Pillole di male #12: The Devil’s Trade, Igric, Softcult
Quando parliamo di musica cerchiamo di farlo nel modo più approfondito ed efficace possibile, sviscerando aspetti salienti quali i contenuti dei testi ma evitando le sterili sbrodolate di un’analisi traccia per traccia forzata. Per questa ragione avere fra le mani il disco fisico è una necessità oltre che una gratificazione: studiare il libretto, verificare la qualità audio del supporto, ammirare la copertina. Talvolta però non è possibile ricevere il materiale promozionale o acquistare il cd/vinile/musicassetta in prima persona per una serie di motivi economici o logistici: perché magari prodotto in numeri limitatissimi (anche oltreoceano), troppo costoso, oppure già esaurito o ancora in attesa di essere stampato. In tutti questi casi solitamente avremmo alzato le mani, nonostante la qualità delle opere ascoltate, e ci saremmo dedicati ad altro, privando però i lettori di una occasione di conoscenza, seppur parziale. Fino a oggi. Perché la rubrica Pillole Di Male arriva per colmare questa lacuna: non vere e proprie recensioni, piuttosto dei consigli per gli ascolti in pastiglie… ma senza effetti collaterali! Un modo per stuzzicare il vostro appetito musicale e condividere quanto ci ha appassionato fra le uscite underground più recenti.
The Devil’s Trade – The Call Of The Iron Peak
(Season Of Mist, 2020)
The Devil’s Trade è entrato nei miei radar nei primi mesi della pandemia e la recentissima collaborazione tra Dávid Makó e i Der Weg Einer Freiheit non ha fatto altro che ingigantire il mio interesse nei confronti del progetto ungherese. Makó, precedentemente voce degli Stereochrist (band doom di Sopron con membri dei Magma Life e degli HAW), si è dato all’acustica, al post-rock e al folk da poco meno di una decina di anni e The Call Of The Iron Peak è il suo terzo album, quello che l’ha portato sotto l’egida di Season Of Mist. E se il colosso francese ha messo sotto contratto il nostro amico, un motivo ci deve essere.
La musica di Makó è viscerale, sincera, e i suoi arrangiamenti, per quanto possano apparire semplici, tessono filo dopo filo una trama fittissima e intricatissima che imbriglia l’ascoltatore e lo tiene al sicuro, mentre tra un colpo di banjo e una pennellata di voce l’artista magiaro gli assesta il colpo che lo manda al tappeto. Credo sinceramente che la voce di Makó sia strepitosamente espressiva: il duetto coi TWEF ne è una prova, ma nel suo mondo, nella sua diretta e personalissima dimensione, Dávid spicca dieci volte tanto, che canti in inglese o nella sua lingua madre (“Három Árva”). Non esattamente male come ci si aspetterebbe dal titolo dell’articolo, ma The Devil’s Trade, senza troppi fronzoli, riesce a fare decisamente tanto, tanto male.
Igric – Svet Svetlom Stvorený
(Autoprodotto, 2021)
Epico, atmosferico, imponente e impetuoso, il secondo album di Igric è uscito un po’ in sordina la scorsa estate, a poco meno di quindici anni dal debutto sulla lunga distanza della one man band slovacca. Svet Svetlom Stvorený è figlio della violenza magniloquente di matrice tutta slava di Elderwind, Graveland e Nokturnal Mortum. A chi bazzica questi lidi qui potrebbe quindi titillare il titillabile, ma non è solo a questa fetta di metallari che il disco potrebbe interessare.
Sebbene tutto sia sempre nelle mani del solo polistrumentista slovacco, in Svet Svetlom Stvorený viene assistito dal connazionale Svarthen (Aeon Winds, Dissvarth ed ex Midnight Odyssey), con cui condivide anche l’attività nei Distant Shapes, e il risultato finale ne guadagna molto. La presenza della voce possente quanto putrescente dell’ospite, unita al contesto di arrangiamenti grossi e ben articolati, innalza l’opera una spanna oltre l’auspicabile, riportando talvolta alla mente echi ultraterreni propri dell’esperienza di Svarthen con Dis Pater. Che dire, dunque, se non molto bene.
Softcult – Year Of The Snake
(Autoprodotto, 2022)
«Music for mall goths» è probabilmente la definizione più azzeccata che si potrebbe dare alla produzione delle Softcult, duo canadese immerso appieno in quello che è il moderno universo dark. Phoenix e Mercedes, dall’alto dei loro venti-trenta anni anagrafici, guardano indubbiamente al passato, musicalmente parlando, tenendo allo stesso tempo un secondo occhio aperto sul presente e il terzo puntato sul futuro, da buone figlie degli anni ’80-’90-’00… Lo ammetto, non lo so nemmeno io, ma sembrano entrambe strepitosamente giovani.
Year Of The Snake è il loro secondo ep, sequel dell’anno del topo, in una sorta di concept sfasato rispetto alla realtà; sfasato, ma non troppo, perché dal punto di vista testuale le nostre giovani dimostrano una certa propensione all’attivismo sociale. “BWBB”, acronimo di «boys will be boys», denuncia senza mezzi termini la dialettica del «ma so’ ragazzi» che giustifica abusi e violenze, “House Of Mirrors” non risparmia critiche al moderno meccanismo che schiaccia e annichilisce l’essere umano, mentre “Spit It Out” ci restituisce un’istantanea della pressione psicologica imposta dal peso sociale che la società dà all’apparenza rispetto al contenuto; e siamo appena a metà disco. In una ventina scarsa di minuti, le Softcult ci accompagnano in un viaggio straniante che, a suon di dream pop, indie e dark-goth, ci obbliga a riflettere su noi stessi e sul mondo in cui viviamo. Buon anno del serpente a tutti e a tutte, direi, anche se siamo da poco entrati in quello della tigre.