I migliori album post-metal del 2021
Anche il 2021 si è concluso, e come ogni anno è d’obbligo divertirsi a tirare le somme di cosa ci è piaciuto di più nel d’obbligo. La prima è che nemmeno quest’anno siamo riusciti ad ascoltare tutto, quindi quelle che vedrete sono scelte che per noi valgono oggi, al netto di ciò che conosciamo e apprezziamo nel momento in cui la lista viene redatta, e potrebbero essere differenti tra sei mesi o un anno. La seconda precisazione è che queste liste sono il risultato dei voti a maggioranza espressi della redazione, non riflettono in particolare le preferenze di un singolo redattore, ma cercano di essere una visione d’insieme. La terza e ultima, per quanto speriamo superflua, è che le nostre scelte si basano solo e soltanto sul nostro gusto personale, e sono assolutamente opinabili.
Amenra – De Doorn
(Relapse Records)
La Messa è finita, andate in pace non è certo una frase che Colin H. van Eeckhout potrebbe dire, anche dopo aver concluso l’epopea dei suoi Amenra con i vari Mass. La pace interiore è lungi dall’essere parte del quintetto di Kortrijk, da quest’anno arricchito dall’entrata in formazione — quasi in sordina — di Caro Tanghe degli Oathbreaker. De Doorn (la spina) è forse un filo inferiore a Mass VI, ma ci sta quando si chiude un lunghissimo capitolo della propria carriera — e vita — e se ne apre un altro.
C’è un forte sguardo al passato e un riavvicinamento alle proprie radici, che si manifestano con una scaletta che non offre singoloni come potevano esserci nel disco precedente e si autoisola nel cantato completamente in fiammingo, arricchito da momenti parlati che convogliano un diverso senso di intimità e dalla voce di Caro che rende ancora più rotonda l’esperienza catartica. Perché così come tutti i suoi predecessori, De Doorn è un rituale, elitario e universale al contempo, che ci mette tutti faccia a faccia con il nostro dolore e i nostri demoni.
Converge + Chelsea Wolfe – Bloodmoon: I
(Epitaph)
Era l’aprile del 2016 quando i Converge, al Roadburn, diedero origine a una delle collaborazioni più stellari degli ultimi anni, sul palco insieme a Chelsea Wolfe, Ben Chisholm, Stephen Brodsky e Steve von Till. L’annuncio di un disco ha poi tenuto in fibrillazione un po’ tutti, ma finalmente sul finire del 2021 Bloodmoon: I ha visto la luce, con la stessa formazione meno von Till.
Candidatissimo a disco dell’anno, questo album è un meraviglioso miscuglio in cui tutti i singoli elementi sono riconoscibilissimi: i momenti in cui Bannon e soci sono al timone, così come l’approccio più doom-folk di Wolfe e la schizofrenia che Brodsky porta in dote dalla sua esperienza con Cave In e Mutoid Man. L’equilibrio tra aggressività e malinconia, melodia e violenza hardcore è impeccabile: un’ora di musica non è poca, ma con un concentrato di talento simile ne accetteremmo di buon grado anche dieci. Perché c’è chi si è raggomitolato a piangere e ondeggiare ascoltando “Scorpion’s Sting”, e chi mente.
Cult Of Luna – The Raging River
(Red Creek)
Che i Cult Of Luna non debbano dimostrare più niente a nessuno è acclarato, eppure sembra che non vogliano saperne di rallentare, che non siano in grado di darsi pace. The Raging River è un fiume in piena come solo la band di Umeå può far scorrere, fatto di riff, urla ed emozioni straripanti. Persson, Lindberg e compagni suonano insieme ormai da quasi un quarto di secolo, e hanno via via perfezionato una formula perfettamente equilibrata di aggressività e atmosfere. E questo EP da quasi quaranta minuti non fa eccezione.
Perfettamente a proprio agio con i soliti monoliti da dieci o dodici minuti (“Wave After Wave”), così come in episodi più densi ed esplosivi (“What I Leave Behind”, dai forti echi di Mariner), i Cult Of Luna si barcamenano tra sofferenza e spiritualità, e per l’occasione ampliano il repertorio ospitando anche Mark Lanegan nell’unico pezzo che dura poco più di tre minuti: qui urla selvagge e riffoni si fanno da parte per lasciare in primo piano il crooning dell’ex-Screaming Trees, e gli svedesi convincono anche in questa veste di accompagnamento parzialmente inedita. Una band che ha raggiunto un livello tale per cui non potrebbe sbagliare un colpo nemmeno se ci provasse.
Emma Ruth Rundle + Thou – The Helm Of Sorrow
(Prophecy Productions)
La combinazione delle sonorità sludge dei Thou con la commovente voce di Emma Ruth Rundle non è stata una novità del 2021. The Helm Of Sorrow è infatti composto da sole quattro tracce, derivanti dalle fasi di scrittura e registrazione di May Our Chambers Be Full, disco del 2020 che ha inaugurato questa spettacolare collaborazione artistica.
Così come il suo più corposo predecessore, questo EP propone un mix perfettamente bilanciato di armonia e confusione, uno tsunami di fanghiglia sludge modellato dalle armonie scaturite dalla voce di Emma e da innesti in stile post-rock, come l’assolo sul finale di “Recurrence”, per fare un esempio. Una formula che ha dimostrato, in più di un’occasione, di poter funzionare grazie agli incastri perfetti e inaspettati tra sonorità agli antipodi. Il tutto coronato dalla traccia conclusiva, una cover di “Hollywood” dei Cranberries che non fa che ribadire, da una diversa angolazione, queste nozze tra sonorità granitiche e melodie struggenti.
Godspeed You! Black Emperor – G_d’s Pee At State’s End!
(Constellation Records)
Poche sorprese nel vedere, anche per il 2021, i GY!BE tra l’olimpo dei migliori dischi dell’anno. Gruppo fondamentale degli ultimi due decenni che ha dettato i paradigmi del post-rock sin dagli anni ’90 e che, ancora nel 2021, riesce a imprimere la sua magnifica impronta su terreni musicali che spaziano dal drone alla musica orchestrale. G_d’s Pee At State’s End si dimostra una parafrasi perfetta di questi anni oscuri, grazie alla sua produzione cristallina e alla fatalità delle sue armonie.
Brani come “Job’s Lament” e “First Of The Last Glaciers”, già dai loro titoli, mostrano un’unione simbiotica tra una disperazione inalienabile e una catarsi mai definitiva. Un percorso salvifico che questa volta si dischiude in un ascolto tutto sommato lineare, se paragonato ad altri lavori dei Godspeed You! Black Emperor colmi di lunghe sezioni drone e puramente ambientali. G_d’s Pee At State’s End bilancia alla perfezione queste componenti con una forte impronta orchestrale, pur non rinunciando a quel mare di riverberi e field recording che contraddistingue lo stile del gruppo.
Kauan – Ice Fleet
(Artoffact Records)
Con una media di un album ogni due anni, i Kauan si evolvono progressivamente e inesorabilmente: le influenze black metal, prominenti nei primi dischi, sono andate via via a stemperarsi per lasciare spazio a un post-rock etereo e sognante, con qualche inserto più aggressivo qua e là.
Ice Fleet parla di una flotta di navi ritrovata al largo delle immense coste settentrionali della Russia, perfettamente conservata grazie al ghiaccio che ha ibernato uomini e mezzi. L’album della creatura di Anton Belov è accompagnato da un gioco da tavolo che ripercorre la storia della misteriosa flotta, perfettamente evocata dalle atmosfere gelide e malinconiche, in una sorta di flusso continuo senza interruzioni tra un brano e l’altro. Un altro colpo di genio per i Kauan, e sicuramente uno dei migliori album post- del 2021.
Lantlôs – Wildhund
(Prophecy Productions)
Ottima mossa, quella dei Lantlộs, di intitolare il loro album più recente Wildhund: un disco che sguinzaglia tutta una gamma di emozioni che corrono a perdifiato, come un cane libero da ogni costrizione. Tra queste sembra primeggiare un superamento della malinconia perenne, tanto cara al post-black di cui il progetto di Markus Siegenhort è sempre stato uno degli alfieri più blasonati.
Infatti Wildhund guarda più che altro nella direzione del volemosebbene e schiaccia l’oscurità incombente con le sue tracce spumeggianti, piene di ritmi guizzanti, momenti corali, melodie accattivanti ed effetti che in certi momenti fanno pensare perfino agli Smashing Pumpkins e ai viaggi cosmici di Mellon Collie And The Infinite Sadness. A ben guardare, forse, Wildhund è un disco infinito, nel senso che ascoltarlo significa entrare in contatto con tutta una serie di suggestioni e atmosfere che non conoscono veri e propri limiti, anzi sembrano proprio tendenti a.
Mastodon – Hushed And Grim
(Reprise Records)
Citare se stessi in maniera più o meno nitida è come camminare su una sottile corda sospesa, dove una caduta significa ritrovarsi impigliati tra i rovi della ripetitività. Non è il caso dei Mastodon di Hushed And Grim, che sono riusciti a incorporare tutto il meglio della propria carriera all’interno di un solo disco, dove le effervescenze prog di album quali Crack The Skye convivono pacificamente con il lato più ruvido del quartetto di Atlanta, già manifestato agli esordi, grazie a Leviathan.
Hushed And Grim rappresenta, finora, una delle opere più riuscite di casa Mastodon, dal momento che evoca un mondo grigio e ferale come quello illustrato sulla copertina (una fra le più cupe della discografia della band, vale la pena sottolinearlo), ma è anche terribilmente concreto, come una zampata ben assestata da parte di un segugio infernale.
Moanaa – Embers
(Deformeathing Productions)
Che la scena polacca sia un calderone perennemente in ebollizione è risaputo, ma i Moanaa ci insegnano che questo non vale soltanto per il black metal, anzi. Sin dalle origini il quintetto slesiano si è reso protagonista di una crescita continua che ha raggiunto il suo culmine, almeno per ora, con la pubblicazione del terzo album Embers.
Pur essendo fortemente influenzati da formazioni come Cult Of Luna o Isis, i polacchi riescono a imprimere nel loro post-metal un tocco di personalità, amalgamando in modo omogeneo spunti diversi. Alle atmosfere eteree, che sembrano scivolare nello shoegaze, e alle voci pulite di “Triad” fanno da contraltare energiche sfuriate dal sapore sludge condite da una batteria micidiale e da uno screaming rabbioso come in “Lie”. Embers è un ottimo album, e i Moanaa sono ormai una certezza.
Year Of No Light – Consolamentum
(Pelagic Records)
Nord mi aveva quasi commosso ai tempi, e non sto esagerando, per cui il disco dei francesi Year Of No Light era personalmente uno dei più attesi nel 2021, soprattutto perché l’ultimo lavoro Tocsin era uscito nel non troppo vicino 2013.
Consolamentum ha debuttato su Pelagic Records, superato l’esame e soddisfatto in pieno le aspettative col suo inconfondibile connubio di post-metal, sludge, accordi granitici che a volte sfiorano il doom e dolci passaggi melodici da far tremare le ginocchia, per non parlare degli inserti elettronico-synthwave nel brano conclusivo “Came”. Un viaggio strumentale in piena regola, completo di registrato tutto in presa live e in cui non sentiamo la mancanza di alcuna linea vocale. Davvero difficile indicare un pezzo che spicchi sugli altri, per quanto mi riguarda Consolamentum non ha alcun difetto se non quello di non essere infinito.