ARKHETH – Clarity Came With A Cool Summer’s Breeze
Chi è dotato di una buona memoria ricorderà che il nome Arkheth è già apparso a queste latitudini qualche mese fa: a settembre, infatti, G.E.F. aveva trattato Clarity Came With A Cool Summer’s Breeze su Extrema Ratio #36. Dal canto mio, mi pento e dolgo di averlo recuperato solo in questi giorni, approfittando di quel momento di grazia mistica fra la conclusione di un anno frenetico e l’inizio di quello nuovo che i comuni mortali definiscono ferie.
Rimpiango di non essermi lasciata trascinare prima nel magico mondo di questo progetto australiano, dove le tenebre in cui dimorano normalmente i miei ascolti lasciano spazio a un caleidoscopio iridescente di sfumature sonore da cui ancora fatico a riprendermi, nel senso più positivo che possa esserci. Come già si può notare dalla copertina, Clarity Came With A Cool Summer’s Breeze è un album decisamente sui generis: le prime note, poi, chiariscono come Tyrone Kostitch e i musicisti che hanno partecipato alla sua realizzazione abbiano preso le etichette sotto le quali vengono catalogati i vari generi musicali, le abbiano accartocciate e poi gettate in un vortice cosmico. Infatti, ogni brano rappresenta idealmente la tappa di un viaggio sempre più straniante in un mondo sconosciuto e quasi fiabesco, dove le sorprese si celano dietro ogni angolo e non è facile anticipare cosa ci aspetta durante l’ascolto: sarà una ballabile sezione elettronica come in “Kundalini” oppure una digressione sul tema della psichedelia degli anni Sessanta e Settanta, come avviene all’interno di “Patience In The Garden Of Fire?” Ci ritroveremo ad ascoltare orchestrazioni da spettacolo di varietà (“Psychonautica”) oppure dovremo fare i conti con sferzanti e gelide linee vocali black metal (“Neptune Beaches”)?
Come ci insegna Dante Alighieri, i viaggi più disorientanti hanno bisogno di una guida, di una costante che si manifesti ripetutamente e possa indicare la via: in questo caso, il ruolo di Virgilio è stato inaspettatamente affidato al sassofono, che è presente nella quasi totalità dei brani e rende il tutto più caldo e travolgente. Nel complesso, le suggestioni musicali presenti in Clarity Came With A Cool Summer’s Breeze sono parecchie e certamente complicate da arrangiare: tuttavia, Tyrone è riuscito a unirle in maniera coerente e a calare i variopinti scenari creati dalla musica degli Arkheth all’interno di una struttura generale fortemente melodica e accattivante che non solo funziona, ma esercita un effetto magnetico sull’ascoltatore. Nel corso delle numerosi riproduzioni non l’ho trovato ostico nemmeno per un istante, anzi ogni volta sono riuscita a cogliere dettagli nuovi e a provare sensazioni diverse, che non si sono mai ripetute.
In conclusione, dunque, il quarto album degli Arkheth non appagherà il palato di chi è votato solamente all’oscurità, al gelo e al caos demoniaco, ma è invece un’uscita da non perdere se si amano le sperimentazioni e le variazioni sul tema, e se progetti come Thy Catafalque, Onségen Ensemble e Sigh fanno già parte della propria libreria musicale.