rimanga ammantato di un’aura particolare, unica nella discografia della band. Proietta l’ascoltatore verso una finestra aperta su una dimensione parallela e su un passato non ben definito; più precisamente, mostra ciò che i Voivod sarebbero potuti essere prima di giungere al sublime con Nothingface e facendo alcune scelte compositive più estreme. Un disco non essenziale, ma molto particolare e diverso rispetto a tutti i suoi predecessori. La giusta conclusione per un’epopea di questa portata.
Tante parole si possono spendere su un gruppo come i Voivod, un gruppo che troppo spesso non riceve l’attenzione che meriterebbe. Molte altre cose ci sarebbero da dire, dopo Phobos: la morte di Piggy nel 2005, lo scioglimento, la reunion e il nuovo materiale partorito negli ultimi vent’anni, ma abbandoniamo la creatura della band canadese ai suoi apici, almeno per il momento, e continuiamo a goderceli dal vivo; anche se con parecchi anni sulla spalle e senza due dei membri fondatori, i Voivod riescono ancora a infuocare il palco e a trasportarci con uno schiocco di dita tra le fiamme di Morgoth e negli oscuri meandri del nostro io.