10 album di death metal surreale

10 album di death metal surreale

“I am a god, the prime being
I shall impale you
On the crumbled pillars of the millennia”

[Timeghoul – “Boiling In The Hourglass”]

La paura è un’emozione di risposta a una situazione instabile. Gli esiti appaiono incerti, l’integrità personale minacciata. Non c’è orrore più profondo di ciò che non riusciamo a comprendere; non a caso evitiamo di violare proibizioni che servono a proteggerci da un sapere che potrebbe sconvolgere il nostro modo di vedere il mondo. Questa concezione della paura è stata un viatico per alcuni gruppi nel panorama death metal per andare oltre il classico immaginario orrorifico, nello sforzo di concretizzare l’inafferrabile, l’intangibile e l’alieno. Due realtà sfortunate si fanno menzionare per gli sforzi in questo senso, due band che sono le principali ispiratrici di questa lista: Demilich e Timeghoul. I Demilich sono un gruppo finlandese ricordato per la follia cromatica del proprio debutto, Nesphite, album che purtroppo è rimasto figlio unico nella loro discografia malgrado la compagine sia tuttora attiva dopo un periodo di incertezza. I Timeghoul invece sono un progetto degli anni ’90 che ci ha lasciato solo due demo, Tumultuous Traveling e Panaramic Twilight, ripubblicate nel 2012 in una raccolta. Questa operazione purtroppo (o per fortuna) non ha portato ad alcun seguito, in quanto, citando le parole stesse degli autori sulla loro pagina Facebook, la formazione americana rimane «congelata nell’infinito».

La riscoperta di queste realtà ha permesso che si affermasse una nuova prospettiva nel concepire il death metal, una prospettiva che si muove nello spazio oscuro tra i due poli rappresentati dagli scritti di Lovecraft e la fantascienza. Una concezione alla quale manca una definizione univoca, in quanto termini come surreal ed eldritch non hanno preso abbastanza piede per diventare delle vere e proprie etichette — almeno per ora. Il filo rosso che collega questa lista è la sensazione di estraneità che emerge dalla musica: strutture spiraliformi, interscambi repentini tra atonalità e melodia, la definizione di paesaggi estranei, extraterrestri, nei quali si perde ogni punto di riferimento.

Per quanto il mio obiettivo sia esaminare una serie di dischi usciti in un tempo circoscritto, cioè la seconda metà degli anni ’10, questo elenco non ha e non può avere la pretesa di essere esaustivo. Ho dovuto fare una selezione e ho seguito solo ciò che ritengo interessante, talvolta anche a scapito delle mie stesse preferenze personali. Se scorrete i titoli qui presenti, noterete che alcuni sono freschissimi di pubblicazione, e forse meriterebbero di essere riesaminati in prospettiva, ma penso sia comunque importante ascoltarli al giorno d’oggi.


BLOOD INCANTATION
Hidden History Of The Human Race
(Dark Descent Records, 2019)
L’assenza dei Blood Incantation da questa lista sarebbe stata imperdonabile, essendo il gruppo sulla bocca di tutti. Avendo già trattato Starspawn in un’altra occasione, ho deciso di approfittarne per fare alcune considerazioni sull’ancora fresco Hidden History Of The Human Race. La seconda uscita dei Blood Incantation aveva il compito di bissare il successo di un pesante predecessore, e se l’accoglienza da parte del pubblico è stata all’inizio calorosa (mi dichiaro colpevole), ora che l’hype sta scemando stanno cominciando a comparire pareri un attimo più critici. La mia impressione è che Hidden History Of The Human Race sia un lavoro che nasconde in mezzo alle montagne di riff galattici — in tutti i sensi — l’incertezza dovuta alla ricerca di un’identità non ancora raggiunta; difficile spiegare altrimenti le intrusioni atmosferiche dai toni post-rock all’interno di “Inner Path (To Outer Space)”. Anche i diciotto minuti della conclusiva “Awakening From The Dream Of Existence To The Multidimensional Nature Of Our Reality (Mirror Of The Soul)” danno l’idea che accanto a momenti davvero brillanti ci siano alcuni passaggi che hanno il sapore di un semplice esercizio stilistico. Penso di avere a che fare con un disco di passaggio, e se da un lato ne ribadisco il fascino, ritengo che sia troppo presto emettere un giudizio definitivo. Bisognerà aspettare del tempo per avere chiaro quale sarà il ruolo di Hidden History Of The Human Race nella discografia dei Blood Incantation.


BURIAL INVOCATION
Abiogenesis
(Dark Descent Records, 2018)
Dei Burial Invocation non si parla abbastanza spesso per i miei gusti, il che è un peccato, perché ritengo il loro unico lavoro Abiogenesis straordinario. La band turca ha fatto un salto di qualità in questi otto anni, il tempo di silenzio quasi assoluto che si interpone fra il promettente EP Rituals Of The Grotesque del 2010 e il succitato debutto, ma se le tempistiche lunghe sono il prezzo da pagare per tanta qualità aspetto con piacere il seguito nel 2026. Le tracce di Abiogenesis superano tutte gli otto minuti di durata (a eccezione della outro acustica “Tenebrous Horizon”), e durante l’ascolto appare evidente che non poteva essere altrimenti: la necessità di fare emergere idee sofisticate dal brodo primordiale di influenze della band (The Chasm, Demigod, Incantation, Timeghoul, per elencarne alcune) può essere soddisfatta soltanto se le si lascia spazio. Ascoltare Abiogenesis è come osservare il contorcersi di una creatura extradimensionale non abituata a respirare, appena entrata nel nostro continuum spazio-temporale. Nella musica dei Burial Incantation c’è la stessa furia, la stessa impossibilità dolorosa di stare fermi. Così prendono forma brani tortuosi come “Vision Of The Hereafter” e “Phantasmagoric Trascendence”, ma è la title track in tutti i suoi dodici minuti il cuore di questo disco. Va detto, i Burial Invocation non inventano nulla di nuovo, e se vogliamo la qualità si può definire altalenante, ma la classe dei turchi sta anche nel fatto che i momenti meno ispirati farebbero invidia a gran parte dei colleghi.


CHTHE’ILIST
Le Dernier Crépuscule.
(Profound Lore Records, 2016)
Ho preso in antipatia Le Dernier Crépuscule sin dai primi ascolti, un’antipatia sulla quale oggi mi sento in parte di ricredermi. L’accoglienza riservata alla sua uscita è stata eccessiva, situazione che aveva reso le mie aspettative troppo alte, finendo per mandarmi di traverso il disco. Riesumandolo ora, a distanza di un paio d’anni dall’ultima volta, mi rendo conto di averne una prospettiva migliore. Che l’obiettivo dei canadesi Chthe’ilist sia quello di essere un grande tributo ai Demilich (ma anche a mezza scena finlandese) è evidente. Il growl è altrettanto melmoso, i brani sono altrettanto storti, la concezione delle strutture è altrettanto folle. Le differenze sono poche: la musica dei Chthe’ilist ha sezioni più veloci e porta il marchio di fabbrica dell’onnipresente chitarrista Phil Tougas (First Fragment, Zealotry, Serocs fra i tanti). Eppure ora come ora devo ammettere che alcuni brani sono davvero efficaci. Non è cosa da poco creare atmosfere così sconcertanti, in grado di opprimere l’ascoltatore pur mantenendo i pezzi sempre movimentati. Difficile rimanere impassibili verso lo spessore del basso forsennato di “The Voices From Beneath The Well”, per fare un esempio. Le Dernier Crépuscule è un lavoro che ha fatto impazzire alcuni, ma che ha lasciato perplessi altri. Questo da solo è un buon motivo — se mai ce ne fosse bisogno — per farsi un’idea personale mentre si attendono notizie sul seguito.


COSMIC PUTREFACTION
The Horizon Towards Which Splendour Withers
(I, Voidhanger Records, 2020)
The Horizion Towards Which Splendour Withers nel momento in cui scrivo è ancora fresco di pubblicazione, eppure dopo un pugno di ascolti mi sembra che si sia guadagnato il suo posto di diritto qui dentro. Cosmic Putrefaction è l’unica one man band della lista, e vi assicuro che il polistrumentista G.G. è talmente abile a destreggiarsi da farvene dimenticare. Uscito a distanza di un solo anno dal precedente At The Threshold Of The Greatest Chasm (2019), The Horizon Towards Which Splendour Withers è tutto fuorché un lavoro frettoloso. I brani sono focalizzati, G.G. dà l’idea di sapere sempre cosa sta facendo, anche quando si trova a coordinare una grande varietà di passaggi e atmosfere, da quelli più bui a quelli più glaciali, passando dall’impeto death vecchia scuola a quello dissonante. Immaginate di dare ai Dead Congregation il compito di scrivere la colonna sonora per una space opera, aggiungete un tocco di black metal, e avrete perlomeno una vaga idea di come suona The Horizon Towards Which Splendour Withers. Mi rendo conto che questo è un periodo densissimo di uscite, ma sarebbe un peccato tralasciare lo sforzo titanico di Cosmic Putrefaction.


CRYPTIC SHIFT
Visitations From Enceladus
(Blood Harvest, 2020)
Sganciare addosso all’ascoltatore una suite da venticinque minuti è un buon biglietto da visita, serve a farci capire chi comanda davvero. Mi piace l’approccio impavido dei Cryptic Shift, forse il gruppo qui dentro che più si discosta dagli altri. Intendiamoci: potete trovare l’influenza del death di Demilich, Timeghoul e Nocturnus all’interno di Visitations From Enceladus, ma questi devono contendersi lo spazio con il thrash spaziale reso celebre da formazioni come Voivod e Vektor. Se l’accostamento tra i riff atonali e le cavalcate stellari di queste ultime band può risultare controintuitivo, il risultato merita attenzione. “Moonbelt Immolator”, il brano di venticinque minuti, è una scarica prog lanciata verso l’infinito a velocità superluminale, per esplorare anfratti cosmici dove nessuno è mai arrivato; ci troviamo testimoni di quanto il quintetto inglese non sia in grado di stare fermo: prima rallenta e poi riparte verso nuove frontiere, a ciclo continuo. Centrale per la proposta è l’utilizzo del basso fretless di John Riley suonato in modo selvaggio, che si lancia spesso a briglia sciolta, seguendo ogni tipo di ritmo immaginabile. Le composizioni di Visitations From Enceladus sono attraversate da questa stessa libertà espressiva, rendendolo un lavoro composto in maniera istintiva e che quindi mal si adatta a chi cerca un approccio conciso. Ma alla fine cosa si può chiedere di meglio a una band cui piace definire il proprio suono «Phenomenal Technicological Astrodeath»?


GARROTED
Of Damnation And Abyssal Terror
(Autoprodotto, 2018)
Seguo i Garroted da quando incontrai nel 2016 il loro primo demo intitolato In The Court Of Nyarlathotep, proprio nel periodo in cui cominciavo a ricercare questo tipo di sonorità. Per quanto l’inserimento dello split con i Calcemia rilasciato quest’anno sia stata una tentazione non da poco per segnalarvi due nomi al prezzo di uno, reputo Of Damnation And Abyssal Terror il lavoro più interessante dei Garroted. Presto per parlare, ma ci sono già tante doti che vengono messe in mostra, prima fra tutte una padronanza della materia che fa invidia a nomi più grossi. La band ci propone quattro tracce scritte per mantenere l’attenzione alta, che scorrono sempre con qualche idea in grado di distinguerle l’una dall’altra, ma è la seconda parte di scaletta a rimanere più impressa. Parlo di “Crimson Thist” e della sua velocità innaturale che culmina in un assolo stralunato e di “Into The Shivering Forest”, con il suo finale che riprende le linee melodiche per riproporle in chiave jazz-prog. Le considerazioni che potrei fare sul growl di Dan Jacobs sono sulla stessa falsariga delle altre: sembra che voglia evitare la monotonia di un cantato inespressivo, un validissimo motivo per mettere in mostra un repertorio piuttosto ampio; peccato che sia uscito dalla band di recente, credo che non sarà semplice per i Garroted trovare la voce adatta. Nel caso, comunque mi auguro stiano preparando un lavoro di maggiore durata.


PLAGUE RIDER
Rhizome
(Inverted Grim-Mill Recordings, 2018)
Deve essere successo qualcosa che ha sconvolto i Plague Rider. Forse il tech-death del debutto era diventato troppo stretto per la band divisa fra Durham e Newcastle, oppure quello che sentiamo in Rhizome è solo il risultato dell’incontro con il contorto apparato concettuale filosofico di Deleuze e Guattari, al quale il gruppo fa riferimento diverse volte (“Challenger’s Lecture”, “Without Organs”). Trovo molto probabile che entrambe le opzioni siano veritiere: il desiderio del quintetto di scoprire cosa il death metal possa produrre porta a risultati estranianti, in un continuo rimettere in discussione i concetti base della musica, come tonalità e ritmo, fino a creare nuove linee di fuga. Rhizome è un prodotto malato. Se ormai dovremmo essere abituati alla furia dissonante che imperversa nel metal estremo negli ultimi dieci anni, i Plague Rider sembrano intenzionati a incrinare questa nostra certezza, dimostrandosi in grado di concepire musica storta, destrutturata, di tutt’altro livello. Rhizome è irregolare, non è concepito per avere una forma definita; il suo processo di trasformazione non vuole concludersi mai. In esso troviamo addirittura un copioso uso di effettistica noise, elemento che, stando alle interviste, resterà nel futuro degli inglesi. Ci sono ancora degli angoli da smussare, ma è evidente che questa non è nemmeno la forma finale dei Plague Rider.


TOMB MOLD
Planetary Clairvoyance
(20 Buck Spin, 2019)
Tre dischi rilasciati nel giro di tre anni, un ritmo impressionante. Verrebbe da pensare che i Tomb Mold intendano battere il ferro finché è caldo, ma ascoltando Primordial Malignity (2017), Manor Of Infinite Forms (2018) e questo Planetary Clairvoyance uno dietro l’altro si può osservare che i canadesi stanno attraversando un periodo di evoluzione che di norma avviene in un lasso di tempo molto più ampio. Se i punti di riferimento rimangono le schifezze tipicamente finlandesi come Abhorrence e Convulse, Planetary Clairvoyance è un album che si rivela più complesso del suo predecessore, che faceva dei passaggi accattivanti il perno delle composizioni. I Tomb Mold del 2019 non hanno perso in termini di growl profondo e riffoni immediati, hanno solo affinato la propria capacità di incastrare le idee nel quadro generale del brano senza che esse finiscano per essere sbattute in faccia all’ascoltatore (verificate con “Infinite Resurrection” per averne un esempio). Purtroppo non sono in grado di prevedere se questi fanatici dei videogiochi di Miyazaki — lo stesso moniker proviene da un oggetto di Bloodborne — intendano rilasciare un altro disco quest’anno, né tantomeno se la band potrà continuare con questo ritmo di pubblicazione, dopo aver alzato l’asticella dei propri standard a tale livello, d’altra parte me lo posso solo augurare.


UNDEATH
Sentient Autolysis
(Caligari Records, 2019)
Tutte le volte che guardo la copertina di Sentient Autolysis mi tornano alla mente certe scene provenienti da Uzumaki, una delle opere più famose del celebre mangaka horror Junji Ito. La copertina dopotutto è il primo dettaglio che mi ha convinto una sera di qualche mese fa a dare una chance agli Undeath, e non me ne sono pentito. La musica parla da sé, e se da un lato per ora non si scorge un alito di personalità, dall’altro non c’è dubbio che gli Undeath sappiano suonare death metal come piace a noi. Sentient Autolysis è solo una demo, dura poco più di un quarto d’ora, ma i suoni sono distinguibili, il che non è un dettaglio da dare per scontato quando si parla di musica concepita per essere volutamente sporca. Gli Undeath si sono fissati obiettivi alla portata, fra i quali convincerci con l’utilizzo del nostro armamentario concettuale preferito: putridume, irregolarità e capacità di scivolare negli anfratti nauseabondi del doom quando ce n’è bisogno. L’operazione è da considerarsi riuscita.


ZEALOTRY
The Last Witness
(Lavadome Productions, 2016)
Avevo intenzione di parlarvi del debutto degli Zealotry, The Charnel Passage (2013), dato che ho già trattato The Last Witness; il fatto è che per quanto adori The Charnel Passage (e come può essere il contrario, quando quell’album ha un brano dedicato alla saga videoludica di Mass Effect?) è un’opera prima, e come tale si porta dietro una certa dose di immaturità. Senza nulla togliere all’ammirabile At The Nexus Of All Stillborn Worlds (2018), è The Last Witness il disco sul quale continuo a tornare. Se il debutto è un lavoro tutto sommato stratificato, The Last Witness è un groviglio inestricabile che mette a dura prova la salute mentale. Oltre a Immolation, Gorguts, The Chasm e i due nomi in apertura, la band richiama anche gli Univers Zero, complesso belga dal quale prende la sperimentalità progressive che rende il proprio death ancora più spiazzante. Ci sono momenti in cui le chitarre e il basso si sovrappongono, eseguendo tre linee melodiche differenti e arrivando persino a riscoprire il contrappunto, per poi ritornare a muoversi all’unisono nei frangenti più furiosi. A questo aggiungete il tocco erratico durante gli assoli di Phil Tougas, musicista che avrebbe potuto riempire questa lista quasi da solo, e avrete un buco nero dal quale nessun fascio di luce è in grado di fuggire. Io ci sono rimasto impigliato, tenete in considerazione i rischi.