CULT OF ERINYES – A Place To Call My Unknown | Aristocrazia Webzine

CULT OF ERINYES – A Place To Call My Unknown

 
Gruppo: Cult Of Erinyes
Titolo:  A Place To Call My Unknown
Anno: 2011
Provenienza: Belgio
Etichetta: Les Acteurs De L'Ombre Productions
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TRACKLIST

  1. Call No Truce
  2. Insignificant
  3. Ísland
  4. A Thousand Torments
  5. Permafrost
  6. Velvet Oppression
  7. Black Eyelids
  8. Thou Art Not
  9. Last Light Fading
DURATA: 46:48
 

Venire sorpresi da ciò che non ti aspetti è sempre una bella sensazione. La presentazione cartacea riguardante il debutto dei belgi Cult Of Erinyes era di quelle esaltanti: "A Place To Call My Unkwnown" è raffigurato come un album capace di progressioni avanguardistiche e digressioni doom, impregnato d'oscurità battente e martellante interrotta da fasi ambient e con una gamma di melodie malsane a fare da malevolo contorno. Cosa si può volere di più?

Un proverbio di quelli veramente saggi dice che fra il dire e il fare c'è di mezzo il mare e mai parole furono più centrate e propiziatorie. La curiosità rivolta all'ascolto mi ha fatto inserire il disco di getto nel lettore: il bello della formazione sta nel fatto che fonde più anime stilistiche con una grazia, dirompenza e personalità ben al di sopra di ogni più rosea previsione, demolendo lo scoglio del dubbio sin dall'apertura inebriante di "Call No Truce". Il nostro orecchio potrà godere di una collisione di più pianeti, giganti e dall'importante peso musicale: pensate di prendere gruppi quali Alastis, Enslaved, Neurosis, Blood Of Kingu e un pizzico del sapore Emperor, poi shakerate il tutto e avrete le note, le atmosfere e l'emotività ritualistica che compongono "A Place To Call My Unknown".

Come accade in qualsiasi opera formata da più episodi, ci sono alcuni picchi che elevano ancor di più il livello complessivo di per sè già fantastico: in questo caso fra i titoli di riferimento c'è "Insignificant", favoloso coi suoi intermezzi ambientali e i cambi di tempo repentini; di seguito la ricerca sfocia nelle voci "sporcate" e negli effetti sonori particolarmente studiati di "Ísland". Un altro binomio letteralmente micidiale è quello che vede in rapida sequenza l'esplosione progressive-ambient di "Permafrost", che sembra sprigionare un sentore nostalgico degli anni Novanta vivido e carnale, e la devastante "Velvet Oppression", in cui brilla la figura del batterista Baal, una vera macchina da guerra quando preme sull'acceleratore e un perfetto diversificatore d'incedere nei suoi dinamici e insistiti incastri. Impossibile non nominare poi la conclusiva "Last Light Fading", dall'umore cupo e avvolgente, che sino alle battute finali mantiene fitto e opprimente l'alone nero che serpeggia lussureggiante e diabolico di traccia in traccia.

"A Place To Call My Unknown" è un sole nero pronto a irradiarvi con i suoi raggi color pece, forte anche di una buonissima produzione che permette alle chitarre — dovutamente sature — di ritagliarsi un posto in prima fila senza spadroneggiare sul resto, mentre Mastema dietro al microfono stride, graffia e macera l'ascoltatore con la sua malignità abbondante. Per chi non avesse ancora compreso la sinfonia, i Cult Of Erinyes — dopo l'ep "Golgotha" già più che apprezzabile — hanno deciso di fare davvero sul serio e con un pregevole, raffinato e annerito diamante come "A Place To Call My Unknown" si sono superati. L'acquisto per un'opera simile è obbligatorio.