I migliori album avantgarde metal del 2021
Anche il 2021 si è concluso, e come ogni anno è d’obbligo divertirsi a tirare le somme di cosa ci è piaciuto di più nel mondo del metal estremo; come sempre, prima di lanciarci nel vivo del listone, un paio di note metodologiche sono d’obbligo. La prima è che nemmeno quest’anno siamo riusciti ad ascoltare tutto, quindi quelle che vedrete sono scelte che per noi valgono oggi, al netto di ciò che conosciamo e apprezziamo nel momento in cui la lista viene redatta, e potrebbero essere differenti tra sei mesi o un anno. La seconda precisazione è che queste liste sono il risultato dei voti a maggioranza espressi della redazione, non riflettono in particolare le preferenze di un singolo redattore, ma cercano di essere una visione d’insieme. La terza e ultima, per quanto speriamo superflua, è che le nostre scelte si basano solo e soltanto sul nostro gusto personale, e sono assolutamente opinabili.
Cara Neir – Phase Out
(Autoprodotto)
Il settimo livello del gioco dei Cara Neir è difficile da superare. Phase Out attrae il giocatore sprovveduto con il suo loot raro composto da black metal, grindcore, punk, garage e chiptune, ma che ostruisce il cammino con sfide che richiedono una certa flessibilità per essere affrontate. Sebbene sia facile rimanere attratti dal tema videoludico dell’album, ciò che coglie di sorpresa è quanto il lavoro sia scorrevole, e per chi ci entra con lo spirito giusto divertente.
Caotico, ma mai frammentario, Phase Out è un’armonia pixelata piena di eventi imprevedibili che attendono solo che qualcuno faccia partire il loro trigger, incrementando così la longevità del titolo. Si può immaginare che per alcuni palati non sia altro che una serie di accostamenti bislacchi, rumori alieni incomprensibili. Questo non è certo il parere di quei nerd di Aristocrazia, che anzi hanno deciso di premiarlo con un posto nella classifica avantgarde di fine anno.
Creature – Eloge De L’Ombre
(I, Voidhanger Records)
L’attuale periodo pandemico ha, se non altro, il vantaggio di concedere molto più tempo del solito agli artisti per sfornare un lavoro dopo l’altro. Non che questo conti poi molto per Raphaël Fournier, la mente dietro la Creatura francese: il cantante e polistrumentista ha tante di quelle idee da bastare per un numero indefinito di anni. Appena un anno fa facevamo la conoscenza del cervellotico e, lo ammettiamo, impegnativo Ex Cathedra, ed eccolo tornare con un altro full-length in cui l’oscurità è il tema centrale.
Eloge De L’Ombre è più digeribile e leggermente meno psicopatico del suo predecessore e si muove con destrezza tra passaggi melodici di stampo classico e altri che non mi vergogno a definire trap, il tutto contornato da un’intensa voce di pancia. La novità rispetto al suo predecessore è la presenza di un batterista esterno, quel Baard Kolstad già noto ai fan di Leprous e Borknagar, per citarne un paio. Mai l’ombra è stata così elegante e piacevole.
Grey Aura – Zwart Vierkant
(Onism Productions)
Cercare di descrivere Zwart Vierkant degli olandesi Grey Aura in una manciata di righe non è impresa da poco, trattandosi di un album estremamente ricco sia dal punto di vista musicale che concettuale. Il disco è un viaggio nel mondo dell’arte, ispirato a un romanzo scritto da un componente del gruppo, che ruota principalmente intorno a El Greco e a Malevich: Zwart Vierkant altro non è che la traduzione in neerlandese di Quadrato Nero, titolo dell’opera più famosa dell’artista russo.
La musica dei Grey Aura, pur affondando le radici nel mondo del black metal, è molto poco convenzionale. Qua e là affiorano inserti folk che rimandano alla penisola iberica e divagazioni in campo jazz, mentre costante è la presenza del progressive nel riffing e nella struttura dei brani, ognuno dei quali è radicalmente diverso dagli altri. Zwart Vierkant è un disco complesso, che può risultare ostico al primo impatto, ma che ascolto dopo ascolto riesce ad aprirsi mostrando tutta la sua magnificenza.
Jute Gyte – Mitrealität
(Autoprodotto)
Sono circa quindici anni che Adam Kalmbach terrorizza le orecchie dei suoi ascoltatori grazie a Jute Gyte, il suo progetto avantgarde metal dalle tinte black e super sperimentali davvero difficile da descrivere. Lo avevamo già incontrato in uno speciale sul black metal dissonante, e con questo Mitrealität arrivano ulteriori conferme. Come al solito, Kalmbach si rifà a temi complicati, che spaziano dalla filosofia (antica e moderna) alla poesia e alla mitologia, i quali ben si legano all’inestricabile ragnatela di chitarre microtonali ultra-tecniche e dissonanti.
Più diretto rispetto a quello che probabilmente è il capolavoro di Jute Gyte, Oviri, Mitrealität continua a sperimentare in direzioni astratte, infarcendo sovente la sua proposta con elementi noise e ambient. Accostabile in un certo senso ai Liturgy per voglia di stupire ed esagerare, Kalmbach ci regala un’ennesima opera di metal d’avanguardia di nicchia, che non vede l’ora di farci esplodere la testa.
Kayo Dot – Moss Grew On The Swords And Plowshares Alike
(Prophecy Productions)
Dopo l’ottimo Blasphemy, di cui avevamo parlato approfonditamente ai tempi, il buon Toby Driver in veste di Kayo Dot ha riallacciato i rapporti musicali con due storici compagni di ventura: il chitarrista Greg Massi e il tastierista Jason Byron, entrambi coinvolti nel vecchio progetto avant-prog maudlin of the Well (con Well unica parola caratterizzata dalla lettera maiuscola). In tempi di pandemia, così, è nato questo caleidoscopico Moss Grew On The Swords And Plowshares Alike.
Musicalmente siamo nei paraggi del succitato Blasphemy, ma con accenti ancora più calcati sul versante metal e non solo progressive. La duttilità vocale di Driver canta gli immaginifici testi fantasy di Byron, le chitarre, come la voce, graffiano più del solito ma soprattutto c’è tanto — tantissimo — spazio per la melodia. Capiamoci, la musica dei Kayo Dot è sempre stata multicolore, ma su questo Moss Grew On The Swords And Plowshares Alike i cromatismi si sprecano proprio, e spingono ben oltre il consueto l’epicità di certi passaggi. Un disco straniante in cui perdersi è facile, ma anche bellissimo.
Krallice – Demonic Wealth
(Autoprodotto)
Demonic Wealth è un prodotto della pandemia in toto: non solo dal punto di vista cronologico, ma anche perché i singoli membri dei Krallice si sono occupati di registrare le varie parti durante l’isolamento, utilizzando il proprio cellulare. La nitidezza pressoché assente dei suoni è uno degli elementi che rendono Demonic Wealth un disco magnetico.
Questo va sommato alla notevole capacità dei Krallice di creare atmosfere a volte piene di tensione e a volte sognanti, unendo in modo sapiente sintetizzatori, chitarre ronzanti, momenti cacofonici e una batteria che alterna forsennati blast beat a incursioni nei ritmi jazz, come nella title track. Impossibile sottrarsi a tanto fascino sinistro, per cui il verdetto rimane questo: ogni resistenza alla formula corrosiva dei Krallice è del tutto vana.
Mesarthim – Vacuum Solution
(Avantgarde Music)
Il duo australiano dei Mesarthim ci ha abituati a un black metal atmosferico dalle tinte cosmiche, oltre che a una certa prolificità, ma probabilmente una roba come Vacuum Solution va oltre ciò che conoscevamo. L’EP ha una copertina assai minimale ed è, per dirla con le parole usate in un commento che ho letto in giro sui social, «un disco di Gigi Dag con i chitarroni». Un’esagerazione, sì, ma il territorio al quale il gruppo si accosta in questi 27 minuti e spicci è fatto di suoni e beat propri della musica elettronica più pura, con l’aggiunta dei più noti synth.
Il titolo fa riferimento alla varietà di Lorentz in relatività generale, vale a dire l’attuale teoria fisica che spiega la gravitazione. Non ci inoltriamo in spiegazioni più dettagliate delle quali non siamo nemmeno capaci, ci limitiamo a dire che il connubio di grida, distorsioni e passaggi che a tratti ricordano molto la migliore EBM e la techno anni Novanta ha un suo fascino magnetico. Chiudiamo gli occhi e facciamoci inghiottire dall’immensità del cosmo.
Papangu – Holoceno
(Repose Records)
Il nome dei brasiliani Papangu è uscito fuori quasi dal nulla, attirando su di sé l’interesse di gran parte della stampa specializzata. Holoceno, il loro debutto, è infatti un disco che sa piacere e farsi piacere da mondi in apparenza anche molto distanti, flirtando con il prog, con il jazz e con il metal in un mix di colori e sensazioni. Ci sono voluti ben sette anni per realizzare l’album: una durata considerevole, ma giustificata dalla ricchezza del sound della band sudamericana, che fa propria l’influenza di gruppi diversissimi, come i francesi Magma (creatori dello zeuhl), i King Crimson e i Mastodon, senza dimenticare una certa dose di folk brasiliano.
Come se ciò non bastasse, Holoceno presenta anche un sottotema politico, confermando nettamente la presa di distanza dei Papangu (nonché la loro opposizione) all’attuale presidente brasiliano Bolsonaro. Un’opera complessa, sfaccettata e multiforme, ma non per questo necessariamente ostica da ascoltare: se c’è qualcuno che può mettere d’accordo jazzisti, metallari e fan del prog, forse quelli sono proprio i Papangu.
Thy Catafalque – Vadak
(Season Of Mist)
Se c’è un Artista con la A maiuscola capace di pubblicare due dischi di caratura eccezionale a neanche un anno e mezzo di distanza, ficcandoci in mezzo pure un EP, questo è Tamás Kátai con i suoi Thy Catafalque. Lui stesso ci aveva parlato un po’ dell’ultimo Naiv e — considerando l’imprevedibilità del visionario ungherese — non sorprende che Vadak sia al contempo estremamente riconoscibile ma ancora una volta diverso.
Più selvatico e spigoloso rispetto al predecessore, ma con tutti gli elementi noti di Kátai e anche qualcosa in più: il metal estremo sui generis, melodie e ritmiche tipiche in “Kiscsikó (Irénke Dala)”, una pennellata jazz nella meravigliosa “A Kupolaváros Titka” e anche qualche spruzzo di synthwave. Sempre da solo, ma sempre accerchiato dalla solita pletora di ospiti più o meno fissi: anche stavolta Kátai e i Thy Catafalque sono lontani anni luce dal deludere le aspettative.
White Ward – Debemur Morti
(Debemur Morti Productions)
A due anni di distanza dall’ottimo Love Exchange Failure, gli ucraini White Ward tornano con Debemur Morti, un EP nato come omaggio nei confronti dell’omonima etichetta francese per il raggiungimento di quota duecento opere pubblicate. Pur essendo limitato nel numero dei brani (due) e nella durata (17 minuti), il disco riesce a essere piuttosto vario.
Nel primo pezzo, in cui compare come ospite Lars Nedland (Borknagar, Solefald), le sfuriate black metal convenzionali, in cui non si fa risparmio di blast beat, cedono il passo a passaggi più emotivi, orientati verso atmosfere post-metal dominate dal sassofono di Dima Dudko che conferisce al tutto un sapore jazz. Nella successiva “Embers” queste vengono riprese e amplificate dall’uso del pianoforte, mentre col passare dei minuti l’aura si incupisce, aprendo la strada a una nuova sfuriata. Pur essendo una uscita minore, Debemur Morti ci lascia ben sperare circa il futuro dei White Ward.