BLACK MIDI – Schlagenheim
Schlagenheim dei black midi appare nel bel mezzo della scena underground britannica come un fulmine a ciel sereno. Questo giovane quartetto londinese è riuscito in brevissimo tempo a scatenare una tormenta mediatica di proporzioni notevoli, seguita da uno sciame di recensioni e critiche positive, se non addirittura esaltanti.
Ciò che ha colpito immediatamente l’orecchio della critica è stata la fittissima rete di sonorità che forma lo stile del gruppo, il quale macina in un unico mortaio post-punk, noise rock, post hardcore, no wave e math rock. Una formula che di primo acchito può sembrare improponibile e pericolosamente instabile, ma che i black midi sono riusciti a bilanciare e smussare a sufficienza per renderla concreta.
Iniziando l’ascolto con “953” si viene travolti da sonorità caotiche, distillate dal noise rock parossistico dei Lightning Bolt e dalla frenesia del post-hardcore alla NoMeansNo. Nel giro di un minuto, però, la musica rallenta, si rilassa e si distende, accompagnata da una voce nasale ed eccentrica che, con la sua andatura irregolare e barcollante, ricorda molto Talking Heads e Pere Ubu. Già dopo un paio di canzoni iniziano a rivelarsi le due facce di quest’opera: da una parte l’anima è quella del punk anni ’80, che nelle sue sfaccettature più colorate e singolari mescola sperimentalismo e ritmiche accattivanti (basti pensare a DEVO, The Fall e This Heat, giusto per nominarne alcuni); dalla parte opposta, indissolubilmente collegata alla prima dall’evoluzione storica del punk stesso, la forza travolgente del noise rock e del math rock, che iniettano ulteriore adrenalina nel composto (uno dei principali donatori di quest’ultima è sicuramente l’ultimo lavoro dei Daughters).
Canzoni come “Reggae” mostrano il fiorente e resistente intreccio tra le due componenti, enunciate poco sopra; la canzone cresce e si trasforma repentinamente, a partire da una voce soffusa e chitarre sognanti, fino a esplodere in dissonanze distorte alla Shellac. Brani quali “Speedway”, inoltre, mostrano il debito verso il minimalismo no wave dei Contortions e l’avanguardismo dei Cabinet Voltaire, mitigati da una produzione più lucida e da un andamento più lineare.
Ciò che sorprende, in fin dei conti, sono il rispetto e la reverenza che le miriadi di tecnicismi e sperimentalismi mostrano nei confronti della musicalità stessa. Quest’ultima non verrà mai sottoposta a soprusi metrici o violenze sonore, ma rimarrà sempre coesa nella sua struttura, sia essa composta da crescendo a scoppio ritardato (come su “Near DT, MI” e “Ducter”), da suite sognanti (“Western”) o da costruzioni contorte ed eccentriche (“Of Schlagenheim” e “Years Ago”).
Lungi dall’essere considerato un vero capolavoro, Schlagenheim ha il merito di aver dato rinnovato vigore a un gran numero di sonorità, sopite negli anfratti più nascosti degli ultimi tre decenni. Da questa pietra grezza si evocano innumerevoli rimembranze e si aprono numerosi sentieri ancora da battere. Infatti, nonostante la policromia del loro stile, i black midi dovranno intraprendere un percorso d’approfondimento delle proprie sfaccettature artistiche: la voce di Greep in alcuni momenti è forse troppo stucchevole ed esasperata (come su “bmbmbm”) e inoltre si percepisce che l’esplosività, attualizzata appieno solo in alcuni punti, è stata parzialmente soffocata per permettere alla struttura di reggersi. Una forma cristallina che contiene un cuore che non pulsa, ancora, al massimo delle sue capacità. Un compromesso più che comprensibile, dopotutto, per un gruppo tanto giovane, ma dai così ampi orizzonti.
Per concludere, è possibile affermare (senza riserve dettate dall’esaltazione del momento) che Schlagenheim si rivelerà tra i migliori dischi dell’anno e i black midi una delle formazioni più rocambolesche che vi capiterà di scoprire.