ASBEST – Driven
«Asbest», termine tedesco per l’asbesto o, più comunemente, amianto: nelle parole della band stessa, una fibra che è parte della struttura e che al contempo è indesiderata, diventando dannosa nel momento in cui si tenta di rimuoverla. Da queste parole, è intuibile come l’intento dell’omonimo trio di Basilea sia quello di dare in un certo senso fastidio col suo primo LP.
L’obiettivo si può dire centrato: andando a spezzettare i quaranta minuti e spicci di Driven, infatti, viene fuori tutta la durezza di un lavoro che miscela sapientemente diversi generi. C’è il post-punk, c’è il noise vagamente alla Slint, lo shoegaze e le sue stratificazioni che portano a un muro di suono fatto di chitarroni strabordanti e ritmiche ossessive. Le voci di Robyn Trachsel e Judith Breitinger si amalgamano e ci accompagnano attraverso un’esperienza la cui abrasività si manifesta ora sonoramente, in episodi come la sofferta “Deceit”, ora tematicamente, con una “Means Of Reproduction” dalle tinte quasi jazz, lunga, ipnotica e alienante così come lo è la società che spinge a riproduzione e produttività spasmodica.
Driven è una bella vetrina del repertorio di fonti da cui gli Asbest hanno modo di attingere, che si spingono fino alla sperimentazione pura di “I Need A Spacesuit To Leave My Home”, praticamente separata alla nascita dalla celebre e discussa “Message To Harry Manback” dei Tool. Un disco freddo e meccanico ma allo stesso tempo sanguigno e sentito, come nella gran tripletta composta da “Chain Reaction”, “Pillars” e “They Kill”, prima del gran finale con “Persona Non Grata” e la sua lunga coda che strizza l’occhio al post-rock più caotico e destrutturato.
Per essere il primo lavoro sulla lunga distanza, gli Asbest hanno confezionato qualcosa che mette già in atto le potenzialità della band e che genera non poca curiosità per la futura evoluzione. Un centro sicuro per chi apprezza le sonorità tendenti all’indie dalle tinte più grezze e primitive.