DORTHIA COTTRELL – Death Folk Country
Quello di Dorthia Cottrell è un nome che sicuramente suonerà familiare a chi già segue e conosce il suo progetto principale, una band a caso chiamata Windhand. Ciò che invece è forse meno noto è che Dorthia ha anche un progetto acustico solista, di cui si occupa stavolta anche chitarra oltre che la voce, con il quale ha pubblicato il secondo disco il 21 aprile.
La proposta parallela dell’artista ha poco ha che fare, dal punto di vista del genere trattato, con le sonorità stoner e doom: il progetto Dorthia Cottrell offre la possibilità di immergersi in uno stato d’animo e mentale di dolceamara malinconia, accompagnata dalle esalazioni del miglior folk americano in cui si respirano a tratti anche fumi inquietanti non proprio benefici — come nell’intro strumentale “Death Is the Punishment For Love”. Death Folk Country arriva otto anni dopo il debutto eponimo e non sorprende il fatto che ne ricalchi le orme, anche se in questa seconda creatura Dorthia sembra aver lavorato in maniera più incisiva sulle atmosfere e sui tappeti vocali.
Stando alle informazioni fornite sulla pagina Bandcamp, lo scopo del progetto è quello di documentare l’amore e riconciliarsi con l’idea dell’esistenza della morte: un sentimento il primo, un’inevitabile viaggio la seconda. Entrambi sono concetti astratti, non possiamo vederli di per sé ma possiamo percepirne i potenti, spesso devastanti effetti. Trovare dei punti di contatto tra amore e morte non è immediato, a prima vista queste due astrazioni condividono ben poco e sicuramente si tende ad associare la prima con qualcosa di bellissimo e la seconda con qualcosa di devastante, eppure sono indissolubilmente legati: è a causa (o grazie) all’amore che soffriamo quando la morte ci porta via qualcuno, è grazie (o a causa) della morte che in molti si liberano di dolori terreni e si preparano ad affrontare l’ignoto. È l’amore per chi abbiamo perso che fa sì che nessuno se ne vada mai via del tutto, a parte dal punto di vista corporeo. Ancora, è l’amore per chi non ci ricambia a uccidere lentamente, e potremmo andare sicuramente avanti con le analogie.
Quello che è chiaro è che l’amore e il dolore della perdita si prendono per mano e danzano insieme in quest’oscura versione di una musica folk priva di percussioni in senso stretto — ogni tanto si sentono dei piatti, ad esempio in “Family Annihilator” —, in cui la voce portante è protagonista assoluta, accompagnata da svariate armonie che danno un’effetto ancora più etereo ed incorporeo. Pare di affondare in una nebbia inebriante, senza sapere dove mettere i piedi ma facendolo comunque, come chiamati da una forza — l’amore? La morte? Entrambi? — più potente di qualsiasi altra cosa. In “Effigy At The Gates Of Ur” il folk appare nella sua veste più da ballata, con un risultato strappalacrime che farebbe intenerire anche il cuore più corazzato.
“Eat What I Kill” ha una struttura vocale molto semplice e ripetitiva che rafforza più che mai l’impressione di trovarsi in mezzo a esalazioni ipnotiche ed è il brano finale prima dell’outro strumentale “Death Is The Reward For Love”, in cui Dorthia dà una spiegazione più esaustiva del modo in cui concepisce amore e morte: la morte di chi amiamo è la punizione per aver amato, morire amando ci permette di ricongiungerci a chi abbiamo perso. Non un brutto affare, se lo vediamo così.
Il progetto Dorthia Cottrell non vuole essere una continuazione né una copia dei Windhand, che sono realtà distinte ed è bene che lo rimangano. Death Folk Country è il secondo capitolo della personale espressione di ciò che si cela nel paesaggio interiore dell’artista, nella sua emotività, nel cuore, nell’anima o come altro vogliamo chiamarlo. È un lavoro intimo al quale accostarsi con premura, avendo l’accortezza di non disturbare troppo e di ascoltare fino alla fine.