I migliori album doom e post-metal del 2022
Il 2022 è finito: lunga vita al 2022. Non l’avremmo mai detto per com’era iniziato, ma nel corso dei mesi, almeno musicalmente, ha saputo riscattarsi, tirando fuori tantissimi dischi di qualità e accompagnandoci attraverso un post-pandemia, un conflitto in est Europa (ancora in corso) e una vagonata di altri avvenimenti più o meno buoni. Come sempre, una serie di premesse prima di passare alla ciccia.
Anche quest’anno i nostri listoni non sono esaustivi perché, per quanto ci proviamo, non è possibile fisicamente monitorare tutto ciò che esce. Ci siamo persi qualcosa di grosso per strada? Faccelo sapere: ti odieremo a morte perché ci farai spendere il resto della nostra tredicesima in dischi che non sapremo dove mettere. Anche quest’anno i listoni sono stati votati a maggioranza e quindi provano a dare una visione di insieme dei gusti della redazione più che di un singolo collaboratore. E, per ribadire l’ovvio, anche stavolta i titoli che leggerai sono presenti per un motivo e uno soltanto: perché piacciono a noi. Non sei d’accordo? Bene così.
Dream Unending – Song Of Salvation
(20 Buck Spin, 11 novembre)
Già lo scorso anno i Dream Unending pubblicarono un grandioso disco di esordio, quel Tide Turns Eternal che tanti consensi raccolse all’interno della scena metal. Il nuovo Song Of Salvation arriva a un solo anno di distanza, mostrando come generi quali doom, funeral doom, death metal e progressive siano in grado di compenetrarsi alla perfezione, dando vita a un mostro multiforme e solidissimo, capace di melodie soavi e distorsioni abissali.
In particolare, i Dream Unending hanno il merito di spingere sul lato più atmosferico dei generi trattati, modellando questo mix in una forma precisa e in una direzione eterogenea ma al contempo funzionale e riuscita. Tutto il talento e la capacità della band sono racchiusi nell’ultima traccia, una suite di sedici minuti in cui le atmosfere (funeral) doom si mescolano con soluzioni death e gothic, quasi come fossero dei Paradise Lost proiettati al futuro. E scusate se è poco…
Mournful Congregation – The Exuviae Of Gods – Part I
(20 Buck Spin, 27 maggio)
Dopo ben quattro anni di silenzio, i Mournful Congregation riemergono dalle profondità abissali con un EP dalla durata di soli (per i loro standard, si intende) trentasette minuti intitolato The Exuviae Of Gods – Part I, al quale seguirà un secondo capitolo. Due dei tre brani sono inediti, mentre l’altro è tratto da una demo del 1995 e registrato nuovamente per l’occasione.
Il funeral doom melodico del quintetto australiano è inconfondibile, e tra lunghi assoli, cambi di tempo e riff monolitici il tempo scorre via veloce, ma sempre sotto i 90 bpm, grazie a tre pezzi che risultano perfettamente complementari tra loro. Il primo e il terzo sono due monoliti da quindici minuti ciascuno; il secondo è una sorta di intermezzo strumentale che li collega alla perfezione. Il rischio di annoiare l’ascoltatore o di risultare banali è praticamente zero. I Mournful Congregation sembrano non sbagliarne mai una, e si affermano ancora una volta come una delle realtà più interessanti all’interno del panorama doom metal mondiale.
Shape Of Despair – Return To The Void
(Season Of Mist, 25 febbraio)
Con tre album in poco più di quattro anni e poi due nei successivi diciotto, gli Shape Of Despair sono ormai diventati pesantissimi anche nei ritmi di pubblicazione. I finlandesi sono quasi più lenti a pubblicare un disco che a suonarlo, e ormai anche questa lentezza è essa stessa parte del loro personalissimo funeral doom, ormai da più di vent’anni un vero e proprio marchio di fabbrica. Se il limite di Return To The Void, secondo album sotto Season Of Mist e seguito del capolavorissimo Monotony Fields del 2015, è quello di essere fin troppo simile al suo predecessore e in generale a tutto il repertorio della band, è altrettanto vero che questa coerenza indefessa è anche il più grande merito del sestetto di Helsinki.
Nessuno, nel 2022, si aspetta delle novità dagli Shape Of Despair, eppure tutti sanno che il funeral doom di Tomi Ullgrén e compagni è da sempre tra i migliori in assoluto. Return To The Void è la quinta prova sul campo per una formazione unica anche nel suo micro-genere, e mette in mostra tutto ciò che da due decenni contraddistingue il gruppo: riff pesantissimi, tempi dilatati, tastiere eteree, growl e voce femminile che si alternano e mescolano e separano, e una tristezza ineluttabile. La desolazione, la disperazione, il dolore, la sofferenza, tutto ciò cui gli Shape Of Despair ci hanno abituati in Return To The Void torna a ricordarci che non ci libereremo mai del vuoto che ci portiamo dentro.
Monolithe – Kosmodrom
(Autoprodotto, 25 novembre)
Basta dare un’occhiata all’archivio di Aristocrazia per notare come i Monolithe non siano affatto degli estranei sulle nostre pagine sin dai tempi di Nebula Septem. E anche il nono album dei francesi, intitolato Kosmodrom, è l’ennesima opera di ottima fattura ma non semplice da digerire. Il motivo non risiede nel mix di death, doom e funeral doom che potevamo facilmente prevedere, quanto nel tema centrale scelto, ovvero le esplorazioni spaziali avviate dall’Unione Sovietica dal 1957 in poi. È un argomento che si porta dietro successi, conquiste e uno sconfinato amore per la scoperta, ma anche sacrificio, morte, disastri inaspettati e scelte discutibili.
Negli oltre sessanta minuti di Kosmodrom vengono presentate varie storie, tra cui quella di Laika, Yuri Gagarin e Vladimir Komarov con un punto di vista non del tutto imparziale: con l’aiuto dei testi è chiara la leggera vena critica nei confronti di alcune decisioni prese da chi stava in posizioni di comando. Se da un lato Kosmodrom emana profonda ammirazione per la tenacia e caparbietà dell’essere umano e della sua voglia di spingersi sempre più in là, dall’altra non manca di evidenziare come spesso tale desiderio sia spinto — più che dalla sete di sapere — dall’avidità di conquista e dalla smania di essere il primo che non lascia in pace nemmeno l’universo. Non è comunque necessario prendere una posizione per godersi l’ennesimo ottimo lavoro dei Monolithe, si può anche semplicemente chiudere gli occhi e farsi investire dalle chitarre, dai synth e dalle melodie malinconiche di cui Kosmodrom è carico.
Forlesen – Black Terrain
(I, Voidhanger Records, 28 ottobre)
Che la musica dei Forlesen non fosse propriamente easy listening l’avevamo capito già un paio di primavere fa, quando il debutto Hierophant Violent era passato da queste parti. Black Terrain è appena il secondo disco dei californiani — trapiantati adesso un po’ più a nord, in Oregon — ma dimostra come le idee del quartetto siano chiarissime. La formula è più o meno invariata: una base tra post-metal e doom dai ritmi molto rallentati, su cui si svaria senza nessi apparenti tra sassofoni e partiture black metal, calde voci femminili e scream provenienti dall’oltretomba.
Il classico esempio di disco che finisce nel calderone di questo genere soltanto per la struttura di fondo, insomma: quattro tracce dalle durate considerevoli (parliamo di un’ora di musica), primitive e caleidoscopiche, soprattutto “Harrowed Earth” con il suo stacco annichilente a metà pezzo. Black Terrain non è il più facile dei dischi, neanche per chi scrive, ma incornicia la grande capacità dei Forlesen nel comporre musica ben lungi dalla forma-canzone standard, e nel farlo in maniera egregia.
Cult Of Luna – The Long Road North
(Metal Blade Records, 11 febbraio)
Stakanovisti è l’aggettivo che più si addice ai Cult Of Luna degli ultimi tempi. I più attivi tra i colossi della vecchia guardia post-metal, i sei svedesi hanno pubblicato in poco più di due anni l’eccellente A Dawn To Fear e l’altrettanto valido EP The Raging River, seguito a strettissimo giro di posta da questo The Long Road North, che li conferma ancora una volta a livelli altissimi, senza necessariamente inventare né reinventarsi perché la formula di Johannes Persson e soci funziona maledettamente bene.
The Long Road North ha davvero tutto: un lungo viaggio attraverso sonorità magari non amichevoli ma confortevoli per gli amanti del genere. Che siano alle prese con i singoloni — termine da prendere ovviamente con le pinze — come “The Silver Arc” o con le lunghe epopee da dieci minuti e oltre quali la title track o “An Offering To The Wild”, i Cult Of Luna sono ormai padroni assoluti della materia e amalgamano il tutto con intermezzi più o meno strumentali. Imprescindibili per chiunque, anche per chi voglia soltanto iniziare a conoscerli: alla fin fine, qualsiasi disco è ottimo per lo scopo.
Celeste – Assassine(s)
(Nuclear Blast, 28 gennaio)
Sin dai primi ascolti avevamo messo le mani avanti, pronosticando che Assassine(s) sarebbe finito nei listoni di fine anno. I Celeste d’altra parte sono una garanzia nel loro campo e il nuovo album, il settimo per la formazione di Lione, è una mazzata dalla prima all’ultima battuta. Non sappiamo se sia merito del passaggio a un’etichetta più grande quale Nuclear Blast, della presenza di Chris Edrich come produttore oppure più semplicemente dei cinque anni che lo separano dal precedente Infedele(s), ma Assassine(s) suona diverso rispetto ai lavori passati.
L’atmosfera dell’album rimane nero pece, tuttavia le strutture dei brani sono meno ossessivamente ripetitive, meno opprimenti. Ciò non significa che i Nostri abbiano scoperto la gioia di vivere, anzi tutti gli oltre quaranta minuti trasudano malessere e sofferenza, come del resto ci si aspetta da un’opera dei Celeste. I quattro, semmai, si sono dimostrati in grado di uscire da una sequenza di lavori fin troppo simili tra di loro e di sfornare uno dei propri dischi migliori.
Russian Circles – Gnosis
(Sargent House, 19 agosto)
A tre anni di distanza dall’ultimo e formidabile Blood Year, i Russian Circles si riprendono meritatamente la scena con il loro ottavo disco, l’ennesima prova superata da uno dei power trio più importanti degli ultimi vent’anni. Come già i sette dischi precedenti hanno dimostrato, i Russian Circles sono maestri nel creare mondi che si fondano su un mix di geometria e illusione. Grazie alla loro personalissima tecnica compositiva, completamente strumentale e incentrata su un grande uso di loop, il trio statunitense segna il 2022 con un disco in cui spunti di intransigenza industrial si insinuano all’interno di strutture epiche e magniloquenti; si vedano l’inizio di “Conduit” e il finale di “Gnosis”, oltre che la struggente “Vlastamil”.
Un lavoro fatto di sfumature e intrecci che se da una parte non risparmia sprangate e riffoni, dall’altra non rinuncia all’introspezione e alle atmosfere sospese proprie del post-metal più ortodosso. Gnosis è l’ennesima incarnazione di ciò che i Russian Circles hanno dimostrato di saper fare meglio di molti altri nel corso degli anni e, seppur non all’altezza dei precedenti capolavori del trio, rimane uno dei punti più alti di quest’anno.
Absent In Body – Plague God
(Relapse Records, 25 marzo)
Il nome degli Absent In Body appartiene a questa lista di pubblicazione di elite fin dalla sua nascita, che risale all’ormai lontano 2015. Sette anni e una manciata di mesi fa, Colin e Mathieu degli Amenra diedero vita all’ennesima creatura assieme ad altri due nomi grossi del panorama estremo mondiale: Igor Cavalera, che non ha bisogno di presentazioni, e Scott Kelly dei Neurosis; almeno fino all’anno scorso quando quest’ultimo ha dichiarato il ritiro dalle scene in seguito alle denunce di abusi ai danni di sua moglie e dei suoi figli. Così, dopo una lunga gestazione, il supergruppo è rimasto nel silenzio più profondo per anni, registrando e aspettando, per poi fare la sua grandiosa entrata in scena nei mesi scorsi con Plague God, dato alle stampe direttamente da Relapse Records.
Dio è una piaga, l’uomo è una piaga, lo stesso Kelly è (aggiungerei stato, mosso da una ventata di malsano ottimismo) una piaga e lo scopo del debutto degli Absent In Body è di eradicare tutto ciò. Per farlo, Colin e soci si sono armati di uncini — in certi casi, leggi alla voce “The Half Rising Man”, letteralmente — e sono andati a fondo nella loro esplorazione introspettiva. Un viaggio intrusivo e assolutamente spiacevole, doloroso, distorto su tutti i livelli, alla cui fine ti attende quel barlume di liberazione che bramavi. Plague God non è assolutamente un disco easy listening, molto più ostico di qualsiasi cosa CHVE e Mathieu abbiano mai fatto con la Church Of Ra. La loro influenza sull’album è preponderante, anche un sordo riconoscerebbe lo zampino di Vandekerckhove dietro certi riff, ma la batteria di Cavalera e la presenza abissale di Kelly elevano l’opera a un piano nettamente superiore. Prendi le grevi aperture atmosferiche di “In Spirit In Spite”, i fill di batteria di “The Acres / The Ache” o la stessa, intera apripista “Rise From Ruins”: le prove della validità delle idee degli Absent In Body sono sotto gli occhi di tutti. Cinque tracce, poco più di trentacinque minuti, per un lavoro mortalmente denso, ma la realtà dei fatti — in questo caso — supera qualsiasi prodotto della fantasia.
Asunojokei – Island
(Autoprodotto, 27 luglio)
Se pensavi che suonare generi come il post-black metal e il post-hardcore equivalesse già di per sé a comunicare quel senso di malinconia e frustrazione a metà fra lo spleen di Baudelaire e la voglia di spaccare una parete prendendola a pugni, Island è un ottimo pretesto per espandere i tuoi orizzonti e volare fino al Paese del Sol Levante, terra che ha dato i natali agli Asunojokei.
Qui la furia e il desiderio di sferrare mazzate non mancano di certo, ma vengono elegantemente stemperate da atmosfere lo-fi che regalano l’impressione di camminare al tramonto lungo un viale intasato da insegne al neon, come nel caso di “Gaze”, oppure dialogano con momenti che vengono mutuati dall’autoctono J-Rock (“The Sweet Smile Of Vortex” e, in parte, “Tidal Lullaby”). Aggiungiamo un paio di pause recitate ad aumentare ulteriormente il pathos, ed ecco confezionato un album che si può ermeticamente etichettare come riuscitissimo e rappresenta l’occasione giusta per dedicare attenzione agli Asunojokei.
Sylvaine – Nova
(Season Of Mist, 4 marzo)
Tra i vari album che sono riusciti a catturare la disperazione di cui la nostra epoca è portatrice, emerge senza dubbio Nova, il quarto realizzato dalla cantautrice norvegese Sylvaine. Così come la quotidianità è ricca di sfaccettature, anche Nova rivela presto diverse anime: parte in maniera molto delicata e suadente, per poi lasciar esplodere tutta la sua carica accorata.
A volte si lancia in una furia espressiva tipica del post-black che diventa pressoché catartica, altre invece preferisce immergersi nelle atmosfere più raccolte — ma tremendamente malinconiche — proprie del blackgaze (ascoltando “Nowhere, Still Somewhere” viene da pensare a “Sapphire” dei maestri della malinconia Alcest). Tutte queste sfumature non si scavalcano a vicenda: al contrario, vengono perfettamente dosate e arrangiate nella maniera più suggestiva possibile, regalandoci un album perfetto per i momenti di sconforto, ma non quelli in cui ci si vuole semplicemente adagiare nel dolore, bensì quegli istanti della vita in cui si capisce che il male di vivere non è un fatto individuale, ma ampiamente condiviso.