GEVURAH – Gehinnom
Il Québec non è solo gelo estremo e black metal tradizionalista, ma anche passione nera e ardente per le melodie più distruttive. A testimoniarlo, nei mesi scorsi, l’ultima uscita di casa Gevurah, ovvero Gehinnom. Il secondo album del duo formato da X.B. (Atramentus e Oriflamme, tra gli altri) e A.L. arriva all’umanità dopo essere stato mixato dal buon Stephen Lockhart, cesellato dal punto di vista grafico dai sapienti interventi di Jocelyn Avoine aka Chimère Noire, Denis Forkas Kostromitin e Antithesis Ignis (Cold Poison Art Studio) e diffuso su scala internazionale dalla nefasta collaborazione tra End All Life Productions, NoEvDia e Profound Lore Records. Con un pedigree così, qualsiasi remora potessi avere in partenza, quanto meno a concedergli un ascolto, è stata fugata.
L’esperienza è conciliata da un breve rituale atmosferico di tipo preparatorio. Nell’eponima “Gehinnom”, infatti, non troviamo distorsioni, percussioni ritmiche o un cantato di sorta: due minuti e poco più di introduzione, lenta e meditabonda, tra chitarre acustiche, incensi e riverberi. L’assalto vero e proprio alla psiche arriva con il trittico “At The Orient Of Eden”, “Bload-Soaked Katabasis” e “Towards The Shifting Of Sands”. I blast beat non si contano, i riff in tremolo anche, ma la comunicazione non è un flusso lineare di sfuriate, quanto piuttosto un racconto articolato, dove agli assalti guidati dagli scream sulfurei di X.B. seguono aperture squisitamente atmosferiche, nelle quali riecheggiano i moniti spirituali lanciati nell’apripista.
Levitico, capitolo 16, versetto 22: «Quel capro, portandosi addosso tutte le loro iniquità in una regione solitaria, sarà lasciato andare nel deserto». Il messaggio trasparente, la strizzata d’occhio chiara: con Gehinnom, i Gevurah intendono offrire a chi ascolta uno strumento di riflessione e, se vogliamo, di purificazione attraverso la sofferenza, perché — è sempre bene ricordarlo — non è che ascoltare urla, blast e distorsioni a raffica sia proprio un’esperienza tranquilla e serena. “Memento, Homo…” ha un titolo monco che quasi pare sposarsi stranamente bene con la traccia finale della scaletta, ma in realtà offre al lettore e all’ascoltatore attento la sua tradizionale conclusione in chiusura di cantato. Sette minuti e mezzo di sfuriata malefica che, in un crescendo di feralità quasi estatico, ci conducono alla fine del processo di discesa negli inferi.
«Gehinnom è un viaggio attraverso un deserto fisico e metafisico, regno di morte e trasformazione. Dai suoi abissi, scendiamo passo dopo passo sempre più in profondità fino a raggiungere la resurrezione finale, con occhi aperti e spirito libero». È con queste parole che la stessa band prova a descrivere il senso della sua ultima opera. Per quanto mi riguarda, io riassumo più semplicemente i Gevurah con il titolo dell’ultima traccia in scaletta: gloria nell’alto dei cieli e guerra agli uomini in Terra. Una descrizione che tiene conto della simbolicità, della spiritualità e della passione distillate in ogni aspetto dell’opera.