L’intreccio di storia e leggenda nella parabola dei Windir
Gruppo: | Windir |
Fondazione: | 1994 |
Provenienza: | Norvegia |
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Discografia:
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DOVE, COME, QUANDO
Per parlare dei Windir (da pronunciarsi vindir) bisogna prenderla alla lontana, non partire necessariamente da Adamo ed Eva ma perlomeno dal XII secolo sì, e più precisamente da quell’arco di tempo che va dal 1130, anno di morte di Sigurd I, al 1240, che vide l’affermazione definitiva di Haakon IV Haakonson come re di Norvegia e pose fine alla cosiddetta Era delle Guerre Civili Norvegesi. Dobbiamo tornare così indietro nel tempo perché sarà questo periodo storico a diventare uno dei fulcri attorno ai quali ruoterà l’opera di Terje “Valfar” Bakken, un ragazzo nato e cresciuto a Sogndalsfjøra, paesino sulle rive del Sognefjord, il fiordo più grande e profondo del Paese. Sono tanti i ragazzetti di belle speranze che da adolescenti, complice una grande passione per la musica ascoltata, si trasformano in autori e musicisti; molti lo fanno in maniera scomposta, improvvisata e senza un reale obiettivo a lungo termine (e fra questi ce ne sono alcuni che hanno comunque avviato fortunate carriere), altri si dedicano invece anima e corpo perché sentono di avere sul serio qualcosa da dire, da raccontare. Terje era uno di questi, ma la sua parabola artistica, finita tragicamente fra le nevi di Fagereggi, durerà appena un decennio. Nella finestra di tempo che va dal 1994 al 2004, prima da solo e poi con un solido gruppo alle spalle, Valfar e i Windir scriveranno pagine indelebili, riuscendo a raccontare una dimensione locale, legata a un passato lontanissimo con un gusto e una spinta emotiva mai visti, fino ad allora, nel panorama del viking metal.
UN GIOVANE CANTASTORIE
Valfar ha sedici anni quando nel 1994 registra la prima demo su audiocassetta, Sogneriket (Regno di Sogn, letteralmente), autoprodotta e stampata in un numero imprecisato di copie. Grezzo e inciso coi piedi quanto volete, il primo vagito targato Windir (guerriero primigenio) non è il piagnucolio di un neonato qualunque: ci sono una sensibilità e un senso della melodia tutti nuovi, che non ci saremmo mai aspettati di trovare fra le pieghe del metal suonato da un adolescente. Per cui succede che fra brani di black metal piuttosto canonico (“Krigaren Si Gravferd” e “Sogneriket”) trovi spazio la malinconica “Immortality”, con tanto di duetto fra voce maschile e femminile, e che tra il folk incalzante di “Dans På Stemmehaugen” e il terzinato maideniano “Soge I – Reisen” si erga solenne “Fjell Og Dagar”, in cui a farla da padrone è l’organo. Tante idee come pure tanta confusione, alla quale Valfar prova a porre rimedio operando una migliore selezione sul materiale da registrare e riproponendosi ad appena un anno di distanza pubblicando Det Gamle Riket. Con la metà dei brani rispetto alla precedente demo, il vecchio regno aggiusta il tiro tanto sul fronte della coerenza stilistica quanto sulla qualità media della registrazione, suscitando così le simpatie di due redattori di Likhvit Zine (una minuscola rivista indipendente con base ad Asker, vicino Oslo) che, unendo le forze, aiutano Valfar a ristamparla in ben 100 copie e con l’aggiunta dell’artigianale “Krystallnatt”. Lo sforzo della Aurvang Productions — così si chiama la mini-etichetta nata ad hoc — consente alla musica dei Windir di raggiungere la platea giusta e di guadagnarsi, nel giro di pochi mesi, la firma di un contratto con la Head Not Found: questa era la sotto-etichetta della allora Voices Of Wonder (ora Voices Music & Entertainment) dedicata alla produzione di metal estremo quasi esclusivamente norvegese, sotto la cui egida sono passati artisti come Ulver, Emperor, Tormentor e Ragnarok. Per la HNF usciranno i soli quattro album della storia del gruppo.
A questo stadio i Windir sono ancora una one man band, almeno ufficialmente, perché Valfar continua a figurare come il solo membro effettivo, occupandosi tanto della composizione quanto di buona parte degli strumenti, ma mentre alcuni amici fanno da turnisti come seconde voci o coristi (ad esempio un giovanissimo Gerhard “Ulvar” Storesund, poi batterista degli Einherjer), un altrettanto giovane Jørn “Steingrim” Holen siede ormai stabilmente dietro le pelli e sarà, assieme a Terje, l’unico ad aver suonato su ogni disco pubblicato a nome Windir.
LA CRESCITA
Sóknardalr vede la luce nel marzo del 1997, un anno che segna anche il debutto dei Kampfar — altra compagine norvegese, con Mellom Skogkledde Aaser (Malicious Recordings, poi ristampato da Napalm Records) — e l’uscita di un piccolo classico del viking metal, Eld (Osmose Productions) degli Enslaved. Da questi l’esordio dei Windir si distingue per una scrittura fresca e articolata, pur con tutta l’immaturità del caso, e per gli ingegnosi arrangiamenti di chitarra e tastiere: i brani sono eterogenei, sfaccettati, pieni di cambi di tempo. Prendiamo “Sognariket Sine Krigarar” (Guerrieri del Regno di Sogn), che si apre con un blast beat bello teso, salvo poi alternare cavalcate in libertà e momenti quasi da inno sacro, con sintetizzatori e voci pulite. Originale — il titolo lo è un po’ meno — “Sognariket Si Herskarinne” (Signora del Regno di Sogn), nella quale la chitarra acustica sembra incarnare il personaggio oggetto della canzone, dando un accento folk che nel corso di tutto l’album non assume mai toni festaioli o caciaroni, ma crea un’atmosfera agreste credibile. Quest’ultima si lega inaspettatamente bene ai toni più drammatici di “Likbør”, forse l’episodio più alto del disco, e alla conclusiva title track, strumentale dall’incedere lento e fluido.
La Norvegia rurale e la sua storia poco nota continuano a essere le principali fonti di ispirazione di Valfar che, a due anni da Sóknardalr, si riaffaccia sulle scene con Arntor (1999, Head Not Found). Lo fa affacciandosi idealmente sull’uscio che compare sulla copertina, che si porta con sé una storia un po’ controversa: l’illustrazione è presa, infatti, da uno dei manifesti realizzati da Harald Damsleth per la Nasjonal Samling (Unione Nazionale), partito collaborazionista fondato dal politico e poi criminale di guerra Vidkun Quisling. È verosimile che la scelta sia puramente estetica, dal momento che i Windir non hanno mai espresso posizioni politiche, se non parteggiando per personaggi di un tempo molto remoto, i quali si battevano contro l’egemonia del tiranno di turno. Il contesto storico ci riporta all’Era delle Guerre Civili Norvegesi e a Sogndal, il comune che ha dato i natali alla band e ad Arntor, protagonista del pezzo più rappresentativo del gruppo. La fisarmonica di “Byrjing” ci trasporta nel paesaggio immortalato sulla discussa copertina e ci accompagna all’epica “Arntor, Ein Windir”, racconto della sanguinosa vendetta di Arntor e di altri abitanti della zona sugli spregiudicati governatori locali; rei, tra l’altro, di essere fedeli all’usurpatore Sverre Sigurdsson. Storia, leggenda e folclore sono le fondamenta di altri due brani iconici: il sinistro racconto sulle presenze che si aggirerebbero nei dintorni del tumulo di Re Hydnes (“Kong Hydnes Haug”) e quello di un fabbro in rotta con un troll (“Svartesmeden Og Lundamyrstrollet”). Mentre la battagliera “Kampen” (Lotta) è una riflessione rabbiosa sui cambiamenti che hanno investito Sogndal e più in generale l’intero Paese, a partire dall’arrivo del Cristianesimo, imposto col pugno di ferro, fino all’urbanizzazione e alla conseguente gentrificazione delle campagne causata da un turismo in crescita esponenziale. La chiusura è affidata alla sofferta introspezione di “Saknet” (Desiderio) e a “Ending”, che riprende le melodie del brano tradizionale “Anne Knudsdotter” ma con un testo adattato da Valfar.
Su Arntor la maturazione è palese e riguarda tutti gli aspetti: la scrittura si è fatta ancora più attenta, la si apprezza soprattutto nei brani lunghi, che risultano dinamici e godibili; la produzione, complice la registrazione effettuata al Grieghallen Studio di Bergen e il missaggio di Pytten — figura ai limiti del mitologico, responsabile del lavoro tecnico dietro a decine di dischi storici fra cui In The Nightside Eclipse, De Mysteriis Dom Sathanas e l’intera discografia di Burzum — fornisce la giusta grana alla fotografia di una band pronta per il definitivo salto di qualità e a portare le storie e le leggende del proprio paese — dove per paese intendo proprio Sogndal — sulle mensole dei metallari di mezzo mondo. Il corpus narrativo e quello mitologico dei Windir sono infatti espressione di un’area geografica circoscritta, come sottolineato anche dall’uso del sognamaol (variante regionale del norvegese parlata nel territorio di Sogn) per gran parte dei testi. I Nostri rappresentano un unicum nella scena viking, perché non raccontano delle solite razzie contro questo o quel monastero, non parlano della forza di Thor né del genio maligno di Loki, bensì di eroi locali, di leggende che spaventano i bambini e di avvenimenti storici visti dalla prospettiva del popolo: la quintessenza del folclore. La rabbia del viking metal — con le sue sfuriate e le contaminazioni della musica tradizionale — è la forma che Valfar vuole dare alla sua memoria, è il grido di un passato che cerca di sopravvivere in una chiave inedita, lontana dal passatismo kitsch di altri gruppi del genere e che, nelle prove discografiche successive ad Arntor, assumerà forme inaspettate.