I migliori album non metal del 2022 | Aristocrazia Webzine

I migliori album non metal del 2022

Il 2022 è finito: lunga vita al 2022. Non l’avremmo mai detto per com’era iniziato, ma nel corso dei mesi, almeno musicalmente, ha saputo riscattarsi, tirando fuori tantissimi dischi di qualità e accompagnandoci attraverso un post-pandemia, un conflitto in est Europa (ancora in corso) e una vagonata di altri avvenimenti più o meno buoni. Come sempre, una serie di premesse prima di passare alla ciccia.

Anche quest’anno i nostri listoni non sono esaustivi perché, per quanto ci proviamo, non è possibile fisicamente monitorare tutto ciò che esce. Ci siamo persi qualcosa di grosso per strada? Faccelo sapere: ti odieremo a morte perché ci farai spendere il resto della nostra tredicesima in dischi che non sapremo dove mettere. Anche quest’anno i listoni sono stati votati a maggioranza e quindi provano a dare una visione di insieme dei gusti della redazione più che di un singolo collaboratore. E, per ribadire l’ovvio, anche stavolta i titoli che leggerai sono presenti per un motivo e uno soltanto: perché piacciono a noi. Non sei d’accordo? Bene così.


Björk – Fossora

(One Little Independent, 30 settembre)

Un titolo che è il femminile, intenzionalmente errato, della parola latina fossor, che sta per scavatore; un disco che palesa un interesse per i funghi, buffe forme di vita che proliferano in ambienti umidi e che sono fortemente connesse al terreno; una tragedia familiare, concretizzatasi nella morte di sua madre. Questi sono alcuni dei punti da tenere in considerazione per comprendere la nuova, eclettica e pazzissima creatura di Björk, o almeno provare a farlo.

È incredibile come la versatilità e la fluidità dell’artista islandese continuino, dopo tre decadi come minimo, a far drizzare le orecchie a milioni di ascoltatori nel mondo, e sì che Björk non può esattamente definirsi prevedibile o adeguata al mainstream: al contrario, fa e ha sempre fatto esattamente quello che le pare, ed è per questo che (ci) piace. Perfino per i suoi standard, Fossora è folle, sognante, pieno zeppo di voci sovrapposte e un tappeto di strumentazione, anche classica ovviamente, che finisce per generare un risultato che definire variegato è dire poco. Si sfiorano generi molteplici, tutti uniti da una nuvoletta di fumo e psichedelia che suggerisce l’idea di un viaggione mentale che parte dal basso, dalle radici, ma che trasporta in paesaggi mentali visti soltanto in sogno, o sotto l’effetto di qualcosa. E, di questi viaggi psichici, Fossora è la folle, intricata, bizzarra colonna sonora.


Heilung – Drif

(Season Of Mist, 19 agosto)

«Amplified history», la Storia amplificata: il genere che si auto-affibbiano gli Heilung travalica i confini del folk, della musica ancestrale dei popoli e di quelli geografici stessi. Partita da un nucleo composto da tre persone a cavallo tra Germania, Danimarca e Norvegia, questa entità è arrivata a inglobare un quantitativo di influenze e di persone che rispecchia perfettamente il suo scopo, ovvero la celebrazione delle civiltà umane e il loro rapporto con la natura, arrivando a portarsi in giro — a occhio e croce — una ventina tra musicisti e ballerini sui palchi di tutta Europa.

Drif è al momento la summa di quanto gli Heilung si sono prefissati di fare. Strumenti realizzati come si faceva un tempo (e per un tempo intendo migliaia di anni fa), una grande varietà di lingue usate tra cui il norreno antico e un focus più ampio della solita Scandinavia mirato a ricreare il senso universale dell’esistenza erano già ben presenti nei due dischi precedenti: con il terzo album, la proposta si fa più ricca e rotonda, con sintetizzatori e sperimentazioni che vanno di pari passo con suoni della natura, percussioni primitive e voci gutturali. Un viaggio che spoglia l’uomo di tutta la modernità accumulata nel tempo, ponendolo su un piano equo con il resto della materia vivente.


Author & Punisher – Krüller

(Season Of Mist, 11 febbraio)

L’entità musicale Author & Punisher, partorita dalla mente di Tristan Shone, risulta interessante e unica per diversi motivi. Volendo tralasciare il fatto che la maggior parte della strumentazione utilizzata è autoprodotta, grazie alle sue conoscenze ingegneristiche, anche la musica che ne scaturisce è uno degli esempi più personali e ispirati dell’industrial contemporaneo. Krüller, in particolare, stupisce per le sue forti fascinazioni per la synthwave anni ’80 e ’90, con atmosfere distese e allucinogene che si integrano perfettamente con lo spirito indomito dell’industrial.

Su tracce come “Incinerator” e “Maiden Star” emerge alla perfezione questo conflitto tra una ricerca rapsodica per la melodia e un tappeto ritmico indomito e martellante. Un ammorbidimento sonoro che ha fatto storcere il naso a non pochi ascoltatori, ma che al contrario può essere semplicemente inteso come una ulteriore esplorazione delle infinite possibilità che la musica elettronica ha da offrire. Se infatti queste sonorità riprese a piene mani dalla già citata synthwave, così come da alcuni esponenti del trip hop, non sono novità assolute in questi ultimi anni (basti pensare ai più recenti dischi degli Ulver), Shone ne dà una sua personalissima interpretazione. I beat imperiosi che da sempre caratterizzano i suoi dischi non perdono nulla della loro potenza, andando però a insinuarsi in un mondo di atmosfere che, nostalgicamente, guardano al glorioso passato della musica elettronica.


Birds In Row – Gris Klein

(Red Creek, 14 ottobre)

Il trio francese dei Birds In Row ritorna sulle scene a quattro anni di distanza dal precedente We Already Lost The World, una piccola gemma che ha lasciato un segno indelebile nel panorama post-hardcore contemporaneo. Una cicatrice impressa a fondo grazie a un mix bilanciatissimo di devastazione e policromie melodiche, un alternarsi di romanticismo e sprezzante attitudine hardcore che si ripresenta anche in Gris Klein, continuando la linea inaugurata dal suo predecessore.

Brani come “Confettis” mettono ancora una volta in luce uno stile personalissimo, fatto di ritmiche cadenzate e chitarre eteree, melanconia e introspezione che rimangono sullo sfondo di un muro di suoni impenetrabile. A differenza di numerosi lavori post-hardcore vicini allo screamo e all’emo, in cui si viene annichiliti da prestazioni canore al limite dell’animalesco o sciolti da eccessi di melassa, con i Birds In Row ci si trova in un perfetto equilibrio espressivo. Dal deciso crescendo di “Noah”, passando per l’attacco devastante della successiva “Cathedrals”, fino alla struggente “Trompe L’Oleil”, il cantato riesce a trovare sempre nuove soluzioni, intrecciandosi con l’altrettanto imprevedibile comparto strumentale. Un alternarsi di semplici e dirette mazzate con ricercate dissonanze rende l’ascolto assuefacente e mai scontato, grazie a una perizia che non rimane mai fine a se stessa, ma che va ad arricchire — e non a snaturare — la vena HC del gruppo.


Carpenter Brut – Leather Terror

(No Quarter Prod, 1 aprile)

Nel giro di una manciata di anni, quel pazzo maniaco di Carpenter Brut si è affermato di prepotenza sulla scena elettronica più spinta, quella particolarmente apprezzata dai maniaci del metallo per le sue sonorità distorte e i riferimenti alla cultura pop del secolo scorso. Cinema, cult, ma anche musica: nell’ultimo lavoro del francese Franck Hueso c’è tutto questo e anche di più degli anni ’80 e ’90. Titoli di apertura e poi giù con beat e synth più aggressivi di un cane con la rabbia.

Leather Terror porta con sé un carico non indifferente di ospiti: primo della lista, Gunship, che presta la sua voce a “The Widow Maker”, la quale pare mimare le atmosfere al limite della synthwave cyberpunk di Essenger, Scandroid e affini. In un macello del genere non poteva non finirci anche Greg Puciato, l’inarrivabile cantante dei mai abbastanza apprezzati Dillinger Escape Plan, la cui voce ci delizia sul beat di “Imaginary Fire”. Poi è momento depressione, momento culto, perché sulla successiva “…Good Night, Goodbye” ci sono gli Ulver: i padrini del black norvegese, poi finiti a fare elettronica, hanno unito le forze con Carpenter Brut e il risultato — inserisci improperio — è grandioso. La scaletta poi prosegue a suon di estremismi digitali e altre ospitate di qualità (meritevolissima di menzione quella di Sylvaine su “Stabat Mater”), lungo un rollercoaster di emozioni che il metallaro medio fa finta di non provare ma che — in realtà — si gode appieno. Leather Terror è una di quelle opere che, veramente, dovresti amare e che — se stai leggendo questo articolo di tua spontanea volontà — amerai sicuramente.


Darkher – The Buried Storm

(Prophecy Productions, 15 aprile)

Prendiamo un calderone e mettiamo a bollire l’oscura ed epica colonna sonora di The Northman, una ragionevole dose di doom — che non guasta mai — e la Loreena McKennitt più meditativa. Aggiungiamo ora una buona dose di foschia oceanica, giusto per gradire, e otterremo un distillato ammaliante quanto The Buried Storm dei Darkher, ovvero il duo composto da Jayn Hanna Maiven e Christopher Smith.

L’effetto di questo intruglio carico di fascino è assai potente: basta un brano per trovarsi catapultati su una scogliera impervia o su una spiaggia deserta, con la sola compagnia delle nubi e delle onde che si infrangono contro le rocce, e la vagamente opprimente sensazione che non ci si possa veramente sottrarre a questo sound carico della poesia malinconica che solo l’avvicinarsi di una tempesta può far toccare con mano. Questo è il livello di fascino e potenza evocativa di cui è pregno The Buried Storm, e non esagero se dico che, mentre scrivo, mi sembra quasi di avvertire l’odore di salsedine emanato dall’album che mi fa immediatamente scordare il presente, proiettandomi invece in una dimensione senza tempo.


GGGOLDDD – This Shame Should Not Be Mine

(Artoffact Records, 1 aprile)

A un primo ascolto, This Shame Should Not Be Mine risulta godibile per la maniera in cui gli olandesi GGGOLDDD intrecciano e sovrappongono diversi livelli di influenze e suggestioni musicali, tirando in ballo l’elettronica raffinata, la darkwave e qualche sprazzo di post-black metal, incorniciando il tutto con la voce suadente della cantante Milena Eva.

L’album assume tuttavia un risvolto decisamente più sconcertante quando ci si concentra maggiormente sui testi e si acquisisce la consapevolezza del fatto che nasce da esperienze dolorose che per la stessa Milena non deve essere stato certamente semplice rievocare, anche solo al fine di trasporle in musica: «What have you done / My body crumbles / I wanna never see it again», canta in “Spring”. Tutto ciò rende This Shame Should Not Be Mine un disco apparentemente etereo e scorrevole, ma allo stesso tempo incredibilmente sofferto, oscuro e a tratti soffocante. Non a caso, i GGGOLDDD hanno chiarito persino nella biografia su Spotify che la loro musica rappresenta la colonna sonora perfetta per guardare il mondo mentre collassa: come dar loro torto?