ASHENSPIRE – Hostile Architecture
Con il termine architettura ostile si indica la tendenza a inserire elementi deterrenti all’interno dell’arredo urbano, come ad esempio piani inclinati e punte in funzione anti-senzatetto, oppure panchine con braccioli mediani che impediscono alle persone di distendersi su di esse. In Hostile Architecture gli Ashenspire riprendono il concetto e ne ampliano la portata. Secondo gli scozzesi a essere ostile è la città stessa, luogo in cui le disuguaglianze sociali ed economiche sono sempre più palpabili e dove gentrificazione e speculazione edilizia spingono porzioni crescenti della popolazione verso i palazzoni delle periferie e i centri satellite, ormai ridotti a città dormitorio.
L’ensemble basato a Glasgow ha debuttato sulla piena lunghezza nel 2017 con Speak Not Of The Laudanum Quandary, un buon lavoro che lasciava intravedere una certa fascinazione per formazioni come A Forest Of Stars e per la sperimentazione, oltre a discreti margini di miglioramento. Con Hostile Architecture, registrato nel novembre del 2020 e rilasciato nel luglio di quest’anno da Code666 Records, i Nostri alzano ulteriormente l’asticella della qualità. Le intuizioni presenti nel debutto vengono riprese, ripulite e levigate prima di essere nuovamente espanse, anche grazie al contributo dei numerosi ospiti. Accanto a Scott McLean (Falloch), nuovamente al piano come nel disco precedente, troviamo tra gli altri Otrebor (Botanist, Ophidian Forest) al dulcimer martellato e Matthew Johnson al sassofono, strumento che ho imparato ad apprezzare grazie a progetti come White Ward e Æthĕrĭa Conscĭentĭa.
Sin dalle prime note di “Law Of Asbestos” ci si rende conto di quanto il nuovo lavoro degli Ashenspire sia stratificato e complesso. Le note calde del sassofono accompagnano il dulcimer, mentre gli altri strumenti si inseriscono in un crescendo che dalle iniziali atmosfere lounge culmina in un caleidoscopio di chitarre distorte, batteria serrata e incursioni free jazz, per poi scemare nuovamente in un finale evocativo dominato dal violino. La successiva “Bèton Brut”, invece, è più orientata verso il black metal, con un riffing davvero ben pensato, una sezione ritmica serratissima e inserti di sax che ora costruiscono dissonanze e ora vanno a sottolineare le parole di Alasdair Dunn. Altro brano, altra esplorazione musicale con le atmosfere avant-jazz di “Plattenbau Persephone Praxis” ed è così per l’intera durata del disco: per quasi tre quarti d’ora la band miscela senza soluzione di continuità influenze tra le più disparate, decostruendo e ricostruendo percorsi musicali imprevedibili. Nulla appare fuori posto in Hostile Architecture, nemmeno un episodio come “How The Mighty Have Vision”, con le sue atmosfere da musical di Broadway e il suo coro a due voci (Amaya Lopez-Carramerro come alto e soprano e Rylan Gleave come tenore e basso). Particolarmente azzeccata, inoltre, la scelta di ridurre il minutaggio dei singoli episodi, che risultano così meno dispersivi e più incisivi.
Se l’aspetto musicale è, a mio avviso, impeccabile, lo stesso si può dire dei testi. Scritti dallo stesso Dunn, sono valorizzati dal ricorso allo sprechgesang. Sviluppatosi in seno all’espressionismo tedesco, questo particolare stile fonde cantato e recitazione: elemento, questo, che aggiunge un tocco di drammaticità e teatralità all’opera. Come già anticipato nel primo paragrafo, le liriche girano intorno alle disuguaglianze presenti nel tardo capitalismo e al modo in cui queste si riflettono sulla struttura urbana e sullo stesso aspetto degli edifici. Un argomento, quello della critica al capitalismo, in cui è facile cadere in banalizzazioni e in slogan tanto orecchiabili quanto poveri di contenuto, ma non è questo il caso. I testi di Dunn sono intelligenti, graffianti, in bilico tra rabbia e disillusione: «Fuelled with your labor / Built with your bones / There are no great man / Only the great many» (“Tragic Heroin”).
Hostile Architecture è un disco in cui mi sono imbattuto quasi per caso e che è stato capace di ammaliarmi al punto da essersi guadagnato un posto sicuro nella mia personale top 10 di quest’anno. Ben scritto, ben suonato, imprevedibile, ricchissimo di spunti e privo di sbavature di sorta è un lavoro con cui gli Ashenspire hanno saputo superare se stessi. Inutile dire che aspetto con ansia il suo successore.