Molto stoner, meno doom: dodici dischi del decennio passato

Molto stoner, meno doom: dodici dischi del decennio passato

Buttare giù questa lista di dischi mi ha dato modo di rendermi conto di quanto, negli ultimi quindici anni, lo stoner abbia iniziato a strizzare l’occhio al doom. Non che prima non ci avessi fatto caso, ma quando ti metti in testa di raggruppare qualche album stoner degno di nota che sia uscito non più tardi di dieci anni fa, che rimanga in ogni caso in ambito underground e che, soprattutto, non vada a mescolarsi troppo ai funerei e lenti bpm del doom, l’impresa si fa ardua.

L’idea per questa panoramica era in effetti di tale matrice, volevo rimanere in una zona che, con tutte le sue ombre e le sue influenze, non sfociasse comunque troppo nel doom ma si mantenesse più tendente allo stoner. Tra i dischi che troverete qui sotto spuntano quindi sonorità psichedeliche, fuzzy, perfino pop, ma mai prepotentemente doom: al massimo si mantengono in bilico e occasionalmente oscillano tra i due generi. 

Ci tengo a sottolineare che non si è trattato di una scelta dettata dall’antipatia verso il doom, chi ci segue sa che ci sguazziamo più o meno quotidianamente mentre piangiamo tutte le nostre lacrime — no, niente di tutto ciò. Piuttosto è stata una sfida personale, un modo per puntare i riflettori sullo stoner e rendervi onore senza per questo tornare troppo indietro nel tempo, andando a scomodare nomi già colossali.

Come sempre la lista non è esaustiva, non è completa e nemmeno ha la pretesa di esserlo, soprattutto considerando l’enorme mole di materiale stoner prodotto più o meno ovunque. Vuole solo e soltanto essere un modo per presentare e (ri)scoprire lo stoner e parenti stretti servendoci di qualche nome più conosciuto accanto ad altri rimasti forse più nascosti, tutto attraverso dischi usciti nell’ultimo decennio (2010-2020). Di alcune band citate ci siamo già occupati in passato, altre sono del tutto nuove per noi.

Un effetto collaterale forse buffo e del tutto imprevisto è che, pur con tutto l’impegno investito nel mantenere alto il livello di stoner, non solo quello del doom ma anche quello di droga e messaggi relativi a fumi allucinogeni pare rimanere abbastanza basso, seppur qua e là allusivamente presente. La quasi totalità delle band citate non riporta il consumo di droghe o alcol come tema principale dei testi, laddove indicato. Non è stata una cosa voluta e non siamo stati pagati per fare gli straight edge, lo giuriamo.

Che il listoneR abbia inizio.


Demonic Death Judge – The Trail 

(Suicide Records, 2020)

Non di solo death vive la Finlandia e questo quartetto di Kymenlaakso ne è la prova. I Demonic Death Judge si sono fatti strada nel sottobosco stoner-sludge senza eccessiva necessità di sgomitare per ottenere attenzioni, visto che è praticamente dal 2011 che sfornano lavori di qualità (qualcuno ha detto Seaweed?). Il qui presente The Trail è la loro quarta e ultima fatica in studio, nonché il disco più recente che troverete citato in questa lista. Sebbene il contrasto tra intenzioni musicali prettamente stoner e tappeto di voci più aggressivo e rozzo possa non essere del tutto immediato all’ascolto, basta inoltrarsi un po’ più in là per riconoscere che questa caratteristica è esattamente il marchio di fabbrica dei Demonic Death Judge: un effetto sorpresa che lì per lì può lasciare interdetto anche chi naviga nelle acque di questo genere da lungo tempo. The Trail è un disco intenso, inframmezzato da intermezzi strumentali squisitamente blues e farcito di riff ciccioni che nient’altro sono che una garanzia.


Oreyeon – Ode To Oblivion

(Heavy Psych Sounds Records, 2019)

Basta notare che l’etichetta che ha prodotto Ode To Oblivion è la Heavy Psych Sounds per avere la certezza che si tratti di un disco che vale la pena recuperare. Gli Oreyeon hanno alle spalle un percorso relativamente recente, eppure Ode To Oblivion è riuscito a infilarsi di prepotenza e con regolarità nei miei ascolti da ormai quasi due anni a questa parte. I quattro di La Spezia propongono uno stoner piuttosto tradizionale, arricchito di tinte psichedeliche e spaziali pensate appositamente per mandare in orbita, con un occhio di riguardo per quanto riguarda l’armonia delle parti vocali, ben curate e studiate per aggiungere corpo ai sei brani della scaletta. L’impressione è di trovarsi in uno sci-fi anni Ottanta, complice anche la copertina in cui l’universo sembra risucchiarci in un buco nero che altro non è che l’occhio dell’universo stesso: l’effetto finale, che ve lo dico a fare, è riuscitissimo.


Skraeckoedlan – Sagor

(Razzia Records, 2015)

La spaventosa lucertola di Sagor prende il nome da Skräcködlan, il nome svedese del dinosauro protagonista de Il Risveglio Del Dinosauro, film di fantascienza del 1953. Gli Skraeckoedlan scelgono di raccontare le loro saghe farcite di stoner e psichedelia proprio nella loro lingua madre, con un risultato forse insolito per le nostre orecchie ma decisamente efficace. I temi principali trattati dai quattro di Norrköping sono — ma guarda un po’ — i dinosauri e la fantascienza, e Sagor non è nemmeno il loro lavoro più recente, soprattutto se consideriamo che negli ultimi mesi sono stati pubblicati due singoli che presumibilmente anticipano un disco prossimamente in uscita. Vale senza dubbio la pena recuperare la loro discografia, per ragioni personali e in qualche modo affettive, però è Sagor che si è meritato il suo posto in questa lista più degli altri, anche per via della sua vena sperimentale. Coraggio, avvicinatevi e non abbiate paura di “El Monstro” (unico pezzo in cui è ospite una voce femminile, quella di Matilda Mård).


Dö – Astral Death Cult

(Lay Bare Recordings 2019)

Abbiamo avuto modo di parlare dei sulle nostre pagine qualche anno fa, in occasione dell’uscita dell’EP Astral Death / Birth, ed eccoli di nuovo tra noi con il loro album più recente. Tra le band citate in questo articolo, sono forse quella in cui la componente doom emerge maggiormente, sebbene rispetti i parametri citati all’inizio e non sovrasti mai del tutto o completamente il lato stoner. Voci sporche e distorte, fuzz, accordi non troppo rifiniti e bpm (quasi) mai esageratamente su di giri sono le componenti principali di questo gioiellino, che in maniera circolare si apre e si chiude con il suono intermittente di quella che sembra una sonda in procinto di atterrare, presumibilmente sul pianeta sconosciuto raffigurato in copertina. Viaggi intergalattici mentali di un certo livello, insomma. Lasciamoci rapire dall’astrale culto della morte e trasportare ovunque esso voglia condurci, perché sicuramente sarà meglio del posto in cui siamo già.


XII Boar – Split Tongue, Cloven Hoof

(Autoprodotto, 2012)

Il porco selvatico dei XII Boar (leggasi: Twelve Boar) ha alle spalle due dischi, ho scelto però di parlarvi di questi tre inglesi (che a pelle mai avrei detto fossero inglesi) attraverso un EP del 2012 per un motivo molto semplice: si tratta di 19’42” di mazzate senza sosta né tregua a ritmi elevatissimi, fatti di bassi ciccioni, assoli dal gusto quasi alternative rock e una bella vociona gutturale di indubbio spessore. Mi stupisce il fatto che si autoproducano ancora, ma questa è un’altra storia che può celare ben più di un risvolto. Mi limito quindi a segnalare Split Tongue, Cloven Hoof come un ascolto breve ma intenso e, soprattutto, esemplificativo di ciò di cui i XII Boar sono capaci, in grado di dimostrare che spesso e volentieri non serve dilungarsi troppo per lasciare un segno e convincere chi ti ascolta che vale la pena dedicare qualche ora a recuperare la tua discografia, che in questo caso è pure piuttosto contenuta. Purtroppo o per fortuna.


Church Of Misery – Thy Kingdom Scum

(Rise Above Records, 2013)

Tra quelli riportati fin qui, probabilmente i Church Of Misery sono il nome più grosso, pur trattandosi di una band incredibilmente attiva sia in studio, con un nutrito numero di split ed EP, che dal vivo, la quale riesce allo stesso tempo a rimanere relativamente di nicchia, proprio a causa della proposta sonora. La creatura di Tatsu Mikami, che è anche l’unico componente fisso dal 1995, è riuscita a viaggiare dalle terre del Sol Levante fino al lontano ovest, conquistandosi una schiera magari non ancora esagerata ma sicuramente fedelissima di adepti. Ciascun brano ripercorre la vita di serial killer realmente esistiti, rendendo ogni disco una brutale raccolta di scelleratezze e azioni di menti insane in chiave stoner-doom. Thy Kingdom Scum è film horror per le orecchie, nella miglior accezione possibile.


Yawning Man – The Revolt Against Tired Noises

(Heavy Psych Sounds, 2018)

Altro giro, altro disco HPS, anche se qui la questione è più complessa. Sempre a proposito di nomi grossi, si dice che in principio fossero i Kyuss e li si cita in continuazione, anche giustamente. Sebbene i Kyuss debbano assolutamente essere lodati e glorificati, va in ogni caso specificato che (poco) prima di loro c’era il desert rock degli Yawning Man dei fratelli Lalli. 1986, assolata e torrida California, generatori diesel in mezzo al deserto con gente che non aveva niente di meglio da fare che mettersi a jammare senza ritegno: questo il contesto in cui è stata, forse perfino inavvertitamente, formata una band che è ancora viva e attiva, nonostante i molti cambi di formazione. ll quasi del tutto strumentale The Revolt Against Tired Noises ci regala echi e riverberi che sono per forza di cose familiari, senza per questo essere invecchiati di un giorno. La chicca principale è “Catamaran”, brano reso famoso proprio dai Kyuss nel 1995 nonostante si trattasse di una cover: gli Yawning Man hanno finalmente deciso di inciderlo una volta per tutte appena un ventennio più tardi, circa. Il suolo che ha dato vita a praticamente tutto il desert-stoner successivo è più fertile che mai. 


Elevators To The Grateful Sky – Cape Yawn

(HeviSike Records, 2016)

Ci spostiamo dalla West Coast alla Sicilia, con una temperatura che probabilmente rimane piuttosto stabile e che è ben tramutata in musica dagli Elevators To The Grateful Sky. La formazione, in cui milita anche il poliedrico Giorgio Trombino, ha pubblicato ben tre dischi nell’ultimo decennio: se Cloud Eye era l’esordio e Nude la consacrazione di una commistione di generi, il mezzano Cape Yawn — l’influenza degli appena citati Yawning Man non è mai stata tenuta nascosta — è quanto di più bilanciato ci sia nella discografia dei Nostri. Ascoltarli significa non solo farsi buttare in faccia pacchi di stoner e psichedelia, ma anche atmosfere di rock settantiano che convincerebbero senza ombra di dubbio pure gli ascoltatori più old school o quelli a cui lo stoner è sempre sembrato troppo, troppo scontato, troppo simile, troppo ripetitivo che sia. Di occasioni per cambiare idea ne trovate diverse, Cloud Eye è indubbiamente una di queste, si sale davvero altissimi.


Nine Million Witches – The Rapture

(TFT Label, 2016)

A proposito di stoner senza fantasia e del suo contrario, sapevate che esiste lo stoner pop? Ora sì. Non commettiamo però l’errore di pensare al pop nel senso immediato del termine travestito da musica alternativa, perché i francesi Nine Million Witches, abbreviati in 9MW, fanno molto di più e lo fanno anche molto bene. The Rapture mescola uno spiccato gusto blues combinato ad atmosfere leggere, patinate e che non si fa fatica a immaginare figurativamente cariche di glitter, non per questo comunque andando a finire su suoni scontati. Il risultato non è eccessivamente impegnativo ma decisamente interessante, perché in fondo la musica brutta è pur sempre brutta (e bella) a modo suo. Un disco niente affatto tradizionale che sa benissimo dove vuole arrivare e ci arriva alla grande.


Elephante – Elephante

(Autoprodotto, 2012)

Tornando per un momento in Italia, tra l’altro in prossimità delle mie zone, ci imbattiamo nell’unico album nemmeno troppo recente degli Elephante, band stoner rock strumentale di Latina. Purtroppo non mi è stato possibile reperire altre notizie fresche su di loro, se non che hanno continuato l’attività dal vivo in maniera più o meno regolare, come mostrato dal loro profilo Instagram (quello Facebook non sembra essere più in funzione). La musica degli Elephante non ha bisogno di essere spiegata poiché sa farlo benissimo da sola, scegliendo in effetti la band di dedicarsi a una tipologia di stoner più classico, quella se vogliamo più primordiale e legata agli esordi del genere stesso. Dispiace che non sia disponibile ulteriore materiale studio, rallegriamoci però di poter ascoltare Elephante, che tra l’altro ricordo come una delle mie primissime esperienze di stoner rock dal vivo, proprio in quel di Latina. We found stoner in a hopeless place, più o meno.


Maligno – Mundo Ciego

(Autoprodotto, 2015)

Vai in Messico, trova un cantante che suoni incredibilmente simile a Ozzy e mettilo come frontman di una band dal nome cattivissimo, in tutti i sensi: così nascono nel 2004 i Maligno, inizialmente dediti in effetti a cover dei Black Sabbath prima di trovare la propria strada. Anche dopo aver deciso di dedicarsi a pezzi inediti l’influenza sabbathiana è rimasta, per cui qui non sorprende la presenza del doom in forma di accordi di iommiana memoria. Se da un lato la voce di Luis Barjau riesce sul serio a darci per qualche istante l’illusione di essere all’ascolto della storica band inglese, dall’altro la parte strumentale di Mundo Ciego — e il fatto che sia cantato in spagnolo, dettaglio non trascurabile — riesce a riportarci con i piedi per terra e a ritagliarsi la sua personale individualità, fatta di distorsioni, assoli infuocati e riff sparati al galoppo per ben tre quarti d’ora di durata.


Zippo – After Us

(Apocalyptic Witchcraft, 2016)

Per concludere in bellezza non potevano mancare gli Zippo. La band ne ha fatta di strada dall’ottimo esordio Ode To Maximum, di cui abbiamo parlato sulle nostre pagine in occasione della sua reissue nel 2018, sempre mantenendo la qualità altissima: questo trafiletto è dedicato all’ultima (per ora, ci auguriamo) delle imprese dei Nostri, un trionfo di linee vocali graffiate, quasi soffuse, spesso sovrapposte e a volte che rimangono sul parlato. After Us riesce allo stesso tempo a essere un disco immediato, di facile assimilazione e comunque pregno di materiale interessante, che alterna episodi desert quasi tribali ad altri sperimentali. La mancanza di omogeneità generale nelle scelte stilistiche potrebbe risultare ad alcuni confusionaria, mentre da parte mia la considero il punto di forza di un album che è assolutamente necessario ascoltare fino alla fine.