BLAZE OF SORROW – Vultus Fati
Un cavaliere in sella al suo destriero che procede verso un castello diroccato, che contrasta con delle cime rocciose illuminate dal sole che sorge (o tramonta): non è un fotogramma dell’iconico film Ladyhawke, ma il biglietto da visita con cui i Blaze Of Sorrow hanno scelto di presentare a posteri e contemporanei il loro ultimo album Vultus Fati.
In effetti, l’artwork di Adam Burke ben rappresenta il mood epico che caratterizza questo disco e lo differenzia dal precedente Absentia, che sembrava invece molto più tarato sulla malinconia e l’introspezione (per quanto quest’ultima non venga affatto sacrificata). Una simile scelta stilistica risulta perfettamente coerente con le tematiche principali di Vultus Fati, come gli stessi Blaze Of Sorrow spiegano nell’intervista con cui sono stati puntualmente torchiati dalla sottoscritta: infatti, Vultus Fati ruota attorno all’amara ma inevitabile consapevolezza di essere soli di fronte alle avversità della vita, senza dimenticare anche l’inesorabile scorrere del tempo.
Va da sé che, oltre a un’adeguata rappresentazione grafica, un simile piglio eroico necessiti di una traduzione musicale altrettanto valida: infatti, i brani contenuti all’interno di questo album tendono a sviscerare ritmi molto serrati, quasi a voler ricalcare l’incessante galoppare del protagonista della copertina mentre cavalca verso il suo ignoto destino; un esempio calzante è rappresentato da “Flammae”, che offre anche uno dei momenti più black metal e meno atmosferici di tutto l’album.
Tuttavia, se si pensa che un andamento del genere possa sacrificare l’attenzione verso la melodia, ci si sbaglia di grosso: uno dei punti di forza principali dei Blaze Of Sorrow sono le melodie intessute dalla chitarra (sia elettrica che acustica) e anche in questa sede i Nostri non si risparmiano affatto, regalandoci dei momenti di più ampio respiro che possono essere ritrovati, per esempio, in “Nel Vento” oppure nella conclusiva “Aura”. Un altro elemento molto interessante è dato dalla presenza del violoncello, che a mio avviso trova la sua espressione più evocativa all’interno di “Furor” e di “Waldgänger”; qua la sensazione percepita è quella di volersi staccare momentaneamente dalla lotta per la sopravvivenza e di andare a rifugiarsi in spazi bucolici, coerentemente con la retorica medievale che vede nel Waldgänger colui che si ritira nella foresta, dandosi alla macchia.
Il verdetto finale non deve affatto lasciare sorpresi: Vultus Fati può benissimo convincere tanto i seguaci dei Blaze Of Sorrow quanto gli amanti dell’epicità che non tralascia la giusta dose di tenebre. Inoltre, è l’ennesima prova lampante di come la band mantovana rientri tra i tanti — ma mai troppi — progetti validi che si possono trovare all’interno del panorama italico.