I migliori album avantgarde metal del 2022
Il 2022 è finito: lunga vita al 2022. Non l’avremmo mai detto per com’era iniziato, ma nel corso dei mesi, almeno musicalmente, ha saputo riscattarsi, tirando fuori tantissimi dischi di qualità e accompagnandoci attraverso un post-pandemia, un conflitto in est Europa (ancora in corso) e una vagonata di altri avvenimenti più o meno buoni. Come sempre, una serie di premesse prima di passare alla ciccia.
Anche quest’anno i nostri listoni non sono esaustivi perché, per quanto ci proviamo, non è possibile fisicamente monitorare tutto ciò che esce. Ci siamo persi qualcosa di grosso per strada? Faccelo sapere: ti odieremo a morte perché ci farai spendere il resto della nostra tredicesima in dischi che non sapremo dove mettere. Anche quest’anno i listoni sono stati votati a maggioranza e quindi provano a dare una visione di insieme dei gusti della redazione più che di un singolo collaboratore. E, per ribadire l’ovvio, anche stavolta i titoli che leggerai sono presenti per un motivo e uno soltanto: perché piacciono a noi. Non sei d’accordo? Bene così.
Ashenspire – Hostile Architecture
(Code666 Records, 18 luglio)
Disco di cui abbiamo ampiamente parlato negli scorsi mesi con annessa intervista al cantante-batterista Alastair Dunn, Hostile Architecture degli Ashenspire è uno di quegli album molto sperimentali dove la freschezza e la novità delle soluzioni musicali adottate vanno di pari passo con la profondità del concept. Orientandosi tra richiami jazz e prog, blast beat dal sapore black metal e uno stile di cantato che richiama da vicino gli inglesi A Forest Of Stars, gli scozzesi Ashenspire producono un autentico manifesto anticapitalista in salsa avantgarde metal. Senza lasciare che la sperimentazione diventi fine a se stessa, la band di Glasgow si diverte a destrutturare e ricomporre gli stilemi del metal, arrivando a dipingere atmosfere raramente sentite prima. Accostabile in parte ad A Umbra Omega dei Dødheimsgard per la sua capacità di fondere atmosfere jazz, progressive e black metal, Hostile Architecture stupisce e lascia tutti col fiato sospeso, regalando all’ascoltatore un’esperienza unica.
Cara Neir – Phantasmal
(Zegema Beach Records, 29 luglio)
Entità eclettica e sfuggente, i Cara Neir sono un duo americano attivo dal 2009. La band è partita da territori black-sludge per poi virare verso lo screamo e in seguito dare vita a un personalissimo mix tra grindcore, chiptune e black metal con l’ottimo Phase Out, che li ha portati all’attenzione del grande pubblico nel 2021. Dopo un album intermedio, puramente crust-grind, i due sono tornati sui propri passi riprendendo il discorso intrapreso con Phase Out.
In Phantasmal sono di nuovo presenti le influenze chiptune e black metal, ma soprattutto una scrittura al servizio della storia allucinata della quale sono protagonisti i due membri della band, che si ritrovano in una sorta di videogioco survival horror (nel capitolo precedente si parlava di un gioco di ruolo) nel quale tentano di sopravvivere, circondandosi di cinque PNG (personaggi non giocanti), ciascuno dei quali interpretato da un ospite diverso al microfono. Tra mastini infernali e zombie irlandesi ubriachi, la folle storia narrata dai Cara Neir si concretizza in un album di sedici tracce dalla durata breve ma capaci di trasportare l’ascoltatore nell’immaginario videoludico creato ad hoc dal duo, il tutto senza mai risultare banale e riuscendo a stupire a ogni ascolto.
Gonemage – Handheld Demise
(Fiadh Productions / Xenoglossy Productions, 30 settembre)
Side project di Garry Brents dei Cara Neir, i Gonemage descrivono una sorta di spin-off della storia narrata negli album di questi ultimi. L’alter ego di Brents, in questo caso, si trova intrappolato in un regno fatto di pixel: una sorta mondo dei sogni in cui, come narrato nei precedenti Mystical Extraction e Sudden Deluge, arriva a ricoprire il ruolo di Curatore, ovvero una specie di demiurgo che ne decide le sorti e le regole. Garry, ormai corrotto e accecato dal potere illimitato di cui gode, si ritrova in un regno chiamato Delirium in cui ritrova il precedente Curatore, che lo spedisce in un altro mondo dopo aver cercato invano di privarlo dei poteri.
La complessità della trama si rispecchia nelle composizioni altrettanto complicate di Handheld Demise, in cui il black metal si fonde con l’elettronica, mentre le chitarre fungono da supporto ritmico per i synth che ricoprono tutte le sezioni soliste. Per le parti vocali, i Gonemage si avvalgono invece dell’aiuto di una quarantina di ospiti, tra i quali un membro della nostra redazione, in modo da costituire una sorta di opera metal che fonde alla perfezione la chiptune con uno stile più estremo e che tocca vette di follia e allucinazione videoludica. Garry Brents si conferma ancora una volta come uno degli artisti più prolifici, eclettici e innovativi della scena estrema attuale.
Imperial Triumphant – Spirit Of Ecstasy
(Century Media Records, 22 luglio)
Il trio più scintillante della Grande Mela fa nuovamente capolino nelle nostre casse a un solo anno di distanza da Alphaville e, questa volta, battezza il disco Spirit Of Ecstasy, come la statuetta che compare sul radiatore delle Rolls Royce. Già da tempo gli Imperial Triumphant si sono fatti notare per le loro orchestrazioni costantemente in bilico fra costruzioni ragionate e dissonanze viscerali al limite dell’improvvisazione, da cui scaturisce un gorgogliante miscuglio di suggestioni che mette insieme le dissonanze oscure di cui sono maestri i Portal, il free jazz e tutto quanto contribuisce a generare efficacemente il senso di disorientamento che una metropoli come New York può scatenare, nato forse dalla consapevolezza che città così grandi rivelano spesso una doppia anima. Un concetto già ampiamente trattato all’interno di Vile Luxury del 2018: da un lato lo sfavillio dei palazzi lussuosi e della vita mondana, dall’altro il grigiore e il degrado che si nascondono nei suoi angoli bui.
Quale sia l’aspetto più meritevole di essere investigato rimane all’arbitrio dell’ascoltatore, ma resta una certezza di fondo: gli Imperial Triumphant sono geneticamente incapaci di lasciare indifferenti, e Spirit Of Ecstasy ne è l’ennesima, lampante testimonianza. Sensazione che può essere acuita ulteriormente se si ha avuto la fortuna di vedere la band dal vivo e ci si è lasciati trascinare dalla frenesia caotica di cui è ormai padrona assoluta, almeno all’interno della scena statunitense.
Lykotonon – Promethean Pathology
(Profound Lore Records, 25 novembre)
La presenza in formazione di membri di Blood Incantation, Wayfarer e Stormkeep è di per sé motivo sufficiente per cimentarsi nell’ascolto di Promethean Pathology, debutto sulla piena lunghezza dei Lykotonon. Nonostante alla base sia presente una innegabile ossatura black-death, la proposta musicale degli statunitensi sembra voler rifuggire da qualsiasi tentativo di catalogazione, grazie all’inserimento di svariate componenti estranee ai due generi.
Di fianco a campionamenti di elettronica, elementi industrial e drum machine, che portano alla mente la scena electro-industrial germanica, traspare anche una certa passione per la psichedelia, specie nei tre episodi conclusivi, che rappresentano il punto più alto a livello compositivo dell’intero album. Promethean Pathology è senza dubbio un lavoro interessante che mantiene fede alle alte aspettative riposte nel progetto.
Mamaleek – Diner Coffee
(The Flenser, 30 settembre)
Progetto stranissimo formato da due fratelli gemelli, i Mamaleek sono una band estremamente sperimentale abituata a mescolare e incrociare generi differenti. Surf rock, black metal, jazz: l’esperienza musicale della formazione americana è difficilmente riassumibile in poche parole.
Il nuovo Diner Coffee continua a tenere altissimo il livello qualitativo. Tra melodie sinistre e urla disperate, espressività jazz, soluzioni drone-doom ed echi di rock sperimentale, la poetica dei Mamaleek esprime disagio urbano e fierezza al tempo stesso, lasciando trasparire sensazioni stranianti tramite soluzioni inconsuete. Del resto, proprio questo è ciò che si propone l’avantgarde metal: stupire l’ascoltatore tramite la ricerca musicale, intrattenendolo al tempo stesso. Il duo statunitense ci riesce e con Diner Coffee continua a regalare dischi di assoluto valore, dopo l’ottimo Come & See di quasi tre anni fa, o il più datato Kurdaitcha.
Pensées Nocturnes – Douce Fange
(Les Acteurs De L’Ombre Productions, 12 gennaio)
Douce Fange, la settima fatica targata Pensées Nocturnes, è stato uno dei primi dischi a colpirci nell’anno appena concluso. Imprevedibile ed eclettica come sempre, la creatura di Léon Harcore abbandona le atmosfere circensi del precedente Grand Guignol Orchestra per avventurarsi nei meandri della Francia più profonda, popolare e sanguigna.
Nei nove episodi che compongono l’album i testi costantemente in bilico tra l’ironico e il grottesco sono accompagnati da una sezione strumentale folle e caleidoscopica: strumentazione moderna e tradizionale si alternano supportandosi a vicenda, mentre la furia black metal, il tango e una verve che ricorda il free jazz si mescolano senza soluzione di continuità. Il risultato è un disco a dir poco originale e stratificato, un’opera divertente e folle, quindi bellissima.
-S- – Dom, W Którym Mieszkał Wąż [A House Where Dwelled A Snake]
(I, Voidhanger Records, 22 aprile)
«Dark doom occvlt funk infused with the blackest of metals» non è una supercazzola, ma la definizione che Patyr e Grzegorz danno delle sonorità del loro ultimo lavoro a nome -S-. Dom, W Którym Mieszkał Wąż — che per i meno pratici del polacco è presentato da band ed etichetta anche come A House Where Dwelled A Snake — non è un seguito al primo capitolo della trilogia dedicata al tempo iniziata nel 2020 con Zabijanie Czasu I, bensì costituisce un’opera autonoma, fatta di illusioni stranianti e riflessi sghembi.
Accettato l’invito a entrare in casa da parte dei polacchi, l’interno di Dom, W Którym Mieszkał Wąż colpisce nel profondo, riflettendo le allucinazioni escheriane e i deliri simbolici anticipati dalla bellissima copertina di Bartosz Tymosiewicz. “Gość W Dom” accoglie l’ospite con alla mano un piatto di tortini allucinogeni. Poi una preghiera alla psilocibina (“Janvs Absconditus”) consente all’ascoltatore di perdersi nei corridoi labirintici degli arrangiamenti degli -S-, fornendo al contempo un riparo dalla pioggia (“Lightning Shelter”), mentre ci si immerge in riflessioni faustiane sull’eterno ritorno (“Powroty”). Non c’è familiarità nel focolare dei Nostri, eppure la coerenza interna di questo trip avanguardistico crea l’illusione di trovarsi davanti a un qualcosa di già noto eppure di intrinsecamente unheimlich. La magione in cui ci accompagnano Patyr e Grzegorz sarà anche infestata da serpenti, ma è un viaggio che vuoi fare, fidati.
Sigh – Shiki
(Peaceville Records, 26 agosto)
Non si ferma l’uragano dei Sigh, i giapponesi più folli che conosciamo, che hanno sfornato un nuovo lavoro pregno di tematiche e con un titolo che conta una cosa come dieci significati diversi. Se la copertina esprime calma e pacatezza, lo stesso non si può dire degli oltre quarantasei minuti del disco, in cui succede davvero di tutto. I testi sono interamente in giapponese, mentre la strumentazione utilizzata ha una forte componente tradizionale, grazie a shamisen, shinobue e shakuhachi, per non parlare di flauti e synth.
Da Shiki emergono un fortissimo attaccamento alle proprie radici e la consapevolezza che esista sì la morte, ma anche la rinascita: all’inverno segue sempre la primavera, ciclo che a un certo punto cessa di avverarsi per il singolo individuo però continua a ripresentarsi in natura, con o senza di noi. Agli strumenti tipici della cultura giapponese i Sigh affiancano un inequivocabile gusto occidentale che rende Shiki complesso, enigmatico, ingarbugliato ma allo stesso tempo perfettamente coerente, nonché bellissimo. I molteplici significati che molti termini giapponesi portano con sé rendono difficile carpire alla perfezione il senso profondo dei testi, eppure non è possibile lasciarsi sfuggire la dolcezza, l’energia e — perché no — la sacralità emanata da ciascuna nota. Come sia possibile che i Sigh tirino fuori una media di un disco all’anno da più di trent’anni e che riescano a non deludere in nessun modo è un mistero irrisolto.
Zeal & Ardor – Zeal & Ardor
(MVKA, 11 febbraio)
Zeal & Ardor è uno dei progetti musicali più interessanti degli ultimi anni e la loro ultima opera non fa eccezione: è stato amore a primo ascolto con Zeal & Ardor. La band svizzera è nata nel 2013 come progetto solista dello svizzero-americano Manuel Gagneux (voce e chitarra), ma allo stato attuale la formazione prevede sei elementi, tra cui due coristi, fondamentali soprattutto per la resa dal vivo del tappeto di voci. Le influenze e le sonorità proposte, sebbene apparentemente inconciliabili, creano invece un mix esplosivo che resta facilmente impresso, nonostante possa risultare a tratti non poco impegnativo.
Black metal, industrial, post-rock (ne è un esempio “Emersion”), perfino striature nu-metal, per non parlare delle linee vocali sovrapposte in cui compaiono distorsioni non estranee al grind e melodie pulite degne dei migliori spiritual afroamericani: “Golden Liar”, ad esempio, si tinge di una malinconia blues che è una delizia per le orecchie. Descrivere a parole Zeal & Ardor finisce per renderne asettica la bellezza e in qualche modo fallisce nel dare un’idea accurata del delirio che racchiude, per cui non posso che — banalmente — incoraggiarti ad ascoltarlo: entrerai in un mondo dal quale farai fatica a uscire, perché il loop partirà in automatico.