I migliori album metal del 2022: 5 menzioni speciali
Il 2022 è finito: lunga vita al 2022. Non l’avremmo mai detto per com’era iniziato, ma nel corso dei mesi, almeno musicalmente, ha saputo riscattarsi, tirando fuori tantissimi dischi di qualità e accompagnandoci attraverso un post-pandemia, un conflitto in est Europa (ancora in corso) e una vagonata di altri avvenimenti più o meno buoni. Come sempre, una serie di premesse prima di passare alla ciccia.
Anche quest’anno i nostri listoni non sono esaustivi perché, per quanto ci proviamo, non è possibile fisicamente monitorare tutto ciò che esce. Ci siamo persi qualcosa di grosso per strada? Faccelo sapere: ti odieremo a morte perché ci farai spendere il resto della nostra tredicesima in dischi che non sapremo dove mettere. Anche quest’anno i listoni sono stati votati a maggioranza e quindi provano a dare una visione di insieme dei gusti della redazione più che di un singolo collaboratore. E, per ribadire l’ovvio, anche stavolta i titoli che leggerai sono presenti per un motivo e uno soltanto: perché piacciono a noi. Non sei d’accordo? Bene così.
Ogni volta le votazioni di fine anno per la loro natura causano esclusi eccellenti o album che sfiorano l’ingresso in classifica. Fra questi meritano una menzione speciale in campo italiano i Dreariness, che col terzo disco Before We Vanish hanno esplorato nuovi territori post-black metal e indagato il dilemma del porcospino, mentre il ritorno dei Guineapig dopo un lungo silenzio con Parasite è stato all’insegna di goregrind divertente e bestiacce immonde. In ambito black segnaliamo alcune certezze come i Drudkh di All Belong To The Night e i Deathspell Omega di The Long Defeat accanto ai glaciali Grima di Frostbitten. Le cose si fanno più difficili per il death metal che ha visto dieci band affermarsi abbastanza nettamente sulle altre, con le esclusioni fra i tanti di Black Death Cult (Diaspora), Coscradh (Nahanagan Stadial), Haunter (Discarnate Ails), Persefone (Metanoia), Tomb Mold (Aperture Of Body), Tzompantli (Tlazcaltiliztli) e dei più noti Septicflesh (Modern Primitive) e The Halo Effect (Days Of The Lost). In campo avantgarde hanno mancato la qualificazione sul filo del rasoio i Don Bolo di Bahamut, i Licho di Ciuciubabka e gli Scarcity di Aveilut. Per il filone post-metal segnaliamo la coppia composta dai Final Light di Final Light e dai Violet Cold con l’impronunciabile Səni Uzaq Kainatlarda Axtarıram; mentre per il doom la situazione è stata simile al death con un altro gruppone di esclusi che coinvolge Ciminero (Shadows Digging the Grave), Conan (Evidence Of Immortality), Elder (Innate Passage), Kuolemanlaakso (Kuusumu) e Mizmor (Wit’s End).
Concluso il capitolo dedicato a band italiane, black metal, death, avantgarde, post-metal & doom, ecco altri cinque dischi metal che non rientrano nei soliti macro-generi che trattiamo ma che si sono guadagnati un articolo indipendente.
Wormrot – Hiss
(Earache Records, 8 luglio)
Da più di dieci anni il trio dei Wormrot ha dimostrato, passo dopo passo, di potersi prendere la scena grindcore mondiale sulle spalle e, sospinto ancora una volta dalla Earache, di arricchire sempre più la sua formula compositiva. Se infatti il grind non è conosciuto come integerrimo portatore di sperimentalismi, vi sono le dovute voci fuori dal coro e i tre di Singapore sono sicuramente la più devastante dell’ultimo decennio.
Già dalla seconda traccia di Hiss, “Broken Maze”, si viene obliterati da due minuti di riff mutevoli, trovate vocali epicamente bathoriane e una sezione ritmica che riserva cambi di passo esaltanti. Il disco porta avanti una ricerca sonora che riesce a essere avanguardista (“Your Dystopian Hell”) e allo stesso tempo con un occhio rivolto ai tradizionali sound hardcore (“When Talking Fails, It’s Time for Violence!”) e thrash metal (“Seizures” e “Voiceless Choir”). Una fascinazione per le contaminazioni stilistiche che riesce però a mantenere intatta la sete di sangue del grind, andando a eliminare l’endemica monotonia del genere grazie a iniezioni calibrate e mirate. La conclusiva ed emozionante “Glass Shards” ci dimostra che tra le mani dei Wormrot anche i violini possono trovare il proprio posto all’interno di un disco grindcore, quando la brutalità stringe un’imprevedibile alleanza con la raffinatezza.
Riot City – Electric Elite
(No Remorse Records, 14 ottobre)
Il 2022 in campo heavy metal è stato marchiato a fuoco dai Riot City, protagonisti di uno strepitoso secondo album che ha replicato il successo, ma soprattutto i livelli qualitativi, dell’esplosivo esordio Burn The Light. Il gruppo canadese, dal 2019 un quintetto con l’inserimento del cantante Jordan Jacobs, ha concesso il bis con Electric Elite, mostrandosi maturo e saggio per alzare il livello della propria musica.
Il suo heavy-speed metal tutto melodie e acuti in stile Rob Halford (ora un po’ meno spaccatimpani, lo dico simpaticamente) è stato arricchito grazie a una scrittura più variegata. La doppia cassa domina ancora la scena, ma i Riot City sanno anche rallentare i ritmi e addirittura lanciarsi nella prima suite della carriera, come nei quasi dieci minuti della conclusiva “Severed Ties”, senza perdere un grammo di energia e naturalezza. E il giaguaro bionico in copertina (riposa in pace Daniel Charles) dona quel tocco kitsch e tamarro che sotto sotto tutti bramiamo.
Sumerlands – Dreamkiller
(Relapse Records, 16 settembre)
In un 2022 in cui certi sottogeneri estremi non hanno brillato come nelle annate più recenti, a compensare ci sono uscite di stampo più classico di altissimo spessore, come il secondo disco dei Sumerlands. Tre quinti degli Eternal Champion per gli strumenti a corde più Brendan Radigan alla voce e Justin DeTore (Dream Unending, tra gli innumerevoli altri) alla batteria: il risultato è Dreamkiller, un disco squisitamente ottantiano che strizza l’occhio all’hard ‘n’ heavy di stampo Queensrÿche, ricco di ritornelli che si ficcano in testa e ottimi assoli.
L’innesto di Radigan al posto di Phil Swanson ha regalato un bel po’ di teatralità in più al quintetto di Philadelphia, che ha inoltre aumentato il carico di sintetizzatori e atmosfere rispetto al disco precedente, come nella title track. Dreamkiller è composto da ottime tracce a tutto tondo, come l’orientaleggiante “The Savior’s Lie” o la breve e diretta “Force Of A Storm”, il tutto impreziosito dalla produzione stellare del chitarrista Arthur Rizk, che anche dietro il mixer si sta ritagliando uno spazio non indifferente. Immancabile nella collezione degli appassionati del genere e non solo.
Voivod – Synchro Anarchy
(Century Media Records, 11 febbraio)
I Voivod sono uno di quei gruppi che non necessitano presentazioni. Attivi sin dagli anni ’80, rappresentano un punto fermo del metal estremo, esplorando e unendo in maniera chirurgica la forza distruttiva del thrash e la perizia compositiva del prog. Con Synchro Anarchy il quartetto canadese ritorna in grande spolvero sulla scena mondiale, proponendo un disco che non si allontana dal loro stile oramai iconico, ma che ne sviscera nuovamente le illimitate possibilità. Già dalla prima traccia si viene rapiti dalle melodie cosmiche della voce di Snake e dai riff di Chewy, che riesce a rendere fruibili e immediati anche gli assoli più intricati e i ritmi più contorti.
Dai momenti di puro rapimento estatico come l’intro di “Mind Clock” fino alle oscure atmosfere di “Quest For Nothing”, passando per gli epici attacchi di “Holographic Thinking” e “Sleeves Off”, ogni frammento di Synchro Anarchy trasuda creatività e commovente dedizione. La voce di Snake riesce ancora a essere graffiante e incisiva, il già osannato Chewy continua a rendere onore alla memoria di Piggy, mentre la sezione ritmica di Away dietro le pelli e di Rocky al basso si rivela monolitica. Se da un gruppo attivo da oltre quarant’anni ci si sarebbe aspettati un compitino autoreferenziale, i Voivod dimostrano ancora una volta di essere fatti di un’altra pasta, di un materiale paranormale e incorruttibile proveniente da una galassia lontana.
Boris – W
(Sacred Bones Records, 22 gennaio)
Che menino le mani come degli schizzati punkettoni o che ci accarezzino con dita piumate, i Boris riescono a finire nelle liste di fine anno di Aristocrazia con una costanza che appartiene solo ai grandi. W rientra nella casistica dita piumate, e si presenta come anima complementare dell’incazzatissimo NO del 2020, anche come titolo, andando a formare la parola «NOW».
Shoegaze, dream-pop, post-rock in salsa soft-loud: a questo giro i giapponesi vivono più di atmosfera che di ceffoni, e realizzano un quadro dai contorni indefiniti. I feedback di “I Want To Go To The Side Where You Can Touch…”, gli arpeggi melliflui di “Icelina”, come anche l’ossessività di “Drowning By Numbers” o le atmosfere più sludge di “The Fallen” (unica uscita dal seminato etereo di Wata e soci), sembrano partite a dadi coi nostri sentimenti. I Boris lo sanno bene, come spiegano in “Beyond Good And Evil” e nella meravigliosa suite shoegaze “You Will Know (Ohayo Version)”. W è un disco meditativo, nel quale ciascun membro del trio lavora con lo strumento con la delicatezza propria di un maestro dell’alta cucina giapponese. E noi abbiamo sempre fame…