CAVE IN – Heavy Pendulum
Tra le varie band al capolinea (apparente), i Cave In non erano certo tra quelli da cui mi aspettavo un ritorno. Nati ormai ventisette anni fa, dal debutto folgorante nel 1999 con Until Your Heart Stops la carriera di Stephen Brodsky e soci non è stata certo noiosa: una virata verso uno stile più alternative, l’approdo estemporaneo su una major con Antenna, il ritorno alle sonorità iniziali e due pause di riflessione, fino al nefasto 2018 con la tragica scomparsa del bassista Caleb Scofield, attivo anche nei mitologici Old Man Gloom.
L’eloquente Final Transmission, composto da demo registrate con Scofield e tirate a lucido nel 2019, faceva presagire una pietra tombale sul gruppo. Una sorta di chiusura del cerchio, anche in quanto ultima uscita della Hydra Head di Aaron Turner (semmai fossi vissuto sotto un masso negli ultimi venticinque anni, mente degli ISIS, Sumac e anche lui Old Man Gloom), un po’ la casa spirituale oltre che discografica dei Cave In. A giugno dello scorso anno, l’annuncio inaspettato: il gruppo firma con Relapse Records, al posto di Scofield viene assoldato uno suo spirito affine, Nate Newton dei Converge e già con Caleb negli Old Man Gloom, e nel 2022 esce Heavy Pendulum.
Devo ammettere che non avevo mai considerato il quartetto del Massachusetts prima di scoprire che i Mutoid Man fossero il gruppo del talk show Two Minutes To Late Night: da lì ho spulciato un po’ di cose relative a Brodsky e galeotto fu Until Your Heart Stops, ascoltato a ripetizione fino all’uscita dell’atteso ritorno che, manco a dirlo, inizia con uno sguardo al passato, un riff di “New Reality” uscito dritto dalle corde di Scofield; suo è anche il testo di “Amaranthine”. Fil rouge che collega questi due dischi è anche la produzione, affidata nuovamente alle saggissime manopoline di Kurt Ballou.
È bellissimo vedere come la vena compositiva dei Cave In sia tutt’altro che terminata: i pezzi di Heavy Pendulum sono ben quattordici e tra questi non ce n’è uno che sia un filler. Anzi, il quartetto del Massachusetts gioca tutte le sue carte a disposizione mettendo insieme un mix eterogeneo del proprio passato, di influenze esterne e non solo. Accanto ai pezzi tutto sommato dritti come le già citate “New Reality” e “Amaranthine” si stagliano richiami evidentissimi al grunge e all’alternative novantiani (la title track, veramente bellissima, e “Blinded By A Blaze”), ma anche incursioni più cervellotiche e mathcore: il riff iniziale di “Floating Skulls” può riportare alla mente proprio i Mutoid Man, mentre altrove si possono sentire cose abbastanza simili a un altro disco a cui ha lavorato Brodsky, ovvero quel capolavoro di Bloodmoon a marchio Converge & friends.
Insomma, sarebbe davvero criminale sorvolare sulle tracce di Heavy Pendulum che deviano dal format singolone pestato. Non che si viaggi su ritmi di musica leggera per il resto del disco, anzi, ma è proprio in quelle a bpm ridotti che il songwriting regala delle chicche di gran classe, come l’ipnotica “Nightmare Eyes”. Poi, i dodici minuti di “Wavering Angel” in chiusura del tutto, una stilettata al cuore che mi piace pensare essere dedicata al vecchio amico Caleb, il cui spirito permea tutto il disco, incluso anche il bellissimo artwork di Richey Beckett, che lascia un quinto spazio vuoto accanto ai musicisti in una delle illustrazioni interne.
Disco dell’anno? Per me è molto probabile, al di là dei confini di genere. Heavy Pendulum mescola melodie, aggressività, un po’ di follia in tempi dispari che non fa mai male e soprattutto tanta emotività, di quella sentita nel profondo. Avercene di gruppi come i Cave In.