CARCASS – Heartwork
I Carcass sono stati e sono (data la loro reunion) una tra le formazioni più influenti per quel che concerne il metal estremo. I loro periodi grind e death-death’n’roll hanno fornito spunti e ispirazione a centinaia di gruppi cresciuti con i loro dischi. Heartwork è l’album che si pone ad ago della bilancia, l’attimo della loro carriera che segna in maniera chiara il passaggio a un modo di suonare più vicino allo stampo svedese che non alla violenta e furente ignoranza del movimento inglese di quegli anni (Napalm Death, Extreme Noise Terror, Benediction, Bolt Thrower). Molti si trovarono spiazzati ascoltando il successore di quello che per la quasi totalità dei fan della band è il loro capolavoro assoluto — parlo di Necroticism – Descanting The Insalubrious —, un disco che riuscì ad amalgamare grind e death di stampo classico come nessuno a quel tempo.
Cos’ha Heartwork allora di così diverso? Iniziamo col dire che la presenza non solo fisica, ma anche legata all’animo musicale di Amott si fa più evidente. È vero che lo stesso Michael proveniva dai Carnage che non facevano vanto certamente di melodia e passaggi di fino, però pensando alla sua evoluzione stilistica futura che lo avrebbe portato a creare gli Arch Enemy si potrebbe anche ritenere che i Carcass siano stati un momento di passaggio intermedio.
Non si può sicuramente dire manchino le parti veloci e la tecnica (che inizia a essere importante) alla formazione di Walker e soci, i quali si applicarono nel trovare il connubio fra un’esecuzione death-thrash spinta, tirate ficcanti e una costruzione armoniosa di riff e assolo che spesso e volentieri si alternano senza richiamare il ruolo dei guitar hero — cosa che fin troppi purtroppo ahimè fanno odiernamente.
La scaletta che delizierà le nostre orecchie gode di una varietà compositiva e di una ricerca nell’assemblaggio dei brani difficile da riscontrare in quegli anni, un vero e proprio album di rottura: trovarsi come apertura “Buried Dreams”, cadenzata e dalla mentalità deviata, era già una sorpresa conoscendo i precorsi del gruppo; “No Love Lost” fa del groove il principale aspetto; “Heartwork” è follia che si realizza attraverso assalti rapidi inframezzati da aperture devastanti e orecchiabili. “Carnal Forge” e “Death Certificate” rappresentano i momenti più spinti, dove il piede sa premere adeguatamente sull’acceleratore, senza generare monotonia (il riffing della seconda citata l’avrete riconosciuto come parte della proposta di moltissime band degli ultimi anni), mentre la pancia formata da “Embodiment”, “This Mortal Coil” e “Arbeit Macht Fleisch” prolunga piacevolmente l’incontro con l’innovazione che si stava portando in atto. “Blind Bleeding The Blind” invece è forse la più debole del lotto, tuttavia definirla bella è comunque riduttivo.
Il lavoro svolto da Ken Owen dietro le pelli è perfetto, una macchina che non sbaglia un colpo e trova sempre il modo giusto d’inserire un passaggio, una semplice rullata per dar vita ad un cambio, brevi e pulsanti scatti sul charleston o picchiate frenetiche: è un orgasmo continuo. Jeff Walker lo supporta col basso, lineare quanto si vuole, ma libero così di far sfogare la voce, graffiante e stridente come nessuna, talmente unica da essere riconoscibile appena le labbra emettono la prima nota. L’operato fornito dalle chitarre di Billy Steer e Michael Amott è ineccepibile: riff elaborati in maniera esemplare e solistiche da capogiro danno riprova della loro grandezza.
Heartwork è un tassello portante del death metal e, insieme a Slaughter Of The Soul, un’attestazione significativa del cambiamento che avanzava nei primi anni Novanta. Può darsi che abbiano reso il genere più accessibile, tuttavia la colpa è da imputarsi ai tanti che hanno sfruttato malamente i loro insegnamenti e non va fatta ricadere su chi ha creato due opere d’arte uniche e fondamentali. Chi non conoscesse questo lavoro, ne verrà certamente conquistato dopo l’ascolto; se così poi non fosse, almeno avrà avuto l’occasione di apprezzare quello che è uno dei gioielli di casa Carcass.