ENSLAVED – Heimdal
La scintillante carriera degli Enslaved sembra non conoscere passi falsi o battute d’arresto, neanche nelle fasi più sperimentali dei norvegesi o nel pieno della pandemia, con una serie di concerti online dalla qualità eccezionale. Un viaggio iniziato ormai trentadue anni fa — quando le folte barbe di Grutle Kjellson e Ivar Bjørnson erano lontane dal crescere sui loro visi da (pre)adolescenti — e che raggiunge il traguardo di sedici album sul groppone con Heimdal: manco a dirlo, l’ennesima perla in un periodo di forma strepitosa che dura almeno dalla metà degli anni 2000.
Nel momento della sua pubblicazione, Heimdal non è certo un disco pienissimo di inediti, anzi: dei quattro singoli estratti, “Caravans To The Outer Worlds” è uscito addirittura a ottobre del 2021, con una dilatazione dei tempi che ha probabilmente subito gli effetti della pandemia tra un ritardo di produzione e l’altro. Ciò non toglie un briciolo della coesione di cui gode il nuovo album della premiata ditta di Bergen che, citando Lewis Carroll e la teoria evoluzionistica, corre maledettamente veloce affinché resti ferma: il cambiamento e la progressione sono le uniche costanti negli Enslaved, che rimangono sempre e comunque riconoscibilissimi.
Riguardo i quattro brani già noti (“Congelia”, “Forest Dweller”, “Kingdom” e appunto “Caravans To The Outer World”) non c’è altro da dire, se non che suonano altrettanto bene calati nel contesto di un’opera completa: un caleidoscopio fatto di rimandi alle proprie radici con sfuriate black imbastardite e aggiornate alle velleità attuali del quintetto, sapientemente miscelati con elementi prog e krautrock sempre presenti in varie forme e misure.
Il resto, neanche a dirlo, non è da meno. È il corno di “Behind The Mirror” (suonato da Eilif Gundersen dei Wardruna) ad aprire le danze, tutto sommato un brano assolutamente in linea con gli ultimi Enslaved. “The Eternal Sea” è uno dei momenti più alti di Heimdal, che inizia come nessuno si aspetterebbe da un loro pezzo e continua sognante con la bella voce di Håkon Vinje, per cedere poi il passo al caratteristico scream di Grutle. In chiusura invece la title track, anch’essa con due nette metà in contrapposizione tra loro, oscura e ricca di atmosfera, tastierone grossissime e un assolo quasi dissonante rispetto al resto.
Di solito non mi lascio andare troppo ed evito di incensare eccessivamente questo o quell’altro disco, con Heimdal però mi sono trovato a dover fare un’eccezione. Per quanto mi riguarda — e considerando che ho apprezzato tanto E quanto ho trovato leggermente insipido Utgard — gli Enslaved hanno sfornato non solo uno degli album migliori dell’anno già a marzo appena iniziato, ma anche il loro miglior lavoro dai tempi di In Times o, se proprio vogliamo essere audaci, di Axioma Ethica Odini. Immensi.